A due giorni dal sequestro, martedì sera è “riapparso” Ibrahim Metwally, avvocato delle famiglie dei desaparecidos egiziani e attivo nelle ricerche sull’omicidio di Giulio Regeni. Confermato l’arresto, dopo un passaggio sommario di fronte alla procura della National Security (un sistema giudiziario parallelo rispetto a quello ordinario), ora si trova rinchiuso nella prigione di Torah, a sud del Cairo. Le accuse formalizzate contro di lui e che gli costeranno, per ora, 15 giorni di custodia cautelare sono pesanti: formazione di una organizzazione illegale, diffusione di notizie false e «comunicazione con soggetti stranieri».
L’avvocato, fondatore dell’Associazione delle famiglie delle vittime di sparizione forzata e padre di un giovane studente desaparecido da quattro anni, era stato fermato all’aeroporto mentre era in partenza per Ginevra. In Svizzera avrebbe dovuto relazionare a un gruppo di lavoro Onu sul drammatico fenomeno delle sparizioni forzate in Egitto e sul caso Regeni.
Bahey al-Din Hasan, direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies, in un tweet riferisce altri particolari inquietanti del sequestro. Pare infatti che appena fermato all’aeroporto Metwally avesse fatto in tempo ad allertare telefonicamente i familiari. Al primo messaggio ne sarebbe seguito pochi minuti dopo un altro in cui invece diceva di essere riuscito a imbarcarsi sull’aereo, un goffo tentativo delle forze di sicurezza di ritardare l’allarme. «Questi sono metodi di una gang mafiosa, non di uno stato» ha commentato Hasan, veterano del movimento egiziano per i diritti umani.
La prigione di Torah (Massima Sicurezza 2) in cui è detenuto Metwally è parte di un enorme complesso carcerario composto di sei strutture, tristemente noto per essere uno dei peggiori luoghi di detenzione in Egitto per torture e maltrattamenti. Gestita dalla temutissima National Security, “ospita” soprattutto detenuti politici, per la maggior parte islamisti. Circa un migliaio sono rinchiusi nei blocchi della famigerata sezione Scorpion: pochi hanno la fortuna di poter raccontare l’esperienza vissuta in quel buco nero, «progettato in modo tale che chi vi entra non ne esce che da morto» secondo la testimonianza di un ex-secondino riportata da Human Rights Watch. Le sparizioni vengono ormai usate sistematicamente dal regime come mezzo di repressione. Solo quest’anno si contano già 250 casi. Non è escluso che, senza l’eco suscitata in Italia dalla notizia della sparizione di Metwally, oggi saremmo ancora all’oscuro dei dettagli sul suo arresto e la sua localizzazione.
In molti non hanno fatto a meno di notare la coincidenza dell’arresto di Metwally con il rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo, che si insedierà formalmente oggi nella sede rimasta vacante dall’aprile 2016. Le peggiori previsioni degli attivisti egiziani si stanno avverando: con il rinvio dell’ambasciatore l’Italia rinuncia definitivamente all’unico strumento di pressione sull’Egitto e lascia mano libera agli aguzzini del regime. «Avevamo un sogno: fare luce sulla scomparsa di Giulio Regeni» ha dichiarato all’agenzia Dire Maaty al Sandouby, giornalista esule in Italia e co-fondatore dell’associazione di Metwally. «La vittoria di quella battaglia per la verità avrebbe potuto avere conseguenze molto importanti per tutti i desaparecidos del nostro Paese».
Il tempismo è tale che la mossa delle autorità egiziane assume i toni di una beffa nei confronti dell’Italia e della comunità internazionale, un delirio di onnipotenza legittimato dalla totale impunità del regime anche di fronte alle violazioni più palesi. Lo conferma il totale silenzio del governo italiano, tanto più grave in quanto Metwally è la quarta persona che paga con la propria libertà la colpa di essersi occupato del caso di Giulio, come nota il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury.
A poco dunque servono ormai le rassicurazioni di Gentiloni pronunciate martedì sera al Copasir, secondo cui il mandato dell’ambasciatore Cantini sarà quello di cercare di ottenere «collaborazione» dalle autorità egiziane. Se questo è il genere di collaborazione offerto dall’Egitto, forse sarebbe meglio che l’ambasciatore rispondesse con un fermo e cortese «No, grazie!».
Pino Dragoni
da il manifesto