Fino a un po’ di anni fa alcuni giornali egiziani avevano una rubrica, “Solo in Egitto”. Conteneva storie e notizie curiose, possibili, a parere dei redattori, solo in Egitto. La donnona di Shubra che con un solo pugno aveva mandato al tappeto e ridotto in fin di vita il marito troppo esigente a tavola, l’abitante di Port Said convinto a cedere la casa e altri averi a una improbabile maga in cambio di un filtro d’amore, e via dicendo.
Quella rubrica oggi avrebbe ragione di esistere ancora, per raccontare però solo del sistema giudiziario egiziano che, sempre più spesso, emette sentenze che sfiorano il ridicolo a conferma della pericolosa confusione che regna al suo interno. Di recente spicca la condanna all’ergastolo emessa nei confronti di Ahmad Abdel Wahed Safawy, 28 anni, che però era stato ucciso tre anni fa a sud del Cairo dalle forze di polizia durante le settimane insaguinate seguite al golpe militare.
E non può passare inosservata la condanna a 28 anni di carcere inflitta a un bambino di 4 anni colpevole, secondo i giudici, dell’omicidio di tre persone, di tentato omicidio di altre sei, di possesso di armi da fuoco e di atti di vandalismo. Un errore non ancora corretto in via definitiva: i giudici vogliono essere certi che il bambino sia davvero estraneo a quei crimini.
Questo sistema giudiziario caotico si è messo al servizio del regime di Abdel Fattah al Sisi dopo il golpe militare del 2013 e ha sommariamente condannato a morte centinaia di egiziani sostenitori dei Fratelli Musulmani e lo stesso presidente rimosso Mohammed Morsi. Quindi ha mandato in carcere per diversi anni Alaa Abdel Fatah, uno dei protagonisti della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011, “colpevole” di aver partecipato a una manifestazione non autorizzata, oltre a decine di giornalisti, attivisti, sindacalisti e difensori dei diritti umani.
È lo stesso sistema giudiziario che ha puntato l’indice contro l’ex presidente Hosni Mubarak, accusato di essere il responsabile dell’uccisione di centinaia di manifestanti nel 2011, e che poi, dopo il golpe del 2013, lo ha assolto. Sono gli stessi giudici che restano passivi di fronte alla brutalità dei servizi di intelligence e che non indagano sulla scomparsa di centinaia di persone.
È il sistema giudiziario che ha accettato di militarizzarsi sulla base della nuova Costituzione che stabilisce che siano i tribunali militari a giudicare i civili in caso di attacchi a personale o strutture delle forze armate. Ed i pochi giudici che provano ad opporsi all’arbitrio, alla corruzione diffusa, al nepotismo dilagante e alla sottomissione al regime, vengono immediatamente allontanati. Come i 41 che sono stati sospesi o costretti ad andare in pensione per aver diffuso un comunicato in cui criticavano la deposizione del presidente Morsi per mano dei militari.
Già due anni fa Amnesty International aveva lanciato l’allarme sul comportamento della magistratura egiziana, dopo le 518 condanne a morte emesse il 24 marzo 2014 dal tribunale di Minya contro dirigenti e militanti dei Fratelli Musulmani. «Quelle condanne a morte devono essere annullate. Emettere così tante condanne a morte in un singolo processo fa sì che l’Egitto abbia superato la maggior parte dei Paesi per numero di condanne inflitte in un anno», aveva avvertito Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord.
«I tribunali egiziani sono solleciti nel punire i sostenitori (del presidente deposto) Mohammed Morsi – aveva aggiunto Sahraoui – ma ignorano le gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza. Mentre migliaia di simpatizzanti dell’ex presidente languono in prigione non vi sono state indagini adeguate sulla morte di centinaia di manifestanti (nel 2013)».
Con questo sistema giudiziario è impossibile anche solo immaginare che i magistrati egiziani possano fare piena luce su mandanti ed esecutori dell’assassinio sotto tortura di Giulio Regeni. E che possano farsi garanti delle libertà fondamentali e di opporsi, ad esempio, alla legge in discussione all’Assemblea parlamentare che vuole mettere il bavaglio ai social media per “ragioni di sicurezza nazionale”.
L’Egitto è sempre più stretto nella morsa delle Forze Armate e dei servizi di intelligence, ed è sempre più militarizzato. In un Paese dove tre bambini su 10 soffrono la fame, il presidente Abdel Fattah al Sisi pensa a comprare nuove armi. Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), l’Egitto in un anno è passato dal 16esimo al 12esimo posto nella lista dei principali Stati importatori di armi. Al Sisi sostiene che sia necessarie per combattere i jihadisti nel Sinai ma non si spiega l’acquisto di una costosa nave da guerra dell’ultima generazione. Comprando armi dagli Usa, dalla Francia e ora anche dalla Russia, il regime egiziano si legittima in Occidente.
Michele Giorgio da il manifesto