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Detenuto morì di infarto, ma l’avevano curato con il malox

Riaperto il caso di Alessandro Ianno detenuto deceduto nel carcere di Campobasso il 19 marzo 2015

Si riapre il caso di Alessandro Ianno, un detenuto di 33 anni morto nel carcere di Campobasso il 19 marzo del 2015 per un infarto. Aveva avuto dei sintomi premonitori, purtroppo in carcere venne curato con un antiacido. Si aprì un’inchiesta, ma nonostante il caso si presentasse molto particolare, il sostituto procuratore che si occupò delle indagini chiese ed ottenne l’archiviazione. A disporre di nuovi accertamenti è ora il gip Teresina Pepe del tribunale di Campobasso, in seguito alla perizia di parte presentata dai legali della famiglia Ianno, gli avvocati Silvio Tolesino e Antonello Veneziano, nella quale si sostiene che c’è stata un’omissione.

Alessandro Ianni, il quale già soffriva di problemi cardiaci, era morto di infarto nonostante che prima di morire avesse forti dolori al petto e allo stomaco. I sintomi che aveva avuto erano tipici segnali dell’arresto cardiocircolatorio, ma qualcuno gli prescrisse un antiacido. Per questo motivo la procura della Repubblica di Campobasso aveva iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omissione di soccorso quattro persone tra agenti di polizia penitenziaria e medici in servizio nella Casa circondariale intervenuti nella cella del 33enne. L’avvocato della famiglia Ianno sospettò che le cure mediche fossero state prestate in forte ritardo al ragazzo «che già dalla mattina – spiegò l’avvocato – si lamentava per dolori alla spalla, allo stomaco e al petto». Ad Alessandro qualcuno, forse il medico della struttura di via Cavour – ma questo è ancora tutto da accertare – avrebbe prescritto un Malox. «I dolori non si placarono – riferì il legale Silvio Tolesino che assieme ad Antonello Veneziano sta seguendo il caso – anzi diventarono più forti». Alle 17 c’è stato il collasso e Alessandro è morto sotto gli occhi di diversi testimoni. Inutili i tentativi di rianimarlo. «Il nostro non è un accanimento contro il personale penitenziario – con cui si schierò il sindacato Sappe – ma vogliamo sapere esattamente chi c’era per arrivare alla verità» disse ancora Tolesino nel giorno della sepoltura di Ianno i cui funerali si svolsero nella chiesta di San Pietro, a Campobasso. Alessandro divideva la stanza con altre tre persone, la loro versione non combacerebbe alla perfezione con quella del personale penitenziario in servizio. Ora il caso, dopo prima archiviazione, si riapre alla luce di una nuova perizia dei legali della famiglia e in questa nuova fase è probabile che arrivino le risposte alle tante domande degli avvocati Tolesino e Veneziano.

Come già ribadito più volte su questa stessa pagina, la maggior parte delle morti in carcere sono legate dalla mancanza di cure adeguate. L’intero sistema sanita- rio penitenziario è in deficit e per questo motivo i detenuti non ricevono cure adeguate. Tagli al personale che incidono anche sulle morti in carcere. Ogni anno oltre cento detenuti muoiono per ‘ cause naturali’. A volte la causa della morte è l’infarto, evento difficilmente prevedibile, ma altre volte sono i sintomi dei malanni trascurati o curati male e un lungo deperimento, dovuti a malattie croniche. L’articolo 1 del Decreto Legislativo 230/ 99, sul riordino della medicina penitenziaria stabilisce che: “i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari reuna gionali ed in quelli locali”. Dall’entrata in vigore di questa legge sono trascorsi 16 anni, nel corso dei quali le competenze sull’assistenza sanitaria dei detenuti avrebbero dovuto gradualmente passare dal ministero della Giustizia a quello della Sanità: invece, quello che si è sicuramente verificato è stato il taglio delle risorse economiche destinate alle cure mediche per i detenuti, mentre l’attribuzione delle pertinenze è tuttora argomento di discussione e di confusione. C’è la tendenza a considerare tutti i detenuti dei simulatori, a minimizzare di fronte ai sintomi di una malattia, a rassicurare il paziente – detenuto sul fatto che ‘ non è niente di grave’. Così, quando un detenuto muore, una azione di ‘ depistaggio’ viene spesso messa in campo per scaricare su altri la responsabilità dell’accaduto, sia all’interno del carcere – gli agenti non l’hanno sorvegliato, i medici non l’hanno curato, gli psicologi non l’hanno capito, i magistrati non l’hanno scarcerato -, sia all’esterno – non è morto in cella, ma durante la corsa verso l’ospedale, oppure subito dopo l’arrivo in ospedale -, il che vuol dire: «Noi non c’entriamo, il carcere non c’entra, da qui è uscito ancora vivo».

All’interno delle carceri sono tanti i detenuti che hanno gravi patologie: cancro, leucemia, diabete, Alzheimer, epilessia. Per non parlare dei disabili. In questi giorni, Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione sarda “Socialismo Diritti Riforme”, sta sollevando il caso di un detenuto sieropositivo con l’epatite cronica rinchiuso nella casa circondariale di Cagliari. «Ha 45 anni, sieropositivo con complicazioni generali nonché epatite cronica. L’uomo, affetto da flebopatia con ulcere infettate negli arti inferiori, grave osteoporosi, non è in grado di camminare autonomamente e utilizza una carrozzina per muoversi. Le sue condizioni non sembrano compatibili con una struttura detentiva», afferma Maria Grazia Caligaris sollecitando un intervento urgente del magistrato di sorveglianza. Caligaris denuncia che «la situazione sanitaria è aggravata da uno stato di prostrazione che rende l’uomo incapace di reagire positivamente. Piange con facilità e afferma di volere accudire l’anziana madre che non è in grado di andare in carcere a trovarlo. Sono anche evidenti sulla sua testa le cicatrici di un pregresso incidente stradale che aveva determinato a suo tempo un periodo di coma». La presidente di “Socialismo Diritti Riforme”, infine, osserva: «Nonostante non si tratti di uno stinco di santo non sembra opportuno mantenere dentro una cella una persona non autosufficiente. Le condizioni di salute non appaiono tali insomma da potergli far scontare la pena in stato di detenzione anche per la necessità di ricorrere costantemente alle cure del personale infermieristico e medico».

Damiano Aliprandi da il dubbio