Sulla base di uno stretto rispetto delle regole del gioco – che sono in realtà la cronicizzazione di norme d’emergenza del 1986 – a poco a poco, senza che ce ne accorgiamo, di carcere non si può più parlare criticamente.
di Xenia Chiaramonte
Siamo a un tale livello di apoliticità di massa e di ignoranza dei diritti fondamentali – crediamo che il carcere è solo per chi se lo va a cercare – che non capiamo assolutamente cosa ci sia in ballo nell’affaire Cospito. Se ne sono dette talmente tante, anche in veste critica, che un recente articolo pensa di fare una contromossa vincente nel dire che “No! È un anarchico, è violento, rivendica pubblicamente la violenza, va severamente punito!”.1Il giro è completo. Siamo nuovamente al punto di partenza. Ecco perché mi lascio andare e offro qui i miei due cents sulla vicenda: per scompaginare ciò che pare già detto e già perfettamente accordato e che, a ben vedere, se visto in prospettiva, non lo è affatto.
Per questioni di spazio, do per assodate le informazioni basilari sulla vicenda, ampiamente reperibili online. Anche perché tutt’altro che assodate appaiono invece le questioni fondamentali sottese alla vicenda, la cui ignoranza finisce giocoforza per strutturare i modi di narrare la vicenda stessa, o di prendere una qualche posizione in merito.
Perché puniamo? Partiamo da questo, che sembrerebbe l’ultimo dei problemi o un problema che ha già trovato la sua soluzione – nel carcere. Benché vi siano numerose teorie sulla pena, a me pare – e l’ho sostenuto più diffusamente altrove2 – che al fondo, e in un certo senso a dispetto della molteplicità delle proposizioni possibili, l’infrastruttura del penale si possa ridurre a una “ideologia”3, che peraltro è largamente divenuta prassi: difendere la società. È in base a questo tacito dovere che si esercita la potestà punitiva. Indipendentemente dai posizionamenti politici, una simile convinzione è vissuta come “giusta”, come una fondamentale acquisizione progressista e come il punto di arrivo della storia di una pena che andrebbe “dimagrendo”. Uno dei migliori manuali in circolazione di diritto penale, a firma di quello che fu anche mio professore, Giorgio Marinucci, insieme a Emilio Dolcini, inizia col dire che la storia del diritto penale è la storia della riduzione sempre maggiore della pena.
La risposta punitiva trova nel carcere la sua soluzione più recente e più presentabile per una società che si dichiara “civilizzata”. Di certo la meno sanguinaria, ma non per questo meno sadica. Se nel quadro di un processo storico di matrice illuminista e liberale il carcere può diventare il quantum di pena garantito a chi contravviene alle regole pattuite, esso non è mai stato, nemmeno al suo esordio, un progetto efficace. La criminologia critica4, oltre a Foucault, lo dice molto chiaramente: il carcere è da sempre un’istituzione che produce criminalità reprimendola.
Il carcere continua a tormentare la nostra forma di civilizzazione. Pensandolo come il “fuori” della società, come qualcosa che difficilmente potrà interessare la gente “perbene”, esso diventa l’eterotopia per eccellenza in cui si può finire solo per “merito”. Un merito agli antipodi rispetto a quello circolante, s’intende, ossia un “demerito”. Mai contempliamo però il carcere fra le forme giuridiche possibili e, soprattutto, fra le istituzioni della società capitalista – non si pensa mai, ad esempio, al carcere come discarica sociale in cui si finisce quando non si ha alcun posto nel “sistema”. E questo nonostante sia proprio la storia del carcere a testimoniarlo; la pena è la traduzione della moneta in ambito punitivo, l’astrazione che consente di rispondere con un “quanto” di vita – un certo numero di anni dentro – all’economia in seno alla quale non si era in grado di sopravvivere stando fuori. La storia dell’istituzione carceraria è legata a filo doppio invece all’economia politica. L’economia politica della pena potrebbe dirci che proprio quando le condizioni di lavoro nel mondo fuori rendono il carcere meno eleggibile, dentro non ci si finisce; al contrario, è quando vi è un’eccedenza sociale, che non trova posto nel sistema economico, che entra in gioco il carcere. Il punto è che questo può valere per tutta una serie di soggettività, ma non è affatto detto che valga per il cosiddetto criminale politico, anzi pare non funzionare del tutto: il criminale politico è infatti un soggetto che viene designato e punito come tale nella misura in cui manifesta la coscienza di opporsi al sistema che avanza contro di lui la potestà punitiva. Con una aggiunta quasi ironica, se non fosse tragica: una delle principali lotte anarchiche odierne è precisamente quella contro il sistema carcerario. La consapevolezza della sua intrinseca stortura, della sua qualità di vendetta normata è centrale nell’anarchismo contemporaneo.
Pertanto, se il soggetto istituito come criminale dalle norme di diritto è anche politico, difficilmente si potrà dire che la sua condotta illecita fosse priva di coscienza o volontà. Rispetto al criminale comune, le azioni designate come reati sono nella maggior parte dei casi compiute consapevolmente. E, tuttavia, rimane da chiedersi: quali norme? E quali reati? Qui fra le azioni compiute e la qualificazione giuridica che viene assegnata a esse si palesa sistematicamente un’enorme sproporzione. Questa caratteristica si ripete ogni volta che la condotta oggetto di imputazione ha una natura politica o sociale. Nel caso di specie, Cospito è stato punito con venti anni di carcere per un atto che non ha messo a rischio alcuna vita umana, e da circa cento giorni anche con il regime del 41bis del quale intende esibire la mostruosità attraverso il suo corpo. In un capovolgimento dei migliori auspici del diritto penale illuminato, a dimagrire qui non è la pena, ma è Alfredo Cospito, la cui fame tormenta le forme istituzionali che ci siamo dati. Si dirà: “ma come, ha gambizzato l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare!” Si dovrà rispondere che per quel reato ha scontato la pena di dieci anni; e che è proprio per il reato che apparirebbe di minore gravità che la magistratura torinese – da più di un decennio in prima linea contro il “sovversivismo”5 – ha optato per venti anni, ergastolo ostativo e 41bis.
Il caso Cospito apre domande alle quali non possiamo affatto sottrarci: si puniscono le idee o le azioni? Il nostro diritto penale sembrerebbe basarsi solo sulle seconde, sulle azioni, ivi comprese quelle a livello del tentativo. Sulle idee, dovrebbe invece esservi libertà. Ma cosa succede quando sono proprio le idee a essere ritenute pericolose? Se non si possono punire le idee che non si traducono in una azione, come si fa a prevenire la commissione di reati che da quelle idee potrebbe scaturire? È su questo livello, un livello preventivo che si situa il regime del 41bis: prevenire che con la comunicazione dal carcere si possa accrescere il numero di azioni di solidarietà, la compagine anarchica, in una parola il potenziale “proselitismo”. La pericolosità starebbe dunque nel fatto che Cospito “libero” di esprimere le sue idee dalla cella è uguale a: commissione di reati da parte di altri, fuori. Come se si trattasse di guidare un’associazione sovversiva, o, per meglio dire – in base a un impianto evidentemente mutuato dalla sfera mafiosa – come se dal carcere Cospito comandasse. La logica sembrerebbe quella di connettere i due mondi benché non vi sia nulla di più estraneo all’anarchismo del comando, della gerarchia e dell’autorità.
E, d’altronde, non si tratta affatto di ignoranza delle dinamiche della “galassia anarchica” – ignoranza che sarebbe inescusabile, dato il lungo monitoraggio dell’area6 – ma di testare pubblicamente e per la prima volta una tecnica punitiva contro una soggettività che non ne era ancora stata destinataria.
E allora ecco cosa si prospetta per Cospito: carcere a vita senza premialità di sorta, riduzione drastica delle ore d’aria, assenza di socialità, controllo e vigilanza su ogni comunicazione. In una parola: la messa a morte in vita.
Qui siamo oltre il carcere, oltre la vendetta traslata nell’istituzione totale – idea che fa breccia nei cuori nostalgici, a loro volta breccia del populismo –, c’è un surplus. Questo è il sadismo a cui assistiamo: fare soffrire doppiamente, e godere di questo plus. Tanto più che questa sofferenza è intesa come “giusta”, ossia come frutto del demerito. Come se il carcere non bastasse, come se non violasse la più grande delle libertà, la libertà stessa.
Si dirà: “Cospito rivendica la violenza!” Proviamo a essere un tantino più raffinati, con la consapevolezza che una coltre di populismo penale rende complicati i dialoghi, e che ogni volta si deve ripartire da capo con lo smontare una serie di assunti del senso comune che non corrispondono alla civiltà giuridica; facciamolo anche a costo di suonare un po’ elementari.
Quando si commette un reato, la presenza della violenza, il fatto cioè che si compia un gesto ricorrendo alla violenza (o alla minaccia) può essere nelle cose, e cioè il reato essere punito come tale proprio perché si tratta di un gesto violento. Pertanto, quando si dice, come fosse un sovrappiù, che un certo reato è stato commesso con violenza si rischia di affermare qualcosa di tautologico, e non un ulteriore elemento da tenere in considerazione: si danno casi in cui se non ci fosse l’elemento violento non ci sarebbe il reato.
Sempre più di frequente, invece, capita che il valore morale o sociale delle condotte politiche, anche di quelle violente – circostanza attenuante riconosciuta dal codice penale – non venga tenuto in considerazione al fine di attenuare la pena. Mostrare dunque come e perché non sia sempre stato così può aiutarci a vedere la questione da un’altra prospettiva. Il reato politico godeva di maggiore favore rispetto a quello comune a cavallo fra Ottocento e Novecento, e il dibattito che scaturì nella penalistica non era di poco conto, dal momento che le sue conseguenze teoriche e pratiche sono dell’ordine del giorno.
La tutela del “diritto politico” si fondava sull’idea che l’ingerenza dei governi dovesse essere limitata e le garanzie contro gli abusi dei governanti dovessero essere elevate al rango di libertà fondamentali. L’esempio “classico” è quello del divieto di estradizione. Il problema della definizione del reato politico, al centro delle teorizzazioni a cavallo fra i due secoli, rispecchia l’annosa questione del bilanciamento fra la difesa dell’ordine sociale e la garanzia delle libertà fondamentali, in special modo quelle politiche. Nell’elevazione delle libertà civili, lo Stato liberale voleva dare mostra di sé e della sua tolleranza per distinguersi dall’Ancien Régime, di cui esaspera i tratti violenti e arbitrari allo scopo di meglio autoincensarsi7.
Il reato considerato come politico godeva di alcune specifiche tutele: ad esempio, era previsto che per i delitti contro la sicurezza dello Stato fosse competente la Corte d’Assise con l’ausilio delle giurie popolari. E spesso, queste ultime tendevano a guardare con favore, se non proprio con simpatia, coloro che venivano accusati di crimini politici. Spesso, inoltre, accadeva che le giurie si rendessero conto dell’effetto intimidatorio delle accuse mosse nei riguardi degli oppositori politici, della carenza di prove, quando non della costruzione interamente poliziesca del caso, e perciò assolvevano. Per di più, i rei politici venivano spesso amnistiati. Tutti questi escamotage rischiavano dunque di beneficiare proprio le associazioni anarchiche, o di punire in modi assai meno esemplari rivolte o “scioperi sediziosi”, fenomeni estremamente diffusi in quegli anni.
Per ovviare a questo effetto collaterale, dottrina e giurisprudenza si impegnarono nel trovare soluzioni che escludessero dal novero dei reati “politici” determinati comportamenti considerati particolarmente pericolosi. E la fucina del distinguo fra la criminalità comune, o per meglio dire sociale (maggiormente punita, i cui destinatari furono principalmente gli anarchici) e politica (pena minore, destinatari i socialisti) diventeranno proprio le azioni di matrice anarchica. Al contempo occorreva mantenere “l’esigenza di tenere abbastanza larghe le maglie del reato politico, per non ridurre troppo l’area di azione di quello che era pur sempre lo strumento politico per la difesa delle istituzioni.”8
È bene precisare che la distinzione fra delitto politico e delitto comune non è soltanto materiale di riflessione liberale. La scuola positiva, con accenti diversi a seconda degli autori, dedica diversi lavori ai delitti degli anarchici, solitamente qualificati come criminali comuni, e dei socialisti, in genere visti come criminali politici. Anche qui è considerato da punire in modo più grave il delitto di tipo comune rispetto a quello politico. Potremmo dire, sinteticamente, che la base di questa maggiore garanzia sta nella convinzione che l’oppositore politico contesta il patto sociale e la forma di governo del momento, mostrandone così la relatività e la contingenza.
Oggi questo discorso sembra essere impensabile. Magari fossimo nel “diritto penale del nemico”, come pure alcuni sostengono: se fossimo davanti a una nuova Guantanamo avremmo uno “sparring partner” chiaro e limpido nella sua atrocità. Ma ecco che quando, sulla base di uno stretto rispetto delle regole del gioco – che sono in realtà la cronicizzazione di norme d’emergenza del 1986 – a poco a poco, senza che ce ne accorgiamo, di carcere non si può più parlare criticamente, si è sovversivi non appena si parla di abolizione e si cercano non alternative al carcere (funzionalità che risponderebbero agli stessi bisogni) ma trasformazione radicale delle prassi istituenti che abbiamo naturalizzato, ecco che qui (e ora) dobbiamo fare i conti con qualcosa di più subdolo, sotterraneo, ineffabile. Siamo nel diritto penale del politico che è un diritto di lotta e non un diritto penale del nemico.
Noi siamo dentro a un paradigma che proverei a definire – non è un azzardo “politico”, ma un tentativo teorico – della fedeltà. (A rendermi incerta non è il contenuto ma il segno con cui nominarlo). All’imperativo di difendere la società si accompagna, dal lato opposto, cioè quello dei governati, il dovere di fedeltà a questo imperativo. Le norme e le tecniche punitive che si sono affinate negli ultimi decenni, d’altra parte, sono proprio del segno della fedeltà, da un lato, e della difesa della società, dall’altro. Entrambi questi principi presiedono, in modo necessariamente tacito, alla storia presente del diritto penale politico.
Che di carcere si muore, anche se nella nostra civiltà giuridica sembra che, al contrario, morte e carcere si escludano reciprocamente, è oggi testimoniato dal corpo di Alfredo Cospito. Che il carcere qui si sostituisca alla pena capitale – qui e non negli Stati Uniti, ad esempio –, è contraddetto dalla fame dell’anarchico. Quello che ci dice il suo corpo è che il carcere è una condanna a morte, in quanto tale, in quanto esiste, e in quanto a esso si può aggiungere un regime di isolamento e annichilimento radicale che di “umano” e “risocializzante” non ha nulla, né per i reietti né per i rivoluzionari. Il suo unico spazio di libertà è il suo personale habeas corpus: incorporare, dimagrendo, la lotta contro la violenza del potere di punire. Mostrare che la violenza è talmente tanta che può portare a un nutrimento forzato. Pur di non fornire alla causa il corpo di un martire.
Non ci sono alternative al carcere? Dove li mettiamo i delinquenti, i pericolosi, gli abominevoli? È proprio perché non è di un equivalente funzionale, di un degno sostituto, che si sta discettando, che si apre la voragine dello sconforto. È, forse, lo stesso sconforto che ha portato Cospito ad agire individualmente e senza seguito per una trasformazione radicale delle nostre forme di vita, che, personalmente, immagino solo come comune.
Note
1 https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/la-pieta-per-luomo-non-deve-far-dimenticare-che-cospito-e-un-terrorista-ecco-cosa-diceva-g15m11co Stefano Feltri sul Domani del 31 gennaio 2023 crede di dover tirare in ballo la “pietà”.
2 Xenia Chiaramonte, Governare il conflitto. La criminalizzazione del movimento No Tav, Meltemi, Milano, 2019.
3 Alessandro Baratta, Criminologia critica e critica del diritto penale, Meltemi, Milano, 2019.
4 Penso all’ormai classico Carcere e Fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario (1977) di Dario Melossi e Massimo Pavarini, Il Mulino, 2017 e ai più recenti lavori di Valeria Verdolini, L’ istituzione reietta. Spazi e dinamiche del carcere in Italia, Carocci, 2022; Stefano Anastasia, tra cui, insieme a Valentina Calderone, Luigi Manconi e Federica Resta, Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, Chiare Lettere, 2015 e 2022; Francesca Vianello, Sociologia del carcere, Carocci, Firenze, 2019; Elton Kalica, La pena di morte viva. Ergastolo, 41 bis e diritto penale del nemico, Meltemi, 2019.
5 Il pericolo anarchico, a Torino quanto meno dal 2014, è al centro dei discorsi inaugurali dell’anno giudiziario, i quali lungi dall’essere esclusiva “ideologia” si traducono in “politica” del diritto, scelta di allocazione delle risorse per il monitoraggio e successivo, eventuale, esercizio dell’azione penale.
6 Claudio Novaro, I nuovi sovversivi: normativa antiterroristica e reati contro la personalità dello Stato nei processi a carico di anarchici e antagonisti, in “Antigone”, 1, 2006.
7 Mario Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento: il problema dei reati politici dal Programma di Carrara al Trattato di Manzini, “Quaderni fiorentini”, 2, 1973, p. 615 e ss.
8 Ivi, p. 618.
da Studi sulla questione Criminale
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