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Egitto: Dietro le sbarre del regime

egitto detenuti politici

Una campagna raccoglie le storie dei prigionieri politici di al-Sisi, aumentati del 300% dai tempi di Mubarak. La paranoica dittatura dell’ex generale, intanto, costruisce l’undicesima prigione in 3 anni

Il regime egiziano ha bisogno di spazio per raccogliere gli effetti della repressione politica: spunta l’undicesima nuova prigione degli ultimi tre anni. Un record: fino al 2011 le carceri egiziane erano 42, ora sono 53 contando l’ultima che sarà costruita a Qalyubia. Un 26% in più che si spiega con un altro numero, quello dei prigionieri politici: se negli ultimi anni della dittatura Mubarak oscillavano tra 5 e 10mila, oggi – secondo Gamal Eid, direttore dell’Arabic Network for Human Rights Information (Anhri), lui stesso nel mirino del governo – oggi sarebbero 41mila. Un +300%.

Difficile dare numeri certi. C’è chi alza l’asticella fino a 60mila, di cui 29mila membri (o sospetti tali) dei Fratelli Musulmani. Ma fare bilanci è quasi impossibile a causa della strutturale politica di sparizioni forzate documentate con difficoltà dalla società civile: nel 2015 l’Egyptian Commission for Rights and Freedom (Ecrf) era riuscita a contarne 1.841.

Nel mare magnum delle prigioni egiziane sono state risucchiate decine di migliaia di persone su cui oggi una nuova campagna attira l’attenzione. “Voices behind Bars”, voci dietro le sbarre, è stata lanciata mercoledì da 10 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Anrhi e Ecrf, ma anche il noto Nadeem Center. Basta aprire il sito per capirne gli obiettivi: i volti e le storie di alcuni detenuti politici di al-Sisi sono là, uno in fila all’altro.

Ci sono la giovanissima Sana Saif e suo fratello, il leader di piazza Tahrir Alaa Abdel Fattah, lo scrittore Ahmed Naji e l’avvocato Malek Adly. Ci sono i ragazzi del gruppo satirico Aftal al-Shawarea, i bambini di strada. E c’è Ahmed Abdallah, direttore dell’Ecrf e consulente della famiglia di Giulio Regeni, desaparecido del regime, barbaramente torturato e ucciso come tanti egiziani prima e dopo di lui.

Per Abdallah Paola e Claudio Regeni avevano chiesto il rilascio immediato, ma sono trascorsi ormai due mesi dal suo arresto. Come ne sono passati quasi 5 dal giorno della scomparsa di Giulio. In entrambi i casi lo sdegno europeo è scemato, garantendo impunità al regime. Potrebbe dunque sorprendere la tenacia della società civile egiziana nel portare avanti campagne apparentemente invisibili agli occhi occidentali, ma estremamente pericolose per chi le conduce.

Le accuse mosse ai prigionieri politici si ripetono come una litania, specchio della paranoia della dittatura: dal possesso di volantini che chiedono il rovesciamento del governo all’appartenenza a organizzazione terroristica, dall’incitamento alle violenze alla partecipazione a manifestazioni non autorizzate. Tutto coperto dall’ombrello soffocante della legge anti-terrorismo varata da al-Sisi. Non a caso il lancio della campagna coincide con il secondo anno di presidenza dell’ex generale, 24 mesi che hanno moltiplicato il numero di prigionieri politici.

«Questo periodo, che non sarebbe mai cominciato senza le proteste di massa che hanno condotto alla cacciata dell’ex presidente Morsi, ha visto una repressione senza precedenti delle proteste pacifiche con un pacchetto di leggi che impone restrizioni a diritti e libertà», si legge nel comunicato della campagna. L’obiettivo è riempire il sito con le storie di centinaia di prigionieri, un archivio della dittatura, memoria digitale dell’autoritarismo militare.

Ai volti si legheranno le analisi legali dei singoli casi, a dimostrazione dell’arbitrarietà della repressione e delle condizioni di vita nelle carceri egiziane: «Chi sceglie di esercitare i propri diritti è soggetto a detenzioni prima del processo e arresti punitivi e prolungati, sparizioni forzate, torture, diffamazione e minacce fisiche». Così la società civile prova ad entrare nelle celle di prigioni terrificanti: condizioni disumane e degradanti tra umiliazioni quotidiane, isolamento o celle sovraffollate, torture, carenza di cibo e igiene, caldo torrido d’estate e gelo d’inverno. E troppo spesso omicidi extragiudiziali, come Giulio.

«La cosa più amara – scrive su al-Monitor il ricercatore Ahmed al-Buraj – è il silenzio della comunità internazionale. Eppure il budget di una sola prigione, quella di Jamasa, è di 100 milioni di dollari, cinque volte il bilancio del Ministero dell’Educazione e quello della Salute insieme».

Chiara Cruciati da il manifesto