Si è detto più volte che la nostra carta costituzionale prende una posizione netta sulla pena: questa deve essere finalizzata alla rieducazione del condannato, senza mai scadere in trattamenti inumani, e quindi alla prospettiva di un reinserimento del reo nell’alveo dei liberi cittadini una volta che questo abbia espiato la giusta pena e nel cui ambito abbia avuto modo di correggere la tendenza che lo ha portato a delinquere.
All’entrata in vigor della Costituzione, tuttavia, non è seguita l’emanazione di un nuovo codice penale che sostituisse quello entrato in vigore nel 1930 sotto il regime fascista. Il codice emanato dal Rocco risentiva pesantemente della cultura politica entro cui è stato emanato, che in termini penalistici si traduceva in una concezione rigidamente retribuitivistica della pena, ovvero quella remota idea che la pena da infliggere si sarebbe dovuta basare su un calcolo che “retribuisse” il male che il reo ha inflitto alla società in egual quantità. Una concezione che già dal Settecento veniva giudicata barbara ed inutile, ma che tuttavia ben si confaceva alle esigenze ed all’ideologia del regime di Mussolini. La Costituzione, come detto, ha completamente stravolto i principi del diritto penale introducendo le concezioni della prevenzione generale e speciale della pena, cioè la pena non doveva servire a vendicare il male compiuto ma ad evitare che chiunque, ed in particolare chi già si era macchiato di un crimine, non si determinasse a compiere un reato.
La mancata emanazione di un nuovo codice penale ispirato alla Costituzione del 1948 veniva spiegato in senso che sarebbe bastato una rilettura dello stesso secondo i nuovi principi per giungere ad una pratica conforme al nuovo ordinamento. A distanza di anni possiamo renderci conto che questa fu una infelice abdicazione della classe politica a carico della magistratura, la quale non aveva in realtà una forte strumentazione (e forse nemmeno la voglia) per stravolgere le disposizioni precedenti (se non per i casi più eclatanti), ed infatti l’adeguamento avvenne in tempi molto lunghi.
Il tema che vogliamo affrontare, la costituzionalità dell’ergastolo, mostra ancora alcune criticità: c’è da dire che il costituente non la ha esplicitamente proibita, come fu per la pena di morte, ma di certo il sopravvissuto articolo 22 del codice penale per cui: “La pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno”, quindi l’idea che al reo non possa essere riconosciuta la possibilità di una futura riabilitazione, cozza col comma 3 art. 27 della Carta Costituzionale.
In un primo momento si sono verificati tentativi che pur preservando l’idea di fondo della pena perpetua iniziavano ad aprire ad una prospettiva condizionata di liberazione e reinserimento: nel 1962 entra in vigore la legge 1634/62, recante disposizioni di modifica alle norme del codice penale in tema di ergastolo e liberazione condizionale che introduceva la possibilità, per l’ergastolano, di accedere al lavoro all’aperto anche in caso di isolamento diurno ma, più importante, concede il beneficio della liberazione condizionale scontato un minimo di pena, quindi si apriva un minimo barlume di speranza ma già nel 1975 si è registrata una decisa marcia indietro con la riforma dell’ordinamento penitenziario (legge 354/75 a sua volta riformata dalla legge 663/86) la quale ha introdotto il regime della semilibertà e della liberazione anticipata in una formulazione che, esplicitamente, non ne permetteva l’accesso agli ergastolani.
Tale ultima disposizione fu successivamente dichiarata parzialmente illegittima dalla Corte Costituzionale, “nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo la riduzione di pena ai soli fini del computo della quantità di pena così detratta nella quantità scontata, richiesta per l’ammissione alla liberazione condizionale”. In tal modo si riconosce l’operatività nei confronti degli ergastolani, anche se con i detti limiti, del beneficio di cui all’art. 54 della legge penitenziaria, che fino a questo momento era riconosciuta soltanto dalla dottrina più illuminata.
Già in quegli anni però, l’emergenza mafiosa spinse verso un più duro giustizialismo tanto la classe politica quanto l’opinione pubblica. Si è arrivati nel 1992, anno particolarmente difficile per l’ordine pubblico ma comunque mesi prima delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, all’emanazione della legge 356, la quale ha introdotto nella legge sull’Ordinamento Penitenziario l’art. 4-bis, sancendo il “Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”.
Non si può tuttavia non far riferimento alla successiva giurisprudenza della Corte Costituzionale la quale ha offerto ancora qualche piccolo segnale di progresso: la sentenza n. 161 del 1997, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 177, primo comma, del Codice penale, “nella parte in cui non prevede che il condannato all’ergastolo, cui sia stata revocata la liberazione condizionale, possa essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio, ove ne sussistano i relativi presupposti”, perché in caso contrario, come si legge nella motivazione della sentenza, il mantenimento di questa preclusione assoluta sarebbe corrisposto, per l’ergastolano, ad una sua permanente esclusione dal processo rieducativo e di reinserimento sociale, in palese contrasto con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, efficace anche nei confronti degli ergastolani. Si deve porre l’attenzione in particolare sull’ultimo inciso, pregevole perché ha sancito ancora una volta che anche l’ergastolo non pone il reo fuori dalla cittadinanza costituzionale.
Proprio su questo punto deve riflettersi. L’emergenza mafiosa ha fatto assumere al legislatore, sulla scorta emozionale dell’opinione pubblica, una vera e propria mentalità di guerra, quindi di sospensione del diritto per straordinarietà del pericolo allo Stato stesso, di conseguenza i soggetti riconosciuti colpevoli dei gravi reati venivano del tutto tratti fuori dalla cittadinanza e dalle relative procedure di garanzia. La Costituzione venne rotta in nome di un non ben precisato e del tutto inedito ed irrituale principio di necessità ad personam, con la particolarità che il riconoscimento di tale necessità veniva generalizzata per indefiniti casi passati e futuri.
L’art. 4 bis ha determinato quindi la fine di quelle anche flebili speranze di rieducazione e reinserimento caducando del tutto il principio di cui all’art. 27 della Costituzione. La formulazione dell’art. 4-bis mostra ulteriori perplessità costituzionali, in particolare con i principi di legalità e tassatività (art. 25) in quanto l’ergastolo ostativo, pena più grave di quello semplice, può ora essere irrogato anche se non esplicitamente previsto come pena dalle norme penali ritenute violate., andando così a stravolgere una delle più indiscusse formalità imposte al diritto penale.
Non si possono inoltre non citare le prese di posizione della Corte Europea dei Diritti Umani per cui le “pene senza fine” non possono considerarsi coerenti con la CEDU (che a dispetto di quanti molti, anche fra gli addetti ai lavori, dimenticano, ha un valore pari o addirittura superiore ai principi costituzionali), in quanto considerate inumane, sulla scorta di autorevoli considerazioni giuridiche e filosofiche, ha ravvisato una contrarietà di tale trattamento detentivo col requisito dell’umanità. In specie, la sentenza della Gran Camera “Vinter c. Regno Unito” del 2013 (prima fra altre) ha avuto modo di stabilire che la pena dell’ergastolo può essere compatibile con la Convenzione quando lo Stato si doti di un meccanismo di revisione della effettiva necessità di prosecuzione dell’esecuzione della pena in rapporto ai fini della pena medesima, che tenga conto degli eventuali cambiamenti verificatisi nella persona del condannato e dei progressi da questi compiuti nel percorso riabilitativo e che preveda una procedura che valuti concrete prospettive di liberazione al condannato una volta decorso un periodo di detenzione e dimostratosi idoneo al reinserimento nella società.
Merita infine una piccola analisi sull’art. 41 bis, dedicato non all’entità della pena ma alle condizioni di questa. La norma assume un carattere più di diritto amministrativo-penitenziario a tutela dell’ordine pubblico che puramente penale. Lo scopo di questa norma non è, almeno in teoria, quello di rendere il trattamento penitenziario più gravoso del normale, ma quello di isolare i condannati dalla compagine criminale rimasta all’esterno. La misura si è presentata in un certo senso necessario in quanto i boss della mafia ristretti in regime ordinario trovavano il modo di dirigere l’attività dell’associazione mafiosa anche da dietro le sbarre. Nessun dubbio su questa necessità, son tuttavia le concrete modalità con cui si è inteso fronteggiare tale rischio che suscitano perplessità.
Innanzitutto la forma legale all’interno del sistema costituzionale: questo regime venne introdotto inizialmente come misura temporanea e straordinaria considerata l’emergenza mafiosa, ciò fino alla riforma del 2002 quando si decise di renderla sistemica. Quindi una prima considerazione si può fare: quella che era considerata inizialmente come una rottura straordinaria della costituzione dovuta alla necessità è stata successivamente normalizzata e fatta in qualche modo rientrare nella normalità costituzionale.
La detenzione al 41 bis consiste in una standardizzazione di misure di sicurezza estreme, le quali, a dispetto del rispetto delle più basilari condizione di vita del condannato con lo scopo formale di un garantito isolamento, non di una afflizione più grave. Nei fatti sembra però il contrario: oltre ad un controllo sulle comunicazioni con l’esterno ed una particolare sorveglianza (misure accettabili) il condannato viene ristretto in celle di scarsissima metratura, spesso sottoterra, isolato anche dai compagni di detenzione, e solo con la sporadica possibilità di leggere o guardare la televisione.
Misure che di certo non aiutano alla rieducazione, ma che al contrario gettano sistematica il detenuto nella malattia psichica ed ancora una volta, non nella condizione di cittadino che sconta la pena ma di quella di nemico da neutralizzare. Come già detto, accettata l’esigenza di interrompere il rapporto fra esponente ristretto e l’associazione mafiosa all’esterno ci chiediamo se ancora una volta lo Stato non abbia abdicato al principio costituzionale e di aver accettato il fatto di essere incapace ancora una volta di conciliare le esigenze di ordine pubblico con quelle del rispetto dei diritti riconosciuti. Ulteriormente si vuol segnalare che il regime del 41bis non viene disposto da un magistrato neutrale ma dal Ministro della giustizia, organo politico quindi, a conferma che la misura non abbia tanto esigenze custodiali quanto quelle poliziesche e determinando così l’ennesima violazione dello Stato di Diritto.
Su questo punto la Corte Costituzionale non si è esposta in alcun modo, accettandone la costituzionalità, ma pronunce importanti sono giunte dalle magistrature straniere, come quella della Suprema Corte Statunitense, la quale ha rigettato una richiesta di estradizione all’Italia in quanto il regime del 41bis veniva da questa considerata come una vera e propria tortura.
Sulla scorta di queste considerazioni possiamo concludere affermando la necessità di una riforma dell’ergastolo in modo che concili le necessità dell’ordine pubblico, anche per un Paese gravemente afflitto dal fenomeno mafioso come l’Italia, con quelle dell’umanità del trattamento, prevedendo una nuova procedura di conferma della pericolosità sociale e della tendenza criminale del condannato al termine di un idoneo periodo detenzione, entro la quale sulla scorta di valutazioni specialistiche della personalità del condannato e sul suo comportamento intrattenuto durante la detenzione possa essere offerto a questo la possibilità di tornare nella società.
Il ritorno sul territorio di ex detenuti per gravi reati, ormai pienamente riabilitati e ben consapevoli del male che hanno inflitto, non potrà essere che un formidabile grimaldello per scassinare non solo l’organizzazione della malavita ma addirittura la mentalità che la sostiene. Come autorevolmente affermato, l’azione di polizia può avere solo l’effetto di reprimere i sintomi del fenomeno mafioso: per sradicarlo sono necessarie azioni culturali e sociali tendenti a far aderire e comprendere alla popolazione la giustizia dello Stato di Diritto.