Detenuto "suicida" nel carcere di Vercelli: modalità anomale che fanno nascere un sospetto
La morte di Massimo Gallo nel carcere di Vercelli è stata forse un po’ frettolosamente classificata come suicidio.
Non siamo in possesso di altri elementi di valutazione, se non l’ANSA sotto riportata ma, per quanto ci risulta, sarebbe la prima volta che un detenuto si suicida fuori dalla cella: in genere per le auto-impiccagioni si utilizzano le sbarre della cella, più spesso in bagno (dove c’è una condizione di “riservatezza”, sia pure relativa) e, frequentemente, le ore notturne, oppure le ore nelle quali i compagni di cella sono usciti per “l’aria”.
Inoltre, come ha fatto Massimo Gallo a uscire di cella con un lenzuolo? Non è prevista la perquisizione, prima dell’accesso al cortile dei “passeggi” (dovrebbe servire ad evitare che un detenuto porti con sé oggetti “pericolosi”, che potrebbe usare per aggredire altri detenuti o agenti)?
Infine, di solito le auto-impiccagioni che si realizzano in carcere non causano una morte istantanea, a differenza di quelle realizzate con l’uso del “patibolo”, dove il corpo del condannato “cade” finché la corda non si tende (e lo “strappo” spesso provoca la frattura delle vertebre). Chi si impicca con i mezzi e le modalità possibili in carcere muore piuttosto per soffocamento, l’agonia può durare anche 10 minuti, accompagnata da rantoli, scosse, convulsioni: come mai nessuno si è accorto di ciò che stava avvenendo? E se fosse un omicidio mascherato da suicidio?
Per quanto riguarda la “discrepanza” (denunciata dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria) tra il numero dei suicidi che risulta dal nostro Dossier “Morire di carcere” e i dati in loro possesso, la spiegazione è molto semplice: per noi sono “morti di carcere” anche i detenuti che, dopo essersi impiccati in cella, vengono soccorsi mentre sono ancora in vita, ma muoiono durante il trasporto all’Ospedale, o anche alcuni giorni dopo il ricovero senza mai riprendersi.
Invece il DAP non considera (giustamente, dal suo punto di vista) “suicidio”, ma solamente “tentato suicidio” il caso sopra descritto: in altre parole, quando un detenuto esce ancora in vita dalle mura del carcere, non risulta più nelle statistiche dell’Amministrazione Penitenziaria.
Il recente caso di Stefano Cucchi è emblematico, indipendentemente da quali saranno le responsabilità accertate, non entrerà nel numero dei “morti in carcere”, mentre per noi è a tutti gli effetti “morto di carcere”.
Non siamo in possesso di altri elementi di valutazione, se non l’ANSA sotto riportata ma, per quanto ci risulta, sarebbe la prima volta che un detenuto si suicida fuori dalla cella: in genere per le auto-impiccagioni si utilizzano le sbarre della cella, più spesso in bagno (dove c’è una condizione di “riservatezza”, sia pure relativa) e, frequentemente, le ore notturne, oppure le ore nelle quali i compagni di cella sono usciti per “l’aria”.
Inoltre, come ha fatto Massimo Gallo a uscire di cella con un lenzuolo? Non è prevista la perquisizione, prima dell’accesso al cortile dei “passeggi” (dovrebbe servire ad evitare che un detenuto porti con sé oggetti “pericolosi”, che potrebbe usare per aggredire altri detenuti o agenti)?
Infine, di solito le auto-impiccagioni che si realizzano in carcere non causano una morte istantanea, a differenza di quelle realizzate con l’uso del “patibolo”, dove il corpo del condannato “cade” finché la corda non si tende (e lo “strappo” spesso provoca la frattura delle vertebre). Chi si impicca con i mezzi e le modalità possibili in carcere muore piuttosto per soffocamento, l’agonia può durare anche 10 minuti, accompagnata da rantoli, scosse, convulsioni: come mai nessuno si è accorto di ciò che stava avvenendo? E se fosse un omicidio mascherato da suicidio?
Per quanto riguarda la “discrepanza” (denunciata dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria) tra il numero dei suicidi che risulta dal nostro Dossier “Morire di carcere” e i dati in loro possesso, la spiegazione è molto semplice: per noi sono “morti di carcere” anche i detenuti che, dopo essersi impiccati in cella, vengono soccorsi mentre sono ancora in vita, ma muoiono durante il trasporto all’Ospedale, o anche alcuni giorni dopo il ricovero senza mai riprendersi.
Invece il DAP non considera (giustamente, dal suo punto di vista) “suicidio”, ma solamente “tentato suicidio” il caso sopra descritto: in altre parole, quando un detenuto esce ancora in vita dalle mura del carcere, non risulta più nelle statistiche dell’Amministrazione Penitenziaria.
Il recente caso di Stefano Cucchi è emblematico, indipendentemente da quali saranno le responsabilità accertate, non entrerà nel numero dei “morti in carcere”, mentre per noi è a tutti gli effetti “morto di carcere”.
Fonte: Ristretti Orizzonti
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