Riportiamo il seguente editoriale del Centro Studi Piero Gobetti che riflette sulla vicenda di Dana e sul restringimento degli spazi di dissenso nel nostro paese.
Alla domanda: “Qual è il problema dei problemi della democrazia oggi”, personalmente non esiterei a rispondere: “Il diritto al dissenso”. Un problema tanto più urgente quanto più le democrazie attuali si vanno trasformando se non si sono trasformate in autocrazie si massa nel senso di legittimate da elezioni politiche generali in numerosi casi più o meno regolari, più o meno plebiscitarie. Un problema ancor più urgente in assenza di una opinione pubblica avvertita del rischio e quindi poco sensibile alla trasparenza e alla pubblicità dell’azione legislativa dei governi. Un problema che riguarda sia le democrazie di più recente formazione o quelle più controverse sia le democrazie storiche, e non solo gli Stati Uniti di Trump ma anche l’Europa.
In Italia il problema della liceità e della legittimità del dissenso si pone da sempre in maniera strisciante, a volte è esploso in forma clamorosa come per esempio nella repressione della contestazione durante i fatti di Genova nel 2001. Proprio in questi giorni è tornato in primo piano con l’arresto di Dana Auriola, attivista e portavoce del Movimento No Tav, all’alba dello scorso 17 settembre, presso il suo domicilio a Bussoleno, in Valsusa, dove risiedeva dal 2019. Dana è ora reclusa nel carcere “Le Vallette” di Torino per scontare una pena detentiva di due anni, a seguito di una condanna definitiva per “violenza privata” e “interruzione aggravata di servizio di pubblica necessità” per un’azione dimostrativa pacifica realizzata il 3 marzo 2012 sull’autostrada Torino-Bardonecchia, all’altezza del casello di Avigliana, alla quale parteciparono circa 300 attivisti del movimento. Nel corso dell’azione, durata in tutto circa 20 minuti, alcuni attivisti bloccarono con il nastro adesivo l’accesso ad alcuni tornelli del casello consentendo il passaggio alle automobili senza pagare il pedaggio. Il reato di Dana: spiegare con il megafono le ragioni della manifestazione.
Come ha dichiarato Riccardo Noury, “esprimere il proprio dissenso pacificamente non può essere punito con il carcere”. Per il portavoce di Amnesty International – Italia, l’arresto di Dana Airola “è emblematico del clima di criminalizzazione del diritto alla libertà d’espressione e di manifestazione non violenta, garantiti dalla Costituzione e da diversi meccanismi internazionali”. Pertanto “è urgente che le autorità riconsiderino la richiesta di misure alternative alla detenzione e liberino immediatamente Dana, arrestata ingiustamente per aver esercitato il suo diritto alla libera espressione e a manifestare pacificamente”.
Non entro nel merito della sentenza dei giudici. Osservo in generale che in uno stato democratico l’intervento giudiziario non può e non deve trasformarsi in uno strumento per garantire l’ordine pubblico. La questione, infatti, non riguarda solo alcune frange isolate e estremiste ma investe direttamente il rapporto tra i conflitti sociali e la giurisdizione. In primo piano torna il grande tema della liceità e della legittimità del dissenso, che può essere manifestato sia attraverso la libera espressione delle opinioni personali sia riunendosi in associazioni legalmente riconosciute, sia promuovendo manifestazioni pubbliche più o meno di massa. Sta qui la differenza tra una democrazia costituzionale e una “democrazia giudiziaria”.
Ogni democratico sa che il dissenziente (in questo caso rispetto all’utilità o meno di una grande opera, ma il discorso vale in generale per ogni aspetto della vita pubblica) non può rischiare l’arresto se anche solo manifestasse l’intenzione di compiere atti che ostacolino, in questo caso, il realizzarsi dell’opera in questione; se facesse parte di un gruppo che compia azioni pacifiche di boicottaggio; se partecipasse a degli scontri durante i quali siano commessi dei reati, pur non commettendo egli personalmente tali o alcuni di tali reati. La responsabilità anche penale è individuale e non può essere estesa dal gruppo alla persona.
Quando il dissenso è lecito e legittimo secondo la teoria democratica?
Come argomenta Norberto Bobbio in Il futuro della democrazia, il passaggio dallo stato di natura – che è uno stato polemico – allo stato civile – che è uno stato agonistico – non significa il passaggio da uno stato conflittuale a uno stato non conflittuale: la conflittualità non cessa, ciò che cambia è il modo in cui vengono risolti i conflitti.
Il filosofo democratico non arriva a dire che la democrazia è “un sistema fondato non sul consenso ma sul dissenso”[1]. Tuttavia, sostiene, che “in un regime fondato sul consenso non imposto dall’alto, una qualche forma di dissenso è inevitabile, e che soltanto là dove il dissenso è libero di manifestarsi il consenso è reale, e che soltanto là dove il consenso è reale il sistema può dirsi a buon diritto democratico”[2].
Detto in breve, se nello stato polemico il dissenso può e deve essere controllato anche con la forza perché può manifestarsi in modo conflittuale e violento, nello stato agonistico – lo stato democratico è uno stato agonistico per definizione – il dissenso deve essere lasciato libero di esprimersi senza alcuna restrizione finché si esprime in modo conflittuale e nonviolento. Se c’è un “criterio discriminante” tra la democrazia e il dispotismo, questo è “la maggiore o minore quantità di spazio riservato al dissenso”[3].
Se poi ci si pone dal punto di vista della teoria della nonviolenza, lo stato nonviolento (e lo stato democratico è uno stato tendenzialmente nonviolento) si fonda sul dissenso e non sul consenso. La qualità di una buona democrazia si misura non dal grado del consenso ma da quello del dissenso. Il dissenso non è una manifestazione della vita democratica inevitabile e, come tale, consentita e da tollerare. Il dissenso è la via maestra per impedire il tralignamento della democrazia nell’autocrazia.
L’aggiunta nonviolenta alla democrazia sta in una più ricca e variegata articolazione delle forme del dissenso individuale – il vegetarianesimo, il superamento del risentimento e della vendetta, la preghiera, la persuasione, il dialogo, l’esempio, il digiuno, la testimonianza, l’obiezione di coscienza, la non collaborazione – e del dissenso collettivo – la comunità nonviolenta, le marce, lo sciopero, il boicottaggio, il sabotaggio, la pubblicità delle iniziative, la disobbedienza civile.
L’educazione al dissenso – l’educazione a dire consapevolmente di no – è “un elemento fondamentale dell’educazione civica, quando questa venga intesa non come una serie di obbedienze a ogni costo e a ogni autorità, ma come quella parte dell’educazione di sé e degli altri che ha lo scopo di preparare a partecipare nel modo meglio informato e più attivo alla complessa vita della comunità e al miglioramento continuo, senza violenza, delle sue strutture sociali e giuridiche”[4].
Pietro Polito – Centro Studi Piero Gobetti