Dopo Ramy: violenza, ordine pubblico, ipocrisia
- gennaio 16, 2025
- in misure repressive, riflessioni
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In alcune manifestazioni di protesta per la morte di Ramy Elgaml ci sono stati scontri tra dimostranti e forze di polizia. Come, in casi analoghi, a Los Angeles, a Lione o a Londra. Ma la maggior parte della politica ha preferito ignorare le ragioni della protesta e invocare repressione per i manifestanti e impunità per la polizia. Ancora una volta, meglio raccattare qualche voto in più che affrontare i problemi…
di Livio Pepino da Volere la Luna
Il 24 novembre Ramy Elgaml, 19 anni, egiziano, da tempo residente in Italia, muore a Milano, sbalzato dal sellino posteriore della moto guidata da un coetaneo, nello schianto della stessa all’esito di un inseguimento per le vie cittadine, protrattosi per otto chilometri, da parte di due auto dei carabinieri. La dinamica dello schianto (stando ai filmati diffusi sui media e acquisiti dalla Procura di Milano) rende verosimile lo speronamento della moto da parte di una delle auto inseguitrici e la responsabilità (quantomeno) del carabiniere che la guidava. Nei giorni successivi Ramy diventa un simbolo e, prima a Milano e poi nel resto del Paese, si susseguono manifestazioni di protesta, spontanee e auto organizzate, per quella morte assurda. In alcune di esse – a Torino, a Bologna, a Roma – si verificano “disordini” e scontri tra i dimostranti e le forze di polizia. Il copione è sempre lo stesso. Gli striscioni e gli slogan gridano all’omicidio di polizia. Le forze dell’ordine cercano di impedire l’accesso a zone centrali o l’avvicinamento a edifici pubblici sensibili (caserme, commissariati, ambasciate…). Dal corteo partono lanci di lattine e bottiglie. La polizia carica. Mentre il corteo si disperde, alcuni dimostranti lanciano petardi o bombe carta rudimentali. La cosa si ripete due o tre volte fino a che la manifestazione si scioglie lasciando sul campo segnali stradali divelti, cassonetti rovesciati e qualche escoriazione ad agenti di polizia e a dimostranti.
I quotidiani e i telegiornali del giorno dopo sono pieni di articoli sparati con grande evidenza in cui si evocano scene di guerriglia e città messe a ferro e fuoco. Parallelamente la maggior parte della politica – di destra, ma non solo – si straccia le vesti, parla di delinquenti e teppisti che devastano le città, stigmatizza la “inaccettabile violenza” e solidarizza con le forze di polizia “senza se e senza ma”. Chi si stacca dal coro – soprattutto a sinistra – lo fa, per lo più, con imbarazzo e con mille distinguo. Tutto già visto e già detto, anche quanto alla superficialità e alla strumentalità delle analisi e delle dichiarazioni. Consumato l’ossequio al rito della (doverosa) critica della violenza – che si vorrebbe, peraltro, senza distinzioni: cioè da qualunque parte esercitata – è, finalmente, tempo di riprendere a ragionare, partendo da alcuni punti fermi.
Primo. Le manifestazioni che attraversano il mondo (contro la guerra, contro il razzismo, contro le ingiustizie, contro l’autoritarismo, per il lavoro e via elencando) portano con sé, talora, violenze e scontri con le forze dell’ordine. Accade da sempre. Basta aver letto qualche classico. Uno per tutti: «“Pane! pane! aprite! Aprite!” […] “Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!… eh! Che fate laggiù! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que’ ferri; giù quelle mani. Vergogna. Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi… Ah canaglia!”. Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. “Canaglia! canaglia!” continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. […] Più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l’inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi» (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 1840-1841, cap. XII). È così da sempre: per scelte o per dinamiche incontrollate. Non si tratta di giustificare o minimizzare, ma di guardare in faccia la realtà per quel che è e non per quel che si vorrebbe secondo i propri gusti e le proprie inclinazioni. Personalmente – lo dico per inciso – non ho mai ceduto alla fascinazione della violenza: perché le dure lezioni della storia hanno dimostrato che raramente essa è levatrice di democrazia e di libertà e, al contrario, la sua pratica alimenta assai spesso prevaricazioni e ulteriore violenza. Ma prendere atto della realtà non è un lusso intellettualistico, bensì il presupposto per affrontarla in modo non velleitario. Lo aveva capito persino il legislatore fascista che, proprio in considerazione delle dinamiche proprie dei grandi assembramenti, aveva inserito nel codice penale la disposizione dell’art. 62 n. 3, dedicata alla circostanza di «aver agito per suggestione di una folla in tumulto» (fonte, in caso di condanna, di una riduzione di pena).
Secondo. Le cose non cambiano se, dalla storia e dalla sociologia, si passa alla geografia e alla geopolitica. Proteste e scontri sono simili, se non identici, in ogni parte del mondo. Ad essere diverse sono, a ben guardare, solo le reazioni che le accompagnano. Se i fatti avvengono in paesi geograficamente e politicamente lontani (per esempio in Georgia, a Caracas o a Hong Kong), i manifestanti sono comunque – e spesso a ragione, beninteso – considerati avanguardie di libertà e di progresso mentre le forze dell’ordine sono descritte come strumenti del potere dediti a una repressione brutale e ingiustificata. Se, invece, quegli stessi fatti avvengono a casa nostra, gli scontri sono enfatizzati come episodi di guerriglia anche in assenza di danni alle persone, i dimostranti vengono definiti teppisti e delinquenti tout court, la polizia è considerata sempre vittima di aggressioni ingiustificate (a prescindere dalle modalità del suo intervento). Tutto questo in ogni caso, indipendentemente dalle ragioni delle proteste, che restano sullo sfondo come particolare irrilevante o, comunque, di secondaria importanza. L’irrazionalità dell’approccio ne rivela la strumentalità e suggerisce di cambiare registro, almeno se la finalità dell’analisi è quella di individuare politiche adeguate e non di raccattare qualche voto in più parlando alla pancia di masse disinformate.
Terzo. Veniamo, a questo punto, ai fatti dei giorni scorsi, che, pur nel quadro generale delle manifestazioni di piazza, hanno una loro innegabile specificità. Lo si vede anche dall’esperienza comparata. Quel che è successo a Torino, a Roma o a Bologna accade da trent’anni costantemente, e con ben maggiore violenza, a Lione, a Los Angeles o a Londra all’indomani della morte o del ferimento per mano di operatori di polizia di un nero, di un migrante o di un ragazzo delle banlieues. Tutti scalmanati delinquenti quelli che, in situazioni del genere, scendono nelle strade, ovunque nel mondo, con slogan di dura contestazione? E tutti buonisti irresponsabili quelli che invitano a cogliere i segnali che vengono dalla piazza? O c’è qualche lezione che si può trarre da queste esperienze? Un fatto è evidente. Alla base delle tensioni che caratterizzano le manifestazioni conseguenti a violenze istituzionali o di polizia nei confronti di migranti e marginali ci sono sacrosante rivendicazioni di uguaglianza e di giustizia e c’è una rabbia sociale che cova – e poi esplode – in città trasformate in polveriere da degrado delle periferie, violenze istituzionali, mancanza di ascolto. Senza contare che le spinte alla violenza sono acuite dal contesto: le immagini inaudite delle guerre in corso che accompagnano, irradiate dai telegiornali, i nostri pasti quotidiani non sono certo un incentivo alla convivenza e alla pace sociale. È la realtà, non un sociologismo di comodo o un giustificazionismo acritico. Ed è grottesco ridurre tutto alla regia di questo o di quel centro sociale o sottolineare che tra i manifestanti ci sono, a fianco di migranti e marginali, giovani di diversa estrazione sociale (quasi che ciò escludesse personali valutazioni e rielaborazioni della propria stessa condizione). Negare ed esorcizzare questa realtà produce solo un circolo vizioso di ulteriore esasperazione e violenza.
Quarto. Tutto vero, dicono alcuni (i più illuminati…), ma non ci si può fermare alle analisi e arrendersi, poi, ai fatti senza reagire. Giusto, a condizione, però, di mettere in campo politiche razionali ed appropriate e non risposte purchessia (o, peggio, interventi che hanno il solo effetto di inasprire e peggiorare le cose). Che fare, dunque? Non ci sono bacchette magiche ma, senza aspettative salvifiche (che richiederebbero cambiamenti sociali profondi che non sono all’ordine del giorno), qualcosa di utile e produttivo si può e si deve fare: a) anzitutto vanno evitati gli atteggiamenti isterici e strumentali che, amplificando i fatti (anche quelli più modesti), alimentano, da un lato, pregiudizi e insicurezza e, dall’altro, risentimento e diffidenza; b) in secondo luogo bisogna intervenire con decisione, sanzionando tempestivamente gli abusi, sui comportamenti razzisti, discriminatori e violenti delle forze di polizia (che, con buona pace di chi non vuol vedere, esistono, in misura più o meno grande: https://volerelaluna.it/materiali/2024/10/24/rapporto-sul-razzismo-e-lintolleranza-in-italia/); c) in terzo luogo occorrono politiche di ordine pubblico lungimiranti, con una gestione concordata delle piazze in luogo di contrapposizioni muscolari e di repressione esemplare (magari colpendo nel mucchio): anche perché decenni di esperienza comparata hanno dimostrato che, con riferimento a questo tipo di manifestazioni, la cosiddetta “tolleranza zero” ha prodotto, qualche volta, una normalizzazione contingente ma mai risultati duraturi e si è spesso trasformata in boomerang; d) infine ci vogliono, nelle città, politiche inclusive, confronto, dialogo, ascolto. Certo, ciò richiede tempo: anni, e non pochi. Ma se non si comincia mai ce ne vuole molto di più. E, poi, non partiamo da zero. Ci sono, in giro per il mondo, e anche nel nostro Paese, esperienze virtuose da riprendere. Ne cito una: quella di Torino degli anni ‘80 del secolo scorso, all’insegna dello slogan “educare la città”, che ha prodotto risultati positivi universalmente riconosciuti (https://volerelaluna.it/controcanto/2023/09/14/per-contenere-il-disagio-educare-la-citta-unesperienza/): in termini di sicurezza diffusa, di gestione dei conflitti e, insieme, di riduzione della repressione (ricordo, come magistrato di sorveglianza dell’epoca, il carcere minorile vuoto). Poi le cose sono cambiate: non nei giovani e nella protesta, ma nella politica e nelle sue parole d’ordine… E oggi siamo a questo punto.
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