«Alcuni hanno il compito di educare… noi il dovere di reprimere. La repressione è civiltà». Parole pronunciate da Gian Maria Volontè, commissario in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri, sembrano fatte apposta per personificare il volto truce dell’attuale governo contro i più deboli e chi si oppone.
da Zic Notes
Quando il ministro dell’Interno Piantedosi nei giorni successivi alle manganellate di Pisa e Firenze ha dichiarato «non abbiamo cambiato le regole sull’ordine pubblico», non ha detto qualcosa di strampalato. Infatti, nelle due città toscane, allo stesso modo di come era avvenuto in tante altri parti d’Italia nelle settimane precedenti, si sono verificati attacchi violenti della polizia a cortei e presidi. E quante volte questo è accaduto negli ultimi decenni?
Non appena un movimento sociale, soprattutto giovanile, nella sua fase embrionale, comincia a esprimersi nello spazio pubblico l’apparato repressivo dello Stato diventa il suo primo “interlocutore”. È dalla seconda metà degli anni Settanta che il conflitto sociale è sempre più diventato un tema di ordine pubblico, da affrontare con le truppe in divisa, i manganelli e le cariche nelle strade e nelle piazze. Un tema che la stampa mainstream ha quasi sempre trattato come un retaggio antistorico, di un passato tragico, coniando improvvidi paragoni con lo spauracchio dei cosiddetti “anni di piombo”.
Sono decenni che chi esercita funzioni di governo ritiene incompatibili le lotte e, a volte, anche il semplice dissenso con le necessità di conservare l’ordine sociale dato. La “democrazia del sistema politico” è ormai ridotta a semplice amministrazione dell’esistente. C’è un’acclarata incapacità istituzionale ad entrare in relazione con i movimenti e con il conflitto sociale autonomo.
Quindi la repressione e la violenza dello Stato sono strutturali e hanno una matrice identificabile e profonda, che nessuno ha mai voluto estirpare.
L’Italia è il paese che avuto la mattanza di Genova nel 2001. Le giornate delle mobilitazioni contro il G8 sono state lo specchio della violenza ramificata e perfino dominante tra il personale delle forze dell’ordine italiane. Nella violenza dei poliziotti contro le/gli studentesse/i a Pisa in diversi hanno visto la “funzione intimidatoria” che gli uomini in divisa avevano esercitato più di vent’anni prima nelle strade e nelle caserme del capoluogo ligure (soprattutto nei confronti dei più giovani). Per fortuna, a qualcuno è venuto in mente che quello che si è verificato in queste settimane non è stata un’eccezione, ma è in continuità con molti avvenimenti del passato recente.
Del resto, se scorriamo rapidamente l’elenco dei ministri dell’Interno dal 2001 ad oggi (Scajola, Pisanu, Maroni, Alfano, Minniti, Salvini, Lamorgese, Piantedosi) diventa difficile trovare una qualche differenza in positivo. Così come è bene ricordare che i vertici delle forze dell’ordine, processati per i fatti di Genova nel 2001, hanno tutti fatto carriera nei dieci anni successivi al G8.
Tra l’altro, qualcuno ha fatto notare che il questore di Pisa è stato tra i responsabili dell’ordine pubblico proprio a Genova nel 2001. E durante la conferenza stampa per i sei divieti di dimora richiesti dalla procura della Repubblica contro attivisti dei Municipi sociali (Làbas e Tpo) è stato detto che anche l’attuale questore di Bologna ha svolto un ruolo nelle giornate del luglio 2001.
I DIVIETI DI DIMORA DI BOLOGNA
Quello che è avvenuto a Bologna il 27 febbraio è altrettanto grave rispetto a quello che è successo a Pisa il 23. Sei ragazze e ragazzi che avevano partecipato all’occupazione per scopi abitativi di uno stabile di proprietà di un ente religioso in via Mazzini sono stati accusate/i di avere resistito all’atto di forza della polizia e perciò sottoposte/i a divieto di dimora in tutta l’area della città metropolitana bolognese. L’episodio da cui scaturisce il provvedimento risale a diversi mesi fa, l’immobile occupato era stato trasformato in una residenza collettiva per lavoratori e lavoratrici, migranti, studenti e studentesse. A fronte di una situazione abitativa drammatica che colpisce soprattutto le fasce più deboli della popolazione, quella occupazione così come altre presenti in città, cercava di realizzare una rete di solidarietà attiva e di mutuo soccorso attraverso la quale si cercava di resistere collettivamente alle conseguenze della precarietà e ai costi di una città sempre più tarata agli standard di vita delle categorie economicamente tutelate.
Le/i giovani attiviste/i, considerate/i “individui socialmente pericolosi” si sarebbero macchiate/i di una colpa imperdonabile: la solidarietà nei confronti degli ultimi, l’organizzazione di attività di mutuo soccorso, la promozione dell’auto aiuto tra persone in difficoltà, ricorrendo alla lotta e non alla carità per affrontare i problemi legati al disagio sociale che tante persone sono costrette a subire.
Bologna è piena di uomini e di donne, di ragazzi e di ragazze che pur lavorando o studiando vivono in condizioni di estrema precarietà a causa della mancanza di alloggi a prezzi raggiungibili. Ma Bologna è piena anche di immobili abbandonati, spesso di proprietà di multinazionali, banche, imprese immobiliari, enti religiosi, tutti in attesa di speculazioni. Mentre questa “compagnia della rendita” alimenta quote impressionanti di “indifferenza sociale, un enorme patrimonio immobiliare, abbandonato da anni o addirittura da decenni, diventa fatiscente e sgretola, trasformandosi in un rifugio di polvere, rifiuti e rovine.
Quelle e quelli che occupano hanno il merito di rendere visibili i fantasmi di mattoni e cemento a cui rischiamo di abituarci: se un edificio, un palazzo o un condominio sono parte integrante di una città, di una comunità, quando vengono abbandonati o lasciati cadere a pezzi, producono loro sì il degrado di cui tanto si parla. Non sono i comportamenti delle persone.
Le/gli occupanti, però, non solo cercano di frenare il degrado urbanistico, cercano di sperimentare nuove forme dell’abitare collettivo, dell’aiutarsi reciprocamente, e di ridare vita a luoghi morti della città.
Ma tutto questo non viene mai riconosciuto e chi occupa, in questo caso come in altri casi, si può beccare la nuova forma di esilio: cioè il divieto di dimora dal luogo dove per anni o da sempre ha dimorato. Una misura particolarmente odiosa disponibile nel codice di procedura penale, e che ricorda da vicino l’allontanamento coatto degli oppositori al regime fascista: le sei persone colpite sono, di fatto, mandato al “confino”, né più né meno.
Il divieto di dimora rientra tra le “misure cautelari personali non custodiali“. Si tratta, infatti, di una forma di privazione o limitazione della libertà di circolazione.
Il divieto di dimora consiste nella proibizione di dimorare in una determinata località e nella prescrizione di non accedervi, senza preventiva autorizzazione del giudice (art. 283, comma 1, Codice di procedura penale). Questa misura ha la sua ratio nell’allontanamento di un soggetto “per evitare inquinamento delle prove o la reiterazione del reato” (ma nella maggior parte dei casi in cui è stato utilizzato in ambito di conflittualità sociale, il provvedimento è stato adottato a diversi mesi di distanza da quando i fatti sono avvenuti, e la logica con cui viene applicato è quella di allontanare le figure più attive o che maggiormente si sono messe in mostra).
Il divieto di dimora implica, poi, una vigilanza dell’ufficio di polizia territorialmente competente. Altro aspetto importante, la misura cautelare in questione, non è computabile come detrazione in un’eventuale pena definitiva che dovrà essere espiata.
Il divieto di dimora viene anche considerata come misura di prevenzione, che può essere aggiunta alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, nei casi di “particolare pericolosità e di ritenuta inidoneità delle altre misure di prevenzione”. In questo caso, rivive il vecchio “domicilio coatto” o “confino”.
GLI ALTRI CASI NEL CORSO DEGLI ANNI
Una delle prime volte che la misura del divieto di dimora viene applicata a Bologna è nel giugno 2014, è adottata contro tre giovani, dopo lo sgombero di uno stabile situato nei cantieri dell’Alta Velocità. L’ordinanza, viene definita “equilibrata e innovativa” dal procuratore Giovannini “perfettamente in linea con quello che sta avvenendo nel resto del paese”.
Sempre nel 2014, all’alba del 6 marzo, agenti della Digos e volanti della polizia si presentano allo Studentato Occupato Taksim e a casa di numerose/i attiviste/ del Cua per notificare a 12 di loro dei provvedimenti di divieto di dimora. Questo in seguito alle accuse di aver partecipato agli scontri in piazza Verdi del 27 maggio 2013 (giorno in cui la polizia venne respinta da piazza Verdi sotto la pressione dei manifestanti).
Nel 2015 un militante del Tpo viene colpito dalla misura punitiva essendo etichettato come “persona problematica per l’ordine pubblico” per via della sua partecipazione alle proteste contro lo sgombero di una palazzina occupata denominata “Villa Adelante”.
Nell’aprile 2016, dopo 11 mesi tra divieti di dimora e arresti domiciliari tornano in libertà due attivisti del collettivo Hobo, mandati a processo per lo sgombero effettuato dalla polizia nel 2014 del “Community Center” in zona universitaria..
Per le proteste scoppiate il 3 novembre 2016 contro il caro-mensa davanti alla mensa universitaria di piazza Puntoni, uno degli attivisti del Cua denunciati prima viene arrestato poi viene sottoposto a divieto di dimora nel centro storico di Bologna.
In seguito alla cosiddetta “battaglia dei tornelli” del 9 febbraio 2017, con la polizia che entra nell’aula studio di via Zamboni 36, picchiando e buttando in aria libri e suppellettili, a tre attivisti del Cua, oltre alle denunce viene applicato il divieto di dimora.
Nel mese di marzo del 2018 la procura della Repubblica chiede cinque divieti di dimora ad altrettanti attivisti accusati di avere opposto resistenza allo sgombero di Labas dell’8 agosto 2017, lo spazio autogestito di sperimentazione sociale ricavato nell’ex caserma Masini di via Orfeo.
Nel 2019 tre lavoratori, delegati dei Si Cobas di Bologna, vengono sottoposti alla misura di divieto di risiedere in città, richiesta dalla procura della Repubblica per gli episodi avvenuti durante uno sciopero del giugno 2018 alla Logesta, azienda della multinazionale spagnola leader nella distribuzione del tabacco.
Il 7 febbraio 2023 attiviste/i del Cua sono stati raggiunti da 12 misure cautelari (10 obblighi di firma e 2 divieti di dimora) per un corteo successivo allo sgombero di un palazzo occupato in via Oberdan avvenuto qualche mese prima.
Dal 2014 ad oggi le misure del divieto e dell’obbligo di dimora sono state utilizzate anche in diversi procedimenti riguardanti collettivi e singoli militanti di area anarchica.
Il lungo elenco di provvedimenti di divieto di dimora a cui sono stati costretti/e diversi/e militanti e attivisti/e stanno a dimostrare come in questi tempi la politica e la capacità di amministrare in autonomia il bene comune non esistono praticamente più. Il futuro delle città e le sue linee di sviluppo sono dettati dai poteri economici e finanziari, mentre il governo dei problemi e, soprattutto, delle emergenze sociali è legato agli interventi una volta della procura della Repubblica, una volta della Questura. I conflitti e le contraddizioni sociali non si confrontano più con la politica, che è ormai inconsistente, ma quasi esclusivamente con linee repressive tese a cancellare ogni tipo di aggregazione che non sia omologata.
SFOGLIANDO LA STORIA, NON C’E’ NIENTE DI NUOVO
Del resto, se andiamo a sfogliare un po’ di pagine di storia, scopriamo che nel 1863 fu introdotta la cosiddetta legge speciale Pica che istituiva il “domicilio coatto” in Sicilia e in Campania. Motivata come lotta al brigantaggio, questa norma, nel 1866, divenne legislazione ordinaria per essere utilizzata con chiari intenti politici. Le autorità di polizia ebbero gioco facile nell’assumere un atteggiamento arbitrario per colpire socialisti ed anarchici.
Nel 1894, per contrastare l’insurrezione dei Fasci siciliani, furono approvate altre misure eccezionali di Pubblica Sicurezza per “organizzazioni tese al sovvertimento dell’ordine pubblico”. Prevedevano l’applicabilità del “domicilio coatto” a persone ritenute pericolose per l’ordine pubblico e che propagassero la loro contrarietà agli ordinamenti sociali esistenti.
La misura del “domicilio coatto” per motivi politici tornò ad essere usata frequentemente negli anni dal 1915 al 1918. Venivano colpiti i sospettati di spionaggio, di antimilitarismo e di pacifismo. In quelle categorie rientravano coloro che erano malvisti dalle autorità come operai e socialisti. I colpiti dal “domicilio coatto” furono portati nelle isole di San Nicola, Ponza, Ventotene, Lipari, Favignana, Ustica, Pantelleria, Lampedusa, Capraia, Gorgona, Elba, nella colonia di Porto Ercole, e nella colonia penale di Assab in Eritrea.
Con il regime fascista, i concetti di sospetto e di sovversione, divennero gli strumenti di misura dei rapporti tra Stato e società. Nel 1925, il “domicilio coatto”, rinominato “confino di polizia”, fu ripristinato, attraverso la promulgazione di una legislazione eccezionale.
La nuova legge di pubblica sicurezza del 1926 rafforzò il potere di intervento preventivo e repressivo della polizia e ne allargò i margini di discrezionalità negli interventi.
Insomma, in epoca 3 o 4.0, la misura di cui abbiamo abbondantemente parlato è riuscita a scavallare indenne secoli impegnativi come l’Ottocento e il Novecento. Nel cosiddetto “terzo millennio” ha il vento in poppa a partire dal 2013 col ministero Alfano. Tutti i suoi successori l’hanno promossa e “adeguata” ai tempi, facendone uno strumento primario per colpire l’attivismo nei conflitti sociali e per “gestire al meglio le manifestazioni di libero dissenso” (oggi, nell’evoluzione del linguaggio tecnico, si dice così).
Forse ha proprio ragione Piantedosi: “Le nostre forze dell’ordine sono tra le migliori al mondo”. A reprimere aggiungiamo noi. Riescono ogni volta a farsi archiviare gli “eccessi”, come quelli avvenuti a Bologna in questi mesi e denunciati da due ragazze coraggiose che di nome fanno: Martina e Ilaria.
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