Dalle stragi di Stato alla vendetta di Stato. Ecco perché
- maggio 06, 2021
- in amnistia, anni '70, Editoriale
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Anche in questi giorni a Parigi è entrata per l’ennesima volta in scena la “tragedia di uno Stato ridicolo” o meglio, oggi, di una Unione Europea che mostra il volto imperialista e repressivo nella sua tragicommedia della “cronaca degli arresti annunciati”.
Ancora una volta sotto attacco non tanto e non solo noi comunisti, ma la storia articolata, complessa e anche contraddittoria, ma sempre di grande passione di idee e lotte per il cambiamento del movimento rivoluzionario nella sua interezza e nella sua specificità dei “cosiddetti anni ‘70”; una sorta di avviso ai naviganti ribelli, ai rivoluzionari e agli oppositori che continuano a confliggere.
“Anche dopo 40 anni la costruzione repressiva capitalista e imperialista non perdona chi ha avuto l’ardore, l’onore e la coerenza di cercare e di continuare a volere una società altra lottando per il socialismo rivoluzionario”.
Questa è una vendetta sugli anni Settanta, si gioca una partita di vendetta ma anche di avvertimento e minaccia contro chi ha cercato di mettere in discussione già allora gli attuali assetti dichiarando oggi che non c’è una possibilità di rottura, di trasformazione, respingendo senza appello le istanze che portano avanti il movimento operaio e il movimento studentesco, i movimenti dei senza casa, dei migranti.
Le contraddizioni dell’Italia di oggi, o ancor più del polo imperialista dell’Unione Europea dell’oggi in cui si rigenera con il Governo di Unità Nazionale quell’Italia che non ha fatto i conti con la propria storia, il paese delle stragi impunite, dei killer fascisti e dei servizi segreti “deviati”, che l’hanno sempre fatta franca, di stragi che si dice non si conoscano autori e mandanti, mentre i compagni sono stati ammazzati, arrestati, feriti, vittime di una guerra civile strisciante.
Davanti a questi fatti storici, che evidenziano i passaggi delle forme Stato con la rappresentazione fattuale, reale delle stragi di Stato fino all’attuale vendetta di Stato, bisognerebbe chiedersi che senso ha prendersela con gli esuli a Parigi, che hanno pagato il prezzo alto dell’esilio mentre i fascisti, rei confessi delle stragi, i mandanti e i loro uomini fedeli degli apparati dello Stato circolano liberamente per le nostre strade?
Da parte nostra sottolineiamo l’uso strumentale che di questa vicenda dolorosa (per le vittime e le loro famiglie, ma anche per le vittime del movimento di classe e per i compagni arrestati dopo 40 o 50 anni e le loro famiglie) stanno facendo entrambi i governi francese e italiano, ma l’intera Unione Europea, per il tentativo di ingabbiare le lotte.
La cosiddetta dottrina Mitterand non era una farneticazione ma una risposta giuridicamente fondata che tutelava gli esuli dalle aberrazioni della legislazione emergenziale, così come ha messo in salvo i cileni e gli argentini in fuga dalle persecuzioni politiche.
I compagni tutti hanno pagato duramente, con il carcere o con l’esilio. E ora, dopo 40 anni, invece di parlare finalmente di conti con la storia e di una amnistia per reati politici e sociali, si riaffronta la realtà del conflitto sociale con l’uso insensato e spregiudicato del carcere; si portano compagni in galera, qui nel paese delle stragi impunite, dei colpi di Stato, dei processi fondati sulle mezze verità dette da un pentito che, relata refero, le riporta da altre fonti incontrollabili e su questa base si prende l’ergastolo…
Non è accettabile politicamente né umanamente riproporre dopo tanto tempo provvedimenti giudiziari datati e peraltro già all’epoca in buona parte motivati dalla politica controrivoluzionaria con l’aberrante idiozia dei “reati associativi” e dei “reati di opinione”.
Ecco di che cosa può essere imputato il movimento rivoluzionario nel suo complesso della grande stagione di lotte degli anni ’60 e ’70: lottare per la democrazia di base partecipativa per un paese e un mondo socialista.
Il ciclo di lotte avviate nel biennio 1968-1969 proseguì intensissimo fino al 1973 (i nuovi rinnovi contrattuali, aperti nel ’72, diedero origine ancora a un’ondata eccezionale di scioperi, che culminarono nel marzo del ’73 in uno sciopero a oltranza dei metalmeccanici, di fatto una specie di occupazione degli stabilimenti).
Ma soprattutto si sviluppò in quegli anni un movimento di base senza precedenti, per estensione, per radicalità e per continuità, che rappresentò senza dubbio la massima espressione di forza mai raggiunta storicamente dai lavoratori.
Nelle fabbriche e negli uffici i delegati erano in grado di contrattare permanentemente, e spesso con successo, tutti gli aspetti della condizione lavorativa (da qui l’espressione “conflittualità permanente”). Furono stipulati contratti di lavoro più moderni e avanzati (si realizzò, per esempio, la parità normativa tra operai e impiegati).
Ai lavoratori dipendenti fu riconosciuto anche il diritto di migliorare la propria formazione scolastica e culturale, furono istituiti appositi corsi (le cosiddette “150 ore”) per consentire il conseguimento di un titolo di studio, ai diversi livelli, creando così un importante momento di confronto tra il mondo del lavoro e quello della scuola e dell’università.
E intanto, all’esterno, tutta una serie di movimenti di lotta premeva per l’estensione dei servizi sociali, per la democratizzazione delle istituzioni, per una partecipazione popolare dal basso (molto forti, in tutta la prima parte degli anni Settanta, furono le lotte per la casa, con occupazioni di alloggi ad edilizia popolare appena costruiti, autoriduzioni o scioperi degli affitti, proteste guidate da vari comitati di quartiere; le più lunghe e significative avvennero nei quartieri torinesi delle Vallette e della Falchera, ma a Roma, Milano e in diverse città vi furono episodi analoghi, promossi in genere dai gruppi extraparlamentari e in particolare della sinistra di classe).
Si trattò, insomma, di un movimento generale di emancipazione della classe operaia da una secolare condizione di subalternità, anche culturale. E nel fortissimo clima di mobilitazione collettiva che attraversò l’intera società in quegli anni (proteste studentesche, nascita del movimento femminista, lotte per i diritti civili, manifestazioni di “controcultura” giovanile) il movimento dei lavoratori assunse di fatto un ruolo di guida, divenne il punto di riferimento di ogni ipotesi di trasformazione radicale dei rapporti sociali.
Gli operai, soprattutto quelli delle grandi fabbriche, erano visti come l’avanguardia di massa di un processo che poteva davvero democratizzare l’intera società; e, in effetti, nei settori di punta del sindacalismo industriale maturarono in quegli anni progetti avanzatissimi di riforma, non solo delle relazioni industriali ma più in generale dei servizi sociali e delle istituzioni.
Le destre e una parte della Democrazia Cristiana, spalleggiate da diversi organi di stampa (e spesso dal sistema pubblico dell’informazione), alimentavano una forsennata campagna allarmistica sul dilagare delle proteste operaie e studentesche, indicate sostanzialmente come una manovra del Partito comunista e dei gruppi extra-parlamentari di estrema sinistra (con la complicità di alcuni settori radicali dei sindacati) per arrivare a una sorta di regime collettivista autoritario.
Ed era in queste pulsioni reazionarie, in queste paure diffuse tra alcuni gruppi sociali e in larga parte dell’amministrazione pubblica (compresi i servizi segreti e l’arma dei carabinieri), che affondava le radici quella che fu definita all’epoca (da un giornale inglese) la “strategia della tensione”, cioè l’esecuzione di attentati dinamitardi contro sedi politiche, treni, edifici pubblici, con l’intento di esasperare l’opinione pubblica moderata e impedire qualunque apertura a sinistra del quadro politico (per alcuni gruppi neofascisti, protetti e spalleggiati da servizi segreti e apparati istituzionali più o meno deviati, l’obiettivo era addirittura l’instaurazione di un regime autoritario, o militare).
“Il 12 dicembre 1969 una bomba esplose alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, provocando sedici morti e ottantotto feriti. Per la maggior parte le vittime erano agricoltori e commercianti, giunti lì dalla pianura Lombarda per la loro visita settimanale alla banca. Lo stesso giorno altre due bombe, del medesimo tipo, scoppiarono a Roma ferendo diciotto persone. La polizia e il ministro degli Interni annunciarono immediatamente, con una fretta non giustificata, che i responsabili erano da ricercare tra gli anarchici.
Tra gli anarchici sospetti immediatamente fermati figurava il ballerino romano Pietro Valpreda, che venne quasi subito accusato, in base alla testimonianza del tassista Cornelio Rolandi, di essere il principale responsabile del massacro. Valpreda trascorrerà tre anni in prigione in attesa del processo, e solo nel 1985 sarà finalmente prosciolto da ogni accusa. Un altro anarchico, il ferroviere milanese Giuseppe Pinelli, ebbe un destino ancora più tragico”
Pinelli, arrestato la stessa notte dopo l’attentato, trascorse le successive quarant’otto ore nella questura di Milano; il 15 dicembre, appena dopo mezzanotte, morì cadendo dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, posto al quarto piano dell’edificio.
In quel momento, nella stanza erano presenti il tenente dei carabinieri Savino Lo Grano e i brigadieri di polizia Vito Panessa, Pietro Muccilli, Carlo Mainardi e Giuseppe Caracuta. Secondo la versione ufficiale, Pinelli si suicidò.
In una conferenza stampa avvenuta la notte stessa, il questore di Milano, Guida, annunciò che l’alibi di Pinelli si era rivelato falso e che egli era gravemente implicato nell’organizzazione della strage. Sei anni dopo, invece, il tribunale stabilì che Pinelli non era mai stato coinvolto in quel delitto; rimangono tutt’oggi “ufficialmente e processualmente” sconosciute le vere cause della sua morte.
Ma tutta la sinistra extraparlamentare, i movimenti sociali e di classe, e non solo, attraverso controinchieste fecero emergere una verità storica: si trattò apertamente di omicidio politico; ‘Il compagno Pinelli è stato suicidato!!’.
Questo si continua anche oggi a gridare nelle piazze. Lentamente, ma inesorabilmente, la versione della polizia sulla responsabilità degli anarchici cominciò a disintegrarsi, ed iniziò a farsi strada una spiegazione più allarmante. Le prove che la polizia aveva deciso di ignorare portavano non agli anarchici, bensì a un gruppo neofascista del Veneto facente capo a Franco Freda e Giovanni Ventura.
Ciò che a questo punto destava maggiore preoccupazione era lo stretto legame che Giovanni Ventura aveva con Guido Giannettini, giornalista de Il Tempo e agente del Sid (Servizio informazioni della Difesa). Quest’ultimo, oltre a far parte del Sid, era un fervente sostenitore del MSI.
Cominciò così a venir fuori un quadro molto inquietante sui rapporti tra membri del servizio segreto e gruppi di estrema destra. L’opinione pubblica italiana, tenuta informata grazie al alcune ottime inchieste giornalistiche, divenne sempre più convinta che si stava tramando un complotto ai danni della democrazia: una serie di attentati e di altri crimini avrebbero propagato panico e incertezza, creando le precondizioni per un colpo di Stato.
Questa era la strategia della tensione, impiegata con successo dai colonnelli in Grecia, e che adesso si cercava di riproporre in Italia ad opera dei neofascisti e di alcuni ambienti dei servizi segreti..
Quando a Milano scoppiò la bomba, le vertenze nazionali dell’industria erano ancora aperte (la firma del contratto per i metalmeccanici privati, il giorno 21, avvenne infatti in un clima pesantissimo), ma negli anni seguenti vi fu un vero e proprio stillicidio di questi attentati che trovavano – come risultò ben presto evidente – ampie coperture e complicità in settori dei servizi segreti italiani e stranieri.
I sindacati erano ovviamente sottoposti a fortissime pressioni dalla base. Subito dopo i contratti del ’69 si iniziò a parlare di rifondare complessivamente le organizzazioni, su basi unitarie; le tre confederazioni (CGIL, CISL e UIL) avrebbero dovuto addirittura sciogliersi, al termine di un processo costituente incentrato sulla nascita delle federazioni unitarie di categoria, come la Federazione Lavoratori Metalmeccanici e la Federazione Unitaria dei Lavoratori Chimici, che in effetti iniziarono a tesserare i lavoratori senza distinzioni di appartenenza (e anche altre categorie procedettero poi in questa direzione).
Mentre una componente più radicale dei delegati di fabbrica parlava addirittura di “sindacato di Consigli”, cioè di un ribaltamento totale dell’organizzazione che avesse al centro esclusivamente le strutture di base.
I Consigli di Fabbrica cominciarono a perdere d’importanza, mentre l’elezione dei delegati sempre più spesso avveniva in base alle indicazioni delle tre confederazioni. I comitati esecutivi di molti consigli di fabbrica erano formati da professionisti a tempo pieno, i quali avevano il ruolo di far da mediatori tra le gerarchie sindacali e gli iscritti.
A un livello più alto, le direzioni sindacali guardavano ormai apertamente all’intervento delle forze politiche e di Governo come al mezzo migliore per risolvere i gravi problemi del momento.
La cosiddetta “unità organica” tra CGIL CISL e UIL, si rivelò ben presto impraticabile, per l’indisponibilità di molti settori delle stesse organizzazioni, che non intendevano abdicare alle loro prerogative tradizionali e fu sostituita, invece, da una forma ambigua di unità che lasciava intatte le divisioni e le differenziazioni (soprattutto di appartenenza politica) fra i tre sindacati.
Neppure nelle federazioni unitarie di categoria le correnti, che facevano capo distintamente ai tre sindacati, cessarono mai di esistere. E l’ipotesi considerata massimalista del “sindacato dei Consigli”, sebbene a volte agitata demagogicamente per catturare il consenso dei quadri di fabbrica, non fu neanche presa seriamente in considerazione.
Alla metà del decennio, peraltro, il quadro generale dell’economia mutò radicalmente. Con la crisi petrolifera, nel 1974, si aprì una fase nuova e imprevista, caratterizzata da una fortissima tendenza inflazionistica (si arrivò oltre il 20%) e dalla conseguente adozione di politiche restrittive da parte delle autorità, con una brusca caduta degli investimenti, quindi della produttività e dell’occupazione (almeno nei settori tradizionali dell’industria).
Nacque un fenomeno che gli economisti non conoscevano e che definirono di “stagflazione”. E la forza del movimento operaio ne risentì inevitabilmente.
La Cassa integrazione guadagni (Cig), nata, come abbiamo visto tra il 1945 e il 1947, venne estesa successivamente, con l’intervento straordinario (provvedimenti del 1955, 1964 e 1968), all’agevolazione delle ristrutturazioni e riconversioni aziendali.
Con le leggi 8 agosto 1972, n. 464 e 20 maggio 1975, n. 164 (entrambi leggi sulla estensione della Cassa integrazione guadagni), che eliminarono i limiti temporali dell’intervento, l’istituto della Cig venne ampliato dal sostegno per le sospensioni temporanee dell’attività produttiva alla tutela del reddito di lavoratori altrimenti soggetti a licenziamenti collettivi, in quanto i loro posti di lavoro non esistevano più.
Lo scontro già dei primi anni Settanta nelle metropoli, come a Roma e nelle borgate, a Centocelle e nel resto della capitale, è anche uno scontro politico, culturale e fisico, di sevizi d’ordine dei gruppi extraparlamentari e del PCI contro la feccia fascista protetta da apparati dello Stato, con un’ipotesi, quella del partito togliattiano, che aveva già iniziato una involuzione che non si sarebbe più arrestata.
Ancora oggi la classe dei lavoratori sta pagando quaranta anni di sconfitte, perché perdendo la grande forza accumulata negli anni ’60, non si danno più risposte alle esigenze dei lavoratori. I sindacati confederali concertativi, cogestori di potere nelle compatibilità capitaliste, contrastano l’autonomia di classe e questa, insieme alla difesa degli spazi di democrazia reale contro i fascisti, i servizi segreti deviati, lo stragismo e i tentativi di colpo di Stato, è anche la causa principale della pratica violenza organizzata e della lotta armata che coinvolge migliaia di militanti della sinistra rivoluzionaria.
In forme varie e nelle tantissime organizzazioni della lotta armata vanno a finire settori operai e settori proletari e studenti politicizzati, mentre il PCI diceva che si trattava di provocatori fascisti vestiti di rosso!
Il ’77 si apre con le prime esperienze del sindacalismo di base, con le esperienze dei disoccupati napoletani, e continua le proteste operaie del ’76, un altro anno pieno di proteste e scioperi, per esempio le lotte degli ospedalieri. È in questo contesto che nasce la provocazione di Lama, della CGIL, del PCI, della FGCI, all’Università Sapienza, Lama e i suoi apparati non sono certo interpreti dei bisogni dei lavoratori.
In questo decennio nasce un proletariato fatto di manodopera precaria e inoccupata, legata spesso al lavoro nero, che apprezzava la lotta degli operai ed il grande movimento che essi erano riusciti a determinare pur esprimendo criticità sul fatto che i vantaggi sarebbero stati solo per la classe operaia di fabbrica e non per l’intera classe operaia.
Un proletariato che pagava materialmente l’assenza di uno strumento di tutela, vista la latitanza dei partiti (anche il PCI) e dei sindacati (per concezione a tutela dei lavoratori e non dei disoccupati o sottoccupati). Un proletariato fatto di giovani – studenti – operai che non apprezzeranno il tentativo di egemonizzazione del movimento che più tardi il PCI e la CGIL cercarono di imporre e che ebbe la massima espressione nella “cacciata di Lama” dell’Università di Roma..
Un proletariato che nella Napoli degli anni ’70 (ma anche in altre realtà come ad esempio Roma) darà vita al movimento dei “disoccupati organizzati” come strumento extra fabbrica per consolidare il ruolo delle avanguardie nei quartieri popolari già caratterizzati da una forte presenza di strutture marxiste-leniniste.
L’esperienza, che si concretizzerà con la costruzione di una serie ripetuta di “liste di lotta”, approderà fin dentro i più alti livelli del potere, tra la più totale avversione dei sindacati tradizionali, da sempre contrari ad organizzare il “mondo del non lavoro” (vista anche la mancanza di risposte da poter dare ai licenziati dopo gli accordi sui tagli) e tra l’indifferenza dei partiti politici, anche di sinistra, che demonizzavano chiunque fosse organizzato da strutture extraparlamentari, da sempre catalogate come scuole di estremismo.
L’assenza di un organismo di tutela di queste classi rappresenterà un ulteriore stimolo al consolidamento delle esperienze di sindacalismo di base della fine degli anni ’70.
A pochi anni da quel fatidico ’69 il ciclo delle lotte operaie inizia il suo declino.
Il Governo riscopre il ruolo di sostegno degli investimenti di capitale delle imprese attraverso i finanziamenti, la politica fiscale, al pari del ruolo di garante dell’ordine pubblico e della democrazia ed il sindacato viene definitivamente scavalcato dai partiti nello svolgimento di quel ruolo politico e di mediazione sociale che ormai non è più in grado di garantire.
A riprova di ciò il PCI del ’76 si conferma un partito di solide basi operaie e, in parallelo alla costituzione di un Governo di “non sfiducia”, il sindacato, di fatto, registra una diminuzione della conflittualità e resta relegato alla strenua difesa delle conquiste del decennio passato.
Progressivamente prende campo la nuova dimensione che abbiamo definito del proletariato metropolitano, che poi anticipa le questioni dell’oggi, della precarietà, della mancanza dello strumento di tutela; un ambito tutto di classe nato dopo il ’76 fatto prevalentemente da giovani che non apprezzano per nulla l’egemonia politica imposta del PCI e della CGIL.
Ciò si esprime pienamente nella cacciata di Lama dall’università nel ’77, dove il leader sindacale giungeva superprotetto dal servizio di sicurezza del PCI, dalla FIGC di Veltroni, per mettere il cappello sulle lotte autonome. Gli scontri seguiti alla contestazione furono violentissimi.
I sostenitori di Lama accusarono gli studenti proletari dell’Università Sapienza di essere i figli della borghesia! Ma la maggior parte dei quali erano provenienti dalle borgate, figli di operai meridionali!
Un proletariato che già negli anni precedenti, per esempio a Napoli, aveva dato vita alla grande esperienza dei disoccupati organizzati, avanguardie dei quartieri popolari, caratterizzati anche da una forte presenza di organizzazioni marxiste e leniniste, cioè la storica esperienza delle liste di lotta che arriva ad una avversione violenta, dura, contro i sindacati tradizionali, non in grado di organizzare il problema del non lavoro.
I vertici sindacali accentuano, peraltro, la distanza dai lavoratori che registrano, nella “linea dell’EUR”, un modello difensivo attraverso il quale si deve tener conto delle compatibilità economiche del Paese, con la “politica dei sacrifici” barattandola con una aleatoria promessa, mai mantenuta, di investimenti e occupazione, soprattutto nel Meridione.
Il 24 gennaio 1978, in una famosa intervista su “La Repubblica”, Lama si dichiarò favorevole alla limitazione dei salari, all’aumento della produttività e alla mobilità operaia in cambio di una riduzione della disoccupazione e di una maggiore attenzione ai problemi del Mezzogiorno; accusò imprenditori e classe operaia di sostenere, rispettivamente, che profitti e salari erano variabili indipendenti dentro il sistema economico, mentre, secondo lui, le variabili indipendenti non esistevano; in un periodo di crisi, datori di lavoro e lavoratori dovevano rispettare gli interessi reciproci.
Nel mese di febbraio, al congresso nazionale della CGIL tenutosi all’EUR, la linea di Lama trionfò; fu questo il primo momento dopo il 1947 in cui imprenditori, governo e sindacati si sforzarono per trovare congiuntamente il modo di “salvare” l’economia italiana dal naufragio.
La prossimità al Governo del PCI senza dubbio allarmò alcuni settori del capitalismo, anche se mancò quel clima di isteria e sabotaggio che aveva accompagnato nel 1962 la nascita del centro-sinistra. Con Agnelli alla guida della Confindustria prevalsero posizioni prudenti.
Nel 1976 fu chiaro che il confronto serrato degli anni precedenti non si era risolto a vantaggio degli imprenditori, conducendo anzi l’Italia, in concomitanza della crisi internazionale, sull’orlo del disastro economico; occorreva cercare un’altra strada.
I più perspicaci tra gli imprenditori si accorsero che il PCI, al di là delle magniloquenti dichiarazioni sulla “classe operaia che diventa classe di governo”, sembrava ansioso di collaborare a salvare l’economia in modo tradizionale, e pensarono che i comunisti sarebbero forse potuti essere usati come “pompieri”, allo stesso modo con cui in precedenza erano stati utilizzati in Europa occidentale i Governi laburisti e socialdemocratici; le fiammate di attivismo operaio potevano essere spente grazie agli appelli di Berlinguer ai sacrifici e all’austerità.
Questa strategia neocorporativa ebbe l’appoggio del segretario della CGIL, Luciano Lama. Anche in questo caso la situazione differiva da quella del 1962-63, quando la CGIL aveva rifiutato la proposta di collaborazione di La Malfa.
Negli anni passati il sindacato aveva “cavalcato la tigre” delle mobilitazioni operaie, finendo per far proprie alcune proposte come l’egualitarismo e non frenando la conflittualità in fabbrica, che era divenuta ormai eccessivamente scomoda per gli industriali.
La novità sostanziale che delinea questo nuovo scontro, è data dagli ulteriori obiettivi sulle condizioni di vita dei lavoratori: non soltanto l’aumento salariale (che poteva essere facilmente vanificato dall’aumento dell’inflazione), ma altre rivendicazioni quali la riduzione dell’orario di lavoro, il miglioramento delle condizioni lavorative, la democrazia economica e del lavoro, la partecipazione reale alle decisioni di impresa, del sociale e del Paese, ecc…
Questi nuovi contenuti rivendicativi hanno bisogno di un tipo di organizzazione estremamente capillare e capace di rispondere ad ogni sollecitazione, un’organizzazione che non corrisponde a nessuna di quelle tradizionali e nemmeno alle articolazioni di queste in fabbrica (Commissioni Interne e SAS Sezioni aziendali sindacali).
Questo vuoto viene colmato dal continuo ricorso alle assemblee, luogo per eccellenza del “potere operaio”, dove svaniscono le differenze di affiliazione sindacale e dove si supera il confine tra iscritti e non iscritti grazie ad un’identità comune di interessi.
Tali processi, definiti di auto-organizzazione, nasceranno come spinta dal basso con il proposito di combattere l’opportunismo ed il “collaborazionismo” di sindacati tradizionali e dei partiti. I processi di democrazia di classe saranno gli unici ad interpretare fattivamente la crisi di rappresentanza operaia e del sistema di relazioni industriali; essi si caratterizzeranno in maniera diversa:
– I Comitati di Lotta che nascono come organismi di massa, hanno una concezione per così dire leninista del rapporto partito-masse e si presentano con funzione di direzione della classe, sono diretti da operai spesso militanti di partito, e la loro azione è caratterizzata dal consenso della “base”.
La caratteristica principale di questa forma di fare sindacato risulta tuttavia a volte estremamente rigida, cadendo a volte nel massimalismo, e trova facile terreno di sviluppo in quelle realtà industriali dove è poco radicata la presenza dell’“operaio-massa”, e dove quindi, una lotta a livello sovrastrutturale e sociale staccata dalla lotta in fabbrica, appare priva di senso.
Si lotta per un sistema nuovo di rappresentanza ma soprattutto contro il sistema dei sindacati confederali ed il loro collateralismo con il padrone, tale specificità li vedrà strumento di riferimento sia per i vecchi operai sindacalizzati che per le nuove leve.
I Comitati di Lotta si struttureranno nell’Unione Sindacale dei Comitati di Lotta ed arriveranno anche a produrre piattaforme rivendicative, come nel caso dei metalmeccanici.
– I Comitati Unitari di Base nascono in quelle grandi industrie, specie del Nord, dove è più numerosa la presenza dell’“operaio-massa” e più difficile il rapporto di questo nel contesto di fabbrica e sociale. I Comitati Unitari di Base sono elemento di aggregazione proprio per questo tipo di operaio, spesso giovane, sovente meridionale, che vive tutta la sua rabbia nello spontaneismo, talvolta inizialmente senza alcun riferimento ideologico preciso.
Quello dei CUB è lo sviluppo di un processo culturale e politico che muove dall’analisi di classe del marxismo e si basa prevalentemente sulle dinamiche della singola azienda o fabbrica, dove i rappresentanti CUB, avanguardie individuate dalla base, non hanno altra direzione se non la base che rappresentano.
Nel corso di pochi anni si svilupperanno anche strutture di coordinamento su ambiti più ampi (ad opera di una struttura politica esterna), ma l’ingerenza esterna ed il carente studio di strategie di crescita, allontaneranno la realtà dai principi fondativi, tra cui l’autonomia di classe, l’indipendenza e ne decreteranno la pressoché totale involuzione.
Con la conferenza dell’EUR il sindacato accetta di frenare la conflittualità in fabbrica e fa propria la politica dei “sacrifici”, cioè di moderazione delle richieste di aumenti salariali in cambio della promessa di incrementare l’occupazione.
È la svolta. Per la prima volta, nella storia del movimento operaio dal dopoguerra, il sindacato storico si presta a sperimentare un modello di relazioni sindacali consociative, concertative e di soffocamento del conflitto che non lascerà più.
La nuova politica sindacale non sarà accettata dai settori operai dell’antagonismo di classe che, in primavera, terranno al Teatro Lirico di Milano un’assemblea operaia autoconvocata.
Fu proprio in questo contesto che la sinistra di classe, mai maggioranza tra i movimenti, ma con un peso reale fra i lavoratori più politicizzati riuscì ad esercitare una egemonia politica fino a farsi “inseguire” dal sindacato tradizionale.
Iniziò allora, contro ogni aspettativa, un’apertura padronale al sindacato e questo accentuò non poco il dissenso ormai alto tra organizzazioni sindacali storiche e lavoratori.
Aumentarono i distacchi sindacali, le aspettative, le presenze istituzionali e soldi. E questo permise a molti delegati “in forza” alla sinistra operaia, di essere cooptati nelle fila del sindacato confederale e nelle strutture di apparato.
La sinistra di fabbrica, ormai relegata al ruolo di contestatrice, finì per rinunciare al ruolo, diciamo così, “antisindacale”, e molto spesso consentì ai propri militanti l’iscrizione alle OOSS e la candidatura nei Consigli di Fabbrica.
La crisi della sinistra operaia risulta molto forte perché forte è, tra i lavoratori, il senso di sfiducia verso il sindacato confederale e di inadeguatezza delle alternative sindacali e la scelta ricade verso l’imminente appuntamento politico anche istituzionale-elettorale; la sinistra operaia si organizzerà, allora, sostanzialmente in tre filoni.
— Primo filone. Finito il PSIUP e nato il PdUP (che si aggregherà con il Manifesto) si incomincia a pensare seriamente ad una forma di aggregazione. Avanguardia Operaia ripensò all’antisindacalità come strategia politica e fece confluire i CUB nel sindacato tradizionale (anche se in effetti molti CUB non si sciolsero mai), pensando che il progetto di società socialista poteva realizzarsi con un Governo delle sinistre e varie strutture di contropotere popolare (Consigli di Fabbrica e Comitati Unitari di Zona).
– Secondo filone. Lotta Continua che tentò di aggregare alcuni pezzi di sinistra operaia e del movimento studentesco per strutturarsi come partito.
– Terzo filone. Autonomia Operaia, nata dalla crisi di Potere Operaio e Gruppo Gramsci, (oltre che gruppi minori di area marxista-leninista e ex Manifesto) ereditò una parte importante dell’operaismo italiano, l’operaio massa, teorizzando una nuova dimensione e figura di classe, l’operaio sociale, ed una nuova strategia: il rifiuto del lavoro e l’organizzazione territoriale del conflitto sociale a partire dalle lotte del nuovo proletariato metropolitano.
La seconda metà degli anni Settanta fu dunque caratterizzata, al tempo stesso, da livelli molto alti di combattività e di mobilitazione collettiva, e da una lenta ma inesorabile sconfitta delle spinte più avanzate espresse dai movimenti di lotta. Paradossalmente, ciò avveniva in concomitanza con una sostanziale apertura del quadro politico verso il movimento operaio organizzato.
La Confindustria (guidata dal 1974 dal presidente della FIAT, Gianni Agnelli) mostrava una maggiore disponibilità al dialogo con i sindacati, il referendum sul divorzio (voluto dalla destra democristiana) vedeva un largo successo del fronte progressista, tra il ’75 e il ’76 le sinistre conseguivano importanti vittorie elettorali (a livello amministrativo e politico), aprendo la strada a una nuova formula di governo, guidata sempre dalla DC ma con l’appoggio esterno anche del Partito Comunista.
Si parlava di “compromesso storico” tra le grandi correnti politiche e ideali della società italiana, per uscire dalla crisi e rimettere in sesto l’economia. Ma si trattava di un progetto che prevedeva, inevitabilmente, il ridimensionamento della protesta sociale e la sconfitta di ogni velleità di autonomia da parte del movimento sindacale nei confronti del sistema politico. E fu in questa morsa che si consumarono, drammaticamente, la progressiva perdita di incisività delle lotte operaie e la crisi verticale delle organizzazioni di base.
Nel ’76 però la maggioranza della classe operaia si orientò verso il PCI e la sua strategia di alleanza con la DC nel Governo della “non sfiducia”, per realizzare le tanto attese riforme, e la sinistra di fabbrica si modificò di conseguenza. Finisce, dopo poco, l’esperienza di Lotta Continua, si scinde/scioglie il PdUP e nasce Democrazia Proletaria che riattiva la vecchia rete dei CUB e convoglia una parte di LC.
Nel gennaio ’75 le confederazioni firmarono con la Confindustria un accordo sul meccanismo di calcolo della contingenza (uniformato per tutte le categorie) che fu presentato come una conquista importante contro gli effetti dell’inflazione, ma che, in realtà, mirava a porre un freno alle rivendicazioni salariali e alla conflittualità di fabbrica.
La riduzione delle pretese economiche e normative divenne da quel momento il filo conduttore della strategia confederale, nonostante la fortissima resistenza delle federazioni di categoria, con in testa la FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici), e dei Consigli dei Delegati. Strategia che si precisò sempre meglio tra il ’77 e il ’78, quando il Partito Comunista appoggiava i Governi cosiddetti di “solidarietà nazionale”, e che sfociò in una piattaforma programmatica approvata nel febbraio del ’78 dai consigli generali confederali (la cosiddetta “linea dell’EUR”, dal palazzo romano dove si svolse l’assemblea sindacale), incentrata su una sostanziale moderazione rivendicativa in cambio di una politica di riforme sociali.
Si accentua intanto, fuori dalla fabbrica, il dissenso tra il proletariato giovanile e la “politica istituzionale”, rappresentata dal PCI e dalla CGIL.
Forte traspare il senso di tradimento del PCI: il governo delle astensioni, la filosofia dell’austerità e dei sacrifici, il compromesso storico, ed altrettanto pesante la responsabilità del sindacato che è riuscito a farsi scippare le conquiste della fine degli anni ’60.
Mentre comincia a farsi concreta la strategia della “politica dei sacrifici”, il sindacato storico non vuole intercettare per scelta politica il dissenso crescente che si accumula negli strati più ribelli e politicizzati del movimento giovanile; un movimento fatto spesso di studenti che hanno una condizione di lavoro e sociale precaria, marginale, con frequenti rapporti con il mondo del lavoro nero.
Un proletariato giovanile metropolitano che non si riconosce, anzi si contrappone, alle politiche di compromesso e antiproletarie della sinistra istituzionale e del sindacato complice degli interessi padronali, e che costituisce un nuovo soggetto di classe, il “lavoratore marginale” del proletariato metropolitano.
C’era, insomma, un coacervo di forze – tra loro diverse, ma in qualche modo convergenti – che non accettavano la svolta dei sindacati confederali e che si opponevano strenuamente alla linea della moderazione.
Un fronte che si rivelò incapace di esprimere una alternativa complessiva sul piano politico alle scelte delle organizzazioni storiche ufficiali del movimento operaio, ma che fu in grado di mantenere altissimo il livello della mobilitazione di massa, dalle proteste operaie contro la manovra economica del Governo, nell’ottobre del ’76 (con blocchi stradali e altre forme di dure lotte di piazza, promosse dalle sinistre sindacali e dai militanti della sinistra di classe, che costrinsero i sindacati a indire una serie di scioperi provinciali e regionali), alle lotte universitarie del ’77, dalla vertenza degli ospedalieri del ’78 (che assunse forme particolarmente dure e di opposizione alla strategia confederale) alla forte mobilitazione degli insegnanti sfociata nel blocco degli scrutini.
La sinistra storica e principalmente il PCI con la CGIL invece di farsi interpreti del cambiamento, dei nuovi bisogni materiali, culturali, identitari e di autonomia dei nuovi soggetti di classe inveiscono con durezza e ruolo repressivo di concerto con gli apparati di Stato contro i “teppisti, i provocatori, i fascisti mascherati di rosso”; la risposta non può essere che l’accusa diretta di consociativismo, di ruolo di conservazione e di “gendarmi” del potere, le piazze, le università, i muri dei quartieri si riempiono dello slogan, atto di accusa e di definitiva rottura “PROVOCATORI SONO PCI E SINDACATO CHE PIENI DI PAURA INVOCANO LO STATO!”.
È in questo contesto che Lama arriva all’Università (occupata) di Roma il 17 Febbraio ’77.
La provocazione è eclatante e scontata: la CGIL tenta di appropriarsi di un luogo che non gli appartiene, l’Università; di una lotta che non gli appartiene, quella dei “marginali” e tenta di farlo con la prepotenza e con la forza della provocazione: un servizio d’ordine di edili che fin dalle prime ore aveva provveduto a cancellare dai muri le scritte e che si era schierato a difesa di un palco montato su un camion e dotato di un’amplificazione assordante.
Indubbiamente anche l’escalation soggettivista, militarista di alcune organizzazioni rivoluzionarie armate ebbe l’effetto di accelerare la crisi del movimento operaio, così come esso si era espresso nel corso degli anni Settanta, poiché finì per esporre tutti i dirigenti della sinistra di classe e gli attivisti più radicali – che nella maggior parte dei casi non avevano alcun rapporto con le organizzazioni armate – al sospetto e al rischio della repressione.
I partiti di sinistra e i sindacati promossero “contro il terrorismo” – ma, di fatto, contro tutta la sinistra di classe – grandi manifestazioni di massa e una capillare azione di denuncia nei luoghi di lavoro, ma rinunciarono perlopiù a sottolineare la differenza esistente tra la violenza che può sempre nascere dai conflitti sociali, e la scelta di ferire o uccidere delle persone.
Si creò così l’impressione che tra le forme di lotta più dure adottate nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole e università e le azioni armate di tutte le organizzazioni combattenti esistesse un rapporto di continuità, e si affermò il pregiudizio (alimentato dall’opinione pubblica, dai sindacati storici e da ampi settori degli stessi partiti e “neopartitini” di sinistra) che il “terrorismo” fosse nato direttamente da un certo tipo di radicalismo politico e di estremismo, caratteristici della fase che si era aperta con l’autunno caldo.
Si parla molto del movimento del ’68 però si parla poco dei movimenti del ’77-’78, che non sono violenti di per sé o che addirittura si muovono nell’illegalità eterodiretta. Questi sono movimenti che nascono da bisogni non interpretati che derivano anche dai primi esperimenti capitalistici di fabbrica diffusa. Sull’onda di queste mancanze nasce il sindacalismo di base, e nel ’75-76 il PCI prende alle elezioni intorno al 35/36% dei voti.
Perché alla fine, anche se delusi, contrariati, arrabbiati e oppositori di classe, molti militanti dei movimenti votavano tutti PCI. Sei distante dall’esperienza del partito ma comunque ancora gli davano fiducia. E per ripagare questa fiducia il sindacato e il PCI puntano tutto sulla diminuzione della conflittualità.
Tutto questo trova poi riscontro nella linea dell’EUR, che poi è la linea dei sacrifici. Addirittura, nel ’78 Lama dichiara in una intervista su Repubblica di essere favorevole alla limitazione dei salari, all’aumento della produttività, alla mobilità operaia, chiedendo in cambio soltanto una riduzione della disoccupazione (e viene ripagata questa via alle politiche dei sacrifici con lavoro precario).
Questa via è il secondo grande momento di concertazione dopo quello del dopoguerra. Il sindacato cavalca la tigre, la conferenza dell’EUR accetta di fatto di frenare la conflittualità, di fare propria la politica che viene chiamata “politica dei sacrifici”. Uno degli slogan più in voga nel ’77 ironico e politicamente dirompente, da parte di un gruppo creativo, gli Indiani Metropolitani, era “Sacrifici! Sacrifici! Lama frustaci! Lama frustaci!”.
Solo verso la fine del decennio degli anni ’70, grazie alla riproposizione del contesto politico e sindacale che ne aveva determinato la nascita e grazie anche alla corretta individuazione degli elementi che ne avevano decretato la fine, si svilupperanno modelli simili di sindacalismo di base che faranno dell’indipendenza dai partiti, dell’autonomia di classe la strategia di lunga durata e della coerente rappresentanza della base lo strumento di lotta quotidiana.
Coordinamento Macchinisti Uniti (COMU) e Rappresentanze Sindacali di Base (RdB) (oltre ad una innumerevole galassia di realtà territoriali che al loro modello si rifanno) nasceranno nelle fabbriche, ma ben presto si svilupperanno anche tra i lavoratori del pubblico impiego, con dinamiche diverse.
Le Rappresentanze di Base, dall’esperienza del precariato, si affermano poi come realtà sindacale consolidata, con strutture di federazione radicate su tutto il territorio nazionale, fortemente caratterizzata da un’attenta analisi e da una corretta strategia che ne legittima il peso sul panorama sindacale nazionale.
Sapranno coniugare gli elementi portanti dell’esperienza dei sindacati di base del decennio precedente (l’approfondimento del processo dell’autonomia operaia e di classe, l’indipendenza dai partiti e il costante rapporto con la base), adeguando costantemente le strategie alla fase politica di riferimento, con un occhio sempre attento (dalla base) all’involuzione delle dinamiche sociali frutto del capitalismo sempre più selvaggio e a carattere neoliberista ed un altro vigile sullo scenario internazionale.
I COBAS si sviluppano come soggetto politico-sociale che si serve anche dell’azione sindacale come strumento politico di alternativa e antagonismo.
Importante come riferimento politico culturale è l’esperienza dei Quaderni Rossi (QR)1, la prima rivista di operaismo a cimentarsi in una analisi politica del movimento operaio attraverso una indagine sociologica specifica: l’inchiesta operaia.
L’indagine parte dalla FIAT e per la prima volta si analizzano concretamente le condizioni di vita e di lavoro nella fabbrica; lo studio non si ferma alla FIAT e il modello di inchiesta viene esportato in altre fabbriche del Nord. Il risultato è significativo a partire dalla individuazione di due tipologie di operai:
Il dibattito politico e la scelta tutta istituzionale e di avallo e promozione della repressione e di attacco ai movimenti sociali e antagonisti da parte del PCI e della CGIL si inasprisce con il rapimento di Aldo Moro del marzo del 1978.
I sindacati promuovono uno sciopero generale, anche se la reazione dei lavoratori non è omogenea in quanto, in varie situazioni di lotta, ad esempio in un’assemblea di operai alla FIAT Stura di Torino, gli intervenuti addossano parte della colpa alla responsabilità del non governo, allo strgismo terrorismo di Stato, degli apparati deviati e dei fascisti, e e delle “storture” dello Stato nella gestione politica non solo del sequestro Moro, ma di tutta l’ondata repressiva ricaduta sull’intero movimento di classe.
Nel mese di settembre, ci ricorda Scavino, un nucleo di Prima Linea uccise a Torino il responsabile del settore pianificazione della FIAT, Carlo Ghiglieno, e l’impressione di un legame strettissimo tra il clima di fabbrica e la strategia del terrorismo divenne sempre più forte. L’azienda a quel punto decise di reagire con un gesto clamoroso e ai primi di ottobre comunicò il licenziamento di 61 dipendenti, accusati di gravi fatti di violenza.
La vicenda dei 61 licenziati segnò un punto di svolta nelle relazioni industriali alla FIAT, ma costituì anche un segnale decisivo per tutte le imprese, una spia delle contraddizioni in cui si dibatteva il movimento operaio e in particolare della repressione e i continui tentativi di criminalizzazione che colpivano il sindacalismo di classe e di base, che si opponevano alle politiche consociative antioperaie con una strenua (ma disperata) difesa di quella che veniva definita la “rigidità della forza lavoro” contro la ristrutturazione tecnologica e organizzativa.
Il sindacato, ormai sempre più burocratizzato, istituzionale e dentro ai compromessi e al “malaffare del Palazzo” si concentra sulla linea della “svolta dell’EUR”, e comincia a frequentare le stanze di Palazzo Chigi, non più per discutere di programmazione e riforme, bensì per articolare la compressione del costo del lavoro, mentre il padronato si concentra sulla sua sfida: far regredire sensibilmente le conquiste dei lavoratori che si sono susseguite fino alla metà degli anni ’70, con il rifiuto di attivare le procedure di rinnovo dei contratti e, preludio dell’avvento del neoliberismo, a partire dalla disdetta della scala mobile.
Il potere del capitale, in crescita, si scontra con il movimento operaio sul costo del lavoro, attraverso la fabbrica diffusa nel territorio, con la nuova figura dell’ “operaio sociale”, che non si è ancora pienamente manifestata, fino al “lavoratore immateriale”.
La realtà evidenzia una svolta neoliberista che si affaccia prepotentemente già dagli anni ’80 e trova una sinistra politica e i sindacati storici che, nella migliore delle ipotesi, non sono in grado di interpretarla, spesso sono consociativi e cogestori delle politiche antioperaie. Si terziarizza e si esternalizza il sistema produttivo, si precarizza il mercato del lavoro, si attaccano i salari diretti e indiretti e i diritti del lavoro.
La controffensiva padronale attacca violentemente il costo del lavoro, i diritti, le garanzie; muta la composizione di classe e la sua autonomia è soffocata e svenduta dalle organizzazioni storiche del movimento operaio.
In questi anni sono molto sentite le polemiche con il sindacato confederale e burocratizzato e si arriverà a consolidare l’alternativa ai sindacati confederali attraverso una via che ha come fine quello di dar voce alle richieste dei lavoratori, attraverso un sistema di delega diretta e rapidamente sostituibile.
Sarà la voce dei lavoratori “altri”, quelli che non riescono a farsi sentire da nessuno, né dallo Stato, né dagli Enti Locali né, soprattutto, dai sindacati confederali sordi e ciechi a una trasformazione radicale della società che, nonostante loro, comincia a cambiare la struttura stessa della convivenza civile passando “Dallo Stato sociale allo Stato immaginario”, al Profit State come epilogo della modernità.
da Contropiano