Menu

Dalla California una lezione contro il populismo penale

Ogni tanto uno squarcio di sole trafigge le nuvole cupe che incombono sul nostro cielo.

È di questi giorni la notizia che il Governatore della California, ex sindaco di San Francisco, Gavin Newsom, ha deciso di sospendere la pena capitale nel suo Stato e ha bloccato l’uccisione di 737 persone attualmente detenute nel braccio della morte, con la conseguente chiusura della “camera della morte” di San Quintino. I giornali ci informano che in California si concentra un quarto del totale USA dei condannati a morte, circa 3000 persone, in attesa dell’iniezione legale. L’impegno del Governatore democratico Newsom è di impedire tutte le esecuzioni durante il suo mandato dal momento che non ha il potere di abolire la pena di morte: glielo vieta la volontà popolare. Infatti negli ultimi sei anni ci sono stati due referendum sull’abolizione della pena di morte e ogni volta i cittadini californiani hanno votato per mantenerla.

Indubbiamente Newsom ha dimostrato un grande coraggio politico sfidando gli umori popolari in un Paese, ostaggio della violenza, in cui non è mai tramontata la cultura del linciaggio.

La dimensione di questo strappo è stata immediatamente colta dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che su Twitter ha espresso il proprio disappunto: «Sfidando gli elettori, il governatore della California bloccherà l’esecuzione di 737 assassini a sangue freddo. Gli amici e i familiari delle vittime dimenticate non ne sono entusiasti, come non lo sono io!».

Trump ha messo le carte in tavola, rivendicando il consenso popolare che ancora assiste la pratica della pena di morte. Su questo consenso, che si spinge fino a organizzare scene di tripudio all’esterno dei penitenziari ogni volta che viene portata a termine un’esecuzione, molti uomini politici hanno costruito le proprie fortune elettorali. Alcuni anni fa il Segretario generale di Amnesty International, di ritorno da una visita nel Texas, ebbe a dichiarare: «Le carriere politiche qui nel sud si costruiscono anche sul numero di condannati che uno ha messo a morte: “Votate per me, manderò a morte più condannati del mio rivale”».

Del resto la logica intrinseca della pena di morte è quella della massima strumentalizzazione della persona umana per perseguire un fine politico. Si infligge la morte per scoraggiare comportamenti umani che vengono percepiti come dannosi per la comunità. Così, se negli Stati Uniti si infligge la morte per scoraggiare gli omicidi, in Cina per scoraggiare la corruzione, in Arabia e in Iran si può mettere a morte per adulterio o per apostasia (le cronache ci raccontano che in Iran una ragazza di 16 anni è stata impiccata per “atti contrari al principio di castità”). In tutti questi casi il meccanismo è identico: si attua la massima strumentalizzazione della persona, privandola della vita e trasformandola in cosa, per impartire indicazioni di comportamento ai consociati. È il vecchio meccanismo della vittima sacrificale. E negli Stati Uniti questa vittima è utile anche per rafforzare le carriere politiche. In fondo a questo meccanismo c’è una concezione utilitaristica dei diritti dell’uomo. La persona non è un valore di per sé (come insegna la Costituzione italiana): i diritti umani possono essere cancellati se questo torna utile alla società, alla religione dominante o al potere.

In questo contesto la sfida lanciata da Newsom al suo stesso elettorato è un evento di enorme portata politica, perché rovescia il paradigma del populismo penale e provoca il corpo sociale a un ripensamento valoriale, mettendo in crisi la cultura della vendetta (evocata da Trump). A differenza dei messaggi dei politici italiani che coltivano il rancore sociale, quello di Newsom è un messaggio educativo destinato a fare scandalo e, proprio per questo, a provocare un risveglio delle coscienze.

Noi non possiamo che augurare al Governatore Newsom di essere rieletto e ai suoi avversari di incappare in qualche scandalo sessuale che demolisca la loro popolarità.

da Volerelaluna