I governi che si sono succeduti in questi anni hanno affinato la propria strategia contro migranti e Ong. Ma anche chi si batte per la libertà di movimento ha imparato tanto
di Federico Alagna
La prima crisi – non migratoria, ma di diritti umani – del governo Meloni sembra quasi risolta, con il completamento dello sbarco dalle navi della flotta del soccorso civile Geo Barents, Humanity 1 e Rise Above, e la Ocean Viking in navigazione verso la Francia (quest’ultima questione, a dire il vero, resta ancora aperta e potenzialmente molto problematica). Il quasi completo superamento di questa crisi non implica anche la risoluzione dei problemi strutturali relativi alle politiche migratorie, di asilo e di accoglienza, ma intanto, in una logica incrementale fatta di piccoli passi, gli sviluppi delle ultime ore significano comunque qualcosa.
Volgendo lo sguardo al presente, di questi giorni di crisi restano anzitutto le sofferenze psico-fisiche – chissà se mai rimarginabili – sui corpi delle persone migranti detenute per giorni, prima in mezzo al mare e poi in rada. Su un piano più marcatamente politico, invece, resta la consapevolezza della ripresa di una stagione che chi si batte per la libertà di movimento sperava fosse stata definitivamente archiviata: quella dei porti chiusi. Rispetto a qualche anno fa abbiamo però maggiore contezza del fenomeno e questo potrà forse esserci utile nell’affrontare quella che si preannuncia come una lunga fase di lotta politica.
Recrudescenza di un approccio mai scomparso
In primo luogo, abbiamo imparato che la politica dei porti chiusi può assumere sembianze molto diverse, a seconda del contesto politico e della compagine di governo, rivelandosi più o meno esplicita, più o meno visibile. E così, se da un lato i porti davvero chiusi non lo sono mai stati (tant’è che nell’ampia maggioranza dei casi, inclusa la crisi di questi giorni, alla fine si sbarca), è altrettanto vero che, in questi ultimi anni, non sono nemmeno mai stati davvero aperti. E questo non solo quando il ministro dell’interno si chiamava Matteo Salvini o, adesso, Matteo Piantedosi, ma anche quando la ministra era Luciana Lamorgese. In modo diverso, meno palese (anzi, spesso dissimulato), ma non per questo meno efficace (e inaccettabile). Semplicemente, anziché ostentare pubblicamente che «i porti italiani sono chiusi», si ritardava l’assegnazione del place of safety, lasciando le imbarcazioni del soccorso civile in attesa per giorni, in mezzo al mare. Portando avanti, nel mentre, dinamiche di intimidazione, criminalizzazione e ostacolo all’attività delle organizzazioni del soccorso in mare, iniziate con l’arrivo di Marco Minniti al Viminale e proseguite, senza soluzione di continuità, seppur con mezzi diversi, dai suoi successori. In quest’ottica, più che di una ripresa della pratica dei porti chiusi, sarebbe più corretto parlare di una fase di recrudescenza di una politica che, da quando è stata inaugurata, non è mai scomparsa del tutto.
La strategia dell’intimidazione
Strettamente collegato al primo, vi è un secondo punto: è vero, alla fine si sbarca, ma solo dopo aver passato giorni o settimane in mezzo al mare, in spregio ai più basilari diritti umani e alle norme di diritto internazionale. La politica dei porti chiusi ci appare così più come una strategia di intimidazione, ostacolo e gratuito accanimento, piuttosto che come il reale perseguimento di una chiusura dei confini. La comprensione di questa dinamica è cruciale al fine di mettere in atto una risposta adeguata, incentrata sul nodo dei diritti fondamentali delle persone tenute a bordo della nave, e che sia in grado di esercitare un’altrettanto adeguata pressione politica – come avvenuto nei giorni scorsi a Catania, con una mobilitazione partecipata da ogni angolo della Sicilia. Comprendere e smascherare la politicizzazione pretestuosa degli sbarchi e dei porti (almeno in parte fintamente) chiusi, e la loro spettacolarizzazione per fini di consenso elettorale, ci fornisce il quadro di riferimento per una resistenza mirata ed efficace.
L’ambiguo ruolo dell’Europa
Un terzo aspetto riguarda il contesto più ampio, europeo, in cui questa politica trova applicazione. Uno dei punti forti, sui quali la retorica del governo Meloni – ma, negli anni passati, anche quella dei governi Conte e Draghi – ha trovato maggiormente sponda nell’opinione pubblica, è quello di un’Europa che lascia sola l’Italia, non aiutandola come dovrebbe. È una visione, questa, che viene almeno in parte sposata anche da chi ritiene inaccettabile lasciare per giorni o settimane delle persone su una nave in mezzo al mare.
Al riguardo, c’è un sostanziale elemento di verità – ed è il motivo per cui ci si è battuti per la riforma del Regolamento Dublino III (ostacolata proprio dalla Lega, in primis) e per un meccanismo di soccorso in mare europeo, tra le altre cose. Ed è altrettanto vero che in pochi, a livello europeo, possono ergersi a paladini dei diritti umani in tema di politiche migratorie e di asilo – si ricordino, solo a titolo di esempio, i respingimenti francesi a Ventimiglia, l’Accordo Ue-Turchia a guida tedesca o la posizione e le responsabilità politiche del governo (progressista) spagnolo rispetto alla strage di Melilla del giugno scorso.
Questo aspetto suggerisce cautela nella scelta delle strategie di risposta e del terreno della battaglia politica, non solo per massimizzarne l’efficacia, ma anche al fine di non perdere credibilità agli occhi di chi guarda con favore a questo movimento. Da un lato, quindi, va probabilmente evitato l’eccesso di esterofilie ed europeismi acritici, che appaiono fuori luogo in ambito migratorio, anche quando qualche governo straniero o istituzione comunitaria assume una posizione condivisibile (come la disponibilità francese ad accogliere la Ocean Viking, nonostante le insidie che l’accettazione di questa opzione porta con sé, o il richiamo al rispetto di norme e diritti da parte della Commissione europea). Dall’altro, è sempre utile affiancare al racconto (vero) delle responsabilità lasciate all’Italia da Ue e stati membri (anche quelli costieri, come Malta), il racconto, altrettanto vero, delle responsabilità di cui altri stati si fanno carico e l’Italia no, come nel caso delle richieste di asilo, nonostante la retorica spesso utilizzata dai governi italiani, sopra richiamata.
C’è lo spazio per azioni giudiziarie
Infine, un quarto punto fondamentale di riflessione emerge guardando a come, nel tempo, si sono evolute le politiche dei porti chiusi e di intimidazione della flotta civile di soccorso in mare. In questo contesto, risalta il ruolo strategico e decisivo giocato dai procedimenti giudiziari intentati dalle organizzazioni della società civile contro le politiche governative. L’elenco è lungo, e include tanto procedimenti penali, come quello che vede Matteo Salvini imputato a Palermo per il caso Open Arms, quanto procedimenti amministrativi – numerosi, da quelli che hanno dichiarato l’illegittimità di alcuni decreti governativi di chiusura dei porti a quelli relativi ai fermi amministrativi delle navi della flotta civile. Così, da parte delle organizzazioni della società civile, si è passati da un approccio alla giurisdizione essenzialmente di tipo difensivo, nei procedimenti penali per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, a un uso offensivo del diritto – in particolar modo di quello internazionale.
Le battaglie giudiziarie hanno prodotto un cambio di paradigma negli approcci governativi alle politiche migratorie e di gestione delle frontiere, mostrando maggiore cautela in alcuni casi, ma anche affinando le strategie di criminalizzazione e contrasto delle Ong. Esempio di ciò è il crescente ricorso a strumenti più «agili» e all’impiego di istituzioni alle dirette dipendenze ministeriali: è il passaggio da una battaglia incentrata sui procedimenti penali a una più marcatamente amministrativa, dove il ruolo centrale non è più quello di alcune procure, ma quello della Guardia costiera, tra gli altri.
La rilevanza di questo spazio di lotta – che non può comunque essere sganciato da una forte mobilitazione politica – è emersa anche in questi giorni, con le azioni legali annunciate da Sos Humanity. Capiremo nel prossimo futuro se, nonostante la risoluzione della vicenda della Humanity 1, vi sarà la decisione di andare comunque avanti con il ricorso al Tar in merito alla legittimità del decreto interministeriale Piantedosi-Salvini-Crosetto, con valenza in chiave futura.
Tenere a mente quel che abbiamo appreso, direttamente o indirettamente, negli ultimi anni attorno a questi quattro punti può risultare la chiave per lo sviluppo di un ampio movimento di resistenza, che sappia contrastare efficacemente il discorso politico che viene dalle aree filogovernative, che sia in grado di mettere in atto azioni puntuali di solidarietà e mobilitazione in presenza di navi bloccate in mare e che, infine, sia capace di cogliere gli spazi aperti da un uso strategico del diritto e della giurisdizione.
Se è vero che, in questi anni, i governi che si sono succeduti hanno imparato ad affinare la propria strategia anti-persone migranti e anti-Ong, è bene tenere a mente che anche chi si batte per la libertà di movimento e per la difesa delle persone, piuttosto che dei confini, ha imparato tanto. Fare tesoro di questi insegnamenti significa avere in mano maggiori risorse e strategie più incisive per affrontare una stagione di battaglie che si preannuncia particolarmente dura.