C’è chi dice che il “decreto Caivano” e le operazioni di polizia promosse dal Governo nei giorni scorsi, pur non risolutive, sono, almeno, un segnale di attenzione e un inizio, mentre i critici non sanno proporre nulla. Non è così. Ci sono state (e ci sono) nel Paese esperienze virtuose (e ignorate) di contrasto della devianza giovanile con esiti di grande rilievo. Una di queste è stata realizzata, anni fa, a Torino.
di Livio Pepino
L’inutilità del cosiddetto “decreto Caivano”, varato nei giorni scorsi dal Governo per affrontare la devianza minorile (le cosiddette baby gang), è conclamata: lo ha argomentato in modo lucido e convincente su queste pagine Riccardo De Vito ma lo sostiene ormai la stragrande maggioranza degli osservatori e persino gli ambienti di destra non consacrati al ruolo di acritici yes man. Così come inutili, o addirittura controproducenti, sono gli interventi di polizia a Napoli, a Caivano e a Roma, realizzati a esclusivo beneficio di telecamere, con esiti pressoché nulli nonostante il dispiegamento di forze e con ulteriore inasprimento dei già difficili rapporti tra popolazione e istituzioni. Non c’è bisogno, per coglierlo, di essere esperti del settore, educatori o assistenti sociali. Bastino due dati. Primo. Le Caivano d’Italia sono centinaia (al Sud, al Centro e al Nord) e le conoscono tutti (chi governa e chi fa opposizione) ma sono oggetto di attenzione e di promesse salvifiche solo – e per pochi giorni – quando succede un fatto che sconvolge l’opinione pubblica, per poi tornare nel dimenticatoio e nell’inerzia fino al verificarsi di nuove violenze o di nuovi delitti. Secondo. Le quattro regioni d’Italia con il maggior tasso di dispersione scolastica – per limitarsi a un esempio – sono, da sempre, la Sicilia (21,1%), la Puglia (17,6%), la Campania (16,4%) e la Calabria (14%): sono le regioni da cui proviene la maggior parte (il 67,6%) dei detenuti italiani. Difficile pensare che sia un caso o una semplice curiosità statistica. Eppure l’ultima notizia in termini di investimenti è il taglio del finanziamento di 6,5 miliardi di euro per progetti di rigenerazione urbana e piani urbani integrati, finalizzati a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale e alla riqualificazione delle periferie…
Ci si potrebbe fermare qui ma c’è un rilievo insidioso che circola tra media, talk show, politici onnipresenti e sedicenti esperti. È vero – si dice –, gli interventi varati o realizzati dal Governo non sono risolutivi ma, almeno, sono un segnale di attenzione e un inizio, mentre i critici, sempre alla ricerca del classico pelo nell’uovo, si limitano a parole e a farneticazioni da anime belle. L’argomento è di quelli che colpiscono l’opinione pubblica ma è strumentale e infondato. Lo dimostrano alcune esperienze assai significative: non bacchette magiche ma progetti seri con risultati di grande rilievo. Di una di esse sono stato testimone e partecipe.
Quarantasei anni fa. Erano le 2.00 del 29 luglio 1977 a Torino, in piazza Castello, il salotto buono del centro. Un taxista rifiutò di accompagnare a casa quattro ragazzi di periferia che glielo avevano intimato dopo avere tirato fuori dall’auto un cliente che li precedeva. I giovani lo colpirono con uno schiaffo e scapparono. Il taxista li inseguì impugnando un manganello. Dopo pochi metri li raggiunse, ma uno dei ragazzi, appena quindicenne, lo colpì mortalmente al cuore con un coltello. Il fatto era la punta dell’iceberg di un fenomeno diffuso (le violenze – oggi si direbbe – del branco). La città era indignata e impaurita. A quei sentimenti davano voce i media, con titoli e commenti che sembrano quelli di oggi: «Il tassista ucciso da ragazzi “bruciati”. I ragazzi “bruciati” di periferia, minorenni, studenti e “disoccupati” vestono abiti sporchi ma con una certa cura, si divertono con la chiassata nel quartiere, la Falchera, atti di vandalismo, di violenza gratuita, di bravate notturne per passare il tempo. […] L’omicidio non trova spiegazioni se non nella assurda “escalation” di delinquenza giovanile in città» (Gazzetta del popolo), «La città è impressionata per la feroce degenerazione del teppismo. Al giornale sono giunte in questi giorni decine di telefonate, reazioni istintive “a caldo”, che sollecitano di rivedere l’atteggiamento “assente” e “rinunciatario” di fronte ai piccoli reati contro il patrimonio. L’allarme sembra scattato: giovinastri di borgata sono passati dallo scippo, la piccola rapina, all’omicidio, un segnale che deve far riflettere» (ivi).
Poco più di sei mesi dopo, l’omicidio venne al vaglio del Tribunale per i minorenni. All’esito del processo il giovane omicida, riconosciuto colpevole di omicidio preterintenzionale, venne condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione. Il fatto era ormai vecchio, la tensione era rientrata e ai media bastarono poche righe – e qualche recriminazione – per archiviare la vicenda. Il copione era quello di sempre: sgomento, indignazione, paura, manifestazioni di protesta. Poi, silenzio, oblio e solitudine di vittime e colpevoli. Ma questa volta accade qualcosa di diverso. Il Tribunale per i minorenni, come in precedenti occasioni, inviò al sindaco la sentenza sollecitando interventi sociali ed educativi. E un sindaco sensibile e intelligente prese seriamente le segnalazioni e le richieste: «Il sindaco Novelli mostra il mucchio di lettere sul suo tavolo: proteste di cittadini, qualcuno invoca misura drastiche. “Ma – dice il sindaco – non si può trasformare Torino in un lager. Bisogna chiedersi il perché di questa rabbia, andare alle radici, prevenirla prima di essere costretti a reprimerla”. […] L’aggressività crea nuova emarginazione e nuova rabbia: una spirale inarrestabile, che si allarga e si riproduce senza fine. “Bisogna – dice Novelli – spezzarla, ricreando una città più umana, più ricca di fraternità e di aiuto, che non emargini ma integri, apra le braccia. Una città in cui si possa vivere, parlare, sentirsi amici”. Allora, paura e violenza avranno meno ragioni di rincorrersi» (La Stampa). Alle parole seguirono i fatti.
Nacque un progetto articolato di interventi: da un lato per i ragazzi del futuro (con investimenti prioritari in asili nido, scuole materne, tempo pieno scolastico, potenziamento dei servizi sociali), dall’altro sulla devianza giovanile che, significativamente, prese le mosse dal Ferrante Aporti (il carcere minorile cittadino). Nel giro di un decennio, il progetto coinvolse decine di migliaia di cittadini, di associazioni, di realtà sportive e di volontariato che diventarono fattori di sicurezza affiancando i ragazzi cattivi, insegnando loro mestieri, costruendo relazioni sociali, crescendo insieme. Particolarmente significativo fu il nome del progetto: “educare la città”, nella consapevolezza che il degrado è problema di tutti e che se ne esce solo insieme. Torino cambiò: le presenze al Ferrante Aporti calarono in modo verticale e, insieme, diminuirono i reati commessi da minorenni. La città divenne più sicura: tra le più sicure d’Europa, oggetto, per questo, di ricerche, visite, scambi. Non fu facile. Ci furono errori e insufficienze. Ma un nuovo modello di intervento venne utilmente sperimentato.
Poi sono venute le città “da bere” (non solo Milano…). L’interesse degli amministratori si è appuntato sul centro e le sue vetrine abbandonando le periferie, geografiche e culturali. Così il progetto Ferrante Aporti ha cominciato a deperire fino a che ne è rimasto solo il nome. Ma la vicenda torinese, nei suoi successi e nel suo abbandono, resta illuminante.
Post scriptum. Trovo una conferma di questa impostazione, a partire da un altro punto di osservazione, in un inascoltato articolo di quasi dieci anni fa (Il rammendo delle periferie, in 24 Ore Domenica, 26 aprile 2014) di Renzo Piano, architetto di fama internazionale, attento alle dinamiche strutturali delle città: «Il destino delle città sono le periferie. Nel centro storico abita solo il 10 per cento della popolazione urbana. […] Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili? […] La prima cosa da fare è non costruire nuove periferie. Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d’olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche. Si deve mettere un limite alla crescita […], costruire sul costruito. [E bisogna] portare in periferia un mix di funzioni. Se si devono costruire nuovi ospedali, meglio farli in periferia, e così per le sale da concerto, i teatri, i musei o le università».
Nota di Salvatore Palidda :
Peccato che l’archistar nonché multinazionale Renzo Piano di fatto lavori solo a nuovi progetti di speculazione per ricchi e grandi opere che fanno molto comodo a chi mira a tangenti … a Genova sta realizzando il nuovo waterfront con un quartiere per ricchi (vedi qui https://waterfrontdilevante.com/ ; https://www.youtube.com/watch?v=MdszUIsRr4E&t=80s ) dopo aver realizzato il nuovo ponte al posto del Morandi crollato (progetto sospetto di ipercosto e assai criticato da tanti esperti). Invece non ha proposto NULLA per risanare e salvare le periferie che stanno crollando (vedi caso clamoroso della Pieve di Certosa alla periferia ovest della città) e per mettere in sicurezza un territorio urbano costantemente minacciato da alluvioni … NO mister Piano ha sciorinato solo demagogia e poi ha pensato solo a chi come lui “ama il mare e le barche a vela” …
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