Fiammetta Borsellino: «L’ergastolo va rivisto: più educatori e meno agenti»
La figlia del magistrato ucciso ha partecipato a due incontri in Calabria. Ha raccontato di aver incontrato i fratelli Graviano «in quell’inferno del 41 bis», aggiungendo «sapere che c’è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello Stato!»
Verità, diritto alla conoscenza, depistaggi e difesa dello Stato di diritto. Queste le parole chiave del ciclo di incontri, organizzati dall’associazione Yairaiha Onlus, che si sono conclusi la settimana scorsa e che hanno visto la partecipazione di Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato Paolo Borsellino dilaniato dal tritolo il 19 luglio del 1992. Nei due incontri, il primo a Catanzaro, alla facoltà di Sociologia e il secondo al Comune di Rende, presso la sala Tokyo del Museo Del Presente, non si è parlato dell’antimafia come di solito avviene nei convegni sponsorizzati dai mass media, dove molto spesso la narrazione non coincide con lo Stato di diritto, evocando teorie della cospirazione che – divenute una spada di Damocle – frenano qualsiasi governo nel rivedere quelle misure emergenziali divenute nel frattempo ordinarie. Si è parlato della ricerca della verità sulle stragi, in particolar modo quella che ha coinvolto Borsellino. Così come sono stati trattati i temi del sistema penitenziario, che assume a volte forme più vendicative che non di reinserimento del detenuto nella società, e del giusto processo, da tutelare perché garantito dalla Costituzione.
La verità sulla strage di via D’Amelio, infatti, è stata insabbiata dal depistaggio certificato, dopo 26 anni, grazie alla sentenza del Borsellino quater. Depistaggio avvenuto non solo per la conduzione delle indagini, ma reso possibile anche grazie l’irritualità dello svolgimento dei primi processi. «ll vero aiuto che avremmo dovuto avere da parte dello Stato non era una pacca sulla spalla, ma risposte precise», ha esordito Fiammetta Borsellino durante il primo incontro. Ma non solo. «Si parla sempre dell’agenda rossa di mio padre – ha spiegato Fiammetta -, ma nessuno dice della scomparsa dei tabulati telefonici del suo cellulare, unico oggetto rimasto integro dopo la strage».
Ma la causa della morte del padre? Un quesito posto da Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, che ha sottolineato come solo pochi giornalisti– incappando in querele – ricordino ad oggi la vecchia storia del dossier mafia- appalti. Fu un’operazione condotta dai Ros e depositata in Procura a Palermo nel ’ 91 su spinta di Giovanni Falcone. Un dossier che poi interessò molto Paolo Borsellino. Ed è la figlia che risponde, ribadendo che la concausa della morte del padre è da ritrovarsi nel suo interessamento sul dossier di mafia- appalti. Ricordiamo che questa indagine è stata presa in considerazione, con sentenza definitiva emessa il 21 aprile del 2006, da parte della Corte d’Assiste d’Appello di Catania. Scrivono, infatti, i giudici che Falcone e Borsellino erano «pericolosi nemici» di Cosa Nostra in funzione della loro «persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa» e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti.
Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. Tale motivazione sarà poi ripresa anche nel Borsellinoquater, dove furono acquisite anche le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè, secondo cui «il dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti”, appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che ha portato all’uccisione di Falcone e Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno». Nella decisione di eliminare i due magistrati, quindi, aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione del Borsellino quater -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura».
Fiammetta Borsellino ha ribadito l’importanza del dossier e ha chiesto lumi sulla richiesta di archiviazione, che fu depositata dopo tre giorni dalla morte del padre. Ha aggiunto la figlia del giudice, a proposito dei giornalisti che vengono querelati, l’importanza del diritto all’informazione e ha approfittato per ricordare che è a rischio la chiusura di Radio Radicale, «perché se non ci fosse stata lei che segue tutti i processi, noi oggi non sapremmo nemmeno di cosa si sta parlando». Fiammetta poi è ritornata su mafia- appalti e ha aggiunto qualcosa di inedito.
Il 14 luglio, cinque giorni prima dell’attentato, ci fu una riunione alla Procura di Palermo avente come oggetto anche la questione del dossier mafia- appalti, proprio perché i giornali montarono delle polemiche circa la conduzione dell’inchiesta. Vi partecipò Paolo Borsellino. La figlia, durante il primo convegno alla facoltà di Catanzaro, ha quindi posto una domanda: «Qualcuno tra magistrati e componenti del Csm, saprà dirmi cosa disse mio padre quel giorno?».
Durante il convengo di Rende, parliamo della seconda e ultima giornata del ciclo di incontri, interessante l’intervento del sociologo Ciro Tarantino che parte dalla domanda posta dalla locandina dell’evento “Chi è Stato”, con un duplice significato dal “chi è stato” l’esecutore delle stragi a chi è Stato con la maiuscola. «Gianni Rodari – ha spiegato Tarantino – dava valore cambiando la minuscola con la maiuscola, quindi qual è questa parte di Stato che si è reso responsabile della strage di via D’Amelio?». Il sociologo ha sottolineato che nella storia repubblicana tale domanda si pone inevitabilmente sempre dopo le stragi, esattamente quando si fanno i funerali, appunto, di Stato. «Ed è proprio in quel momento – ha aggiunto – che si verifica lo scarto tra lo Stato ideale che noi vogliamo, da quello reale». Tarantino ha puntato sul diritto alla verità e quindi l’importanza della memoria collettiva. «Gianni Rodari – ha concluso – sosteneva che la verità è una malattia e oggi assistiamo ad una molteplicità di verità prive di sapere. La memoria collettiva deve invece essere alimentata dalla duplice volontà di sapere». Si è affrontato anche il ripristino del 41 bis, così come la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara. È intervenuto a tal proposito il presidente della camera Penale di Cosenza, avvocato Maurizio Nucci: «I diritti del soggetto non vengono garantiti, la Costituzione è violata perché viene a mancare il diritto alla speranza». Poi c’è Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaha, ha posto delle riflessioni in merito all’ergastolo ostativo e al carcere duro: «Ci sono persone condannate all’ergastolo, a cui è stata rubata la vita al pari delle vittime delle stragi. È necessario un regime carcerario che anche l’Onu considera tortura? Serve ad ottenere la verità?». Fiammetta Borsellino ha raccontato di aver incontrato i fratelli Graviano «in quell’inferno del 41 bis», così come ha voluto sottolineare. «Sapere che c’è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello Stato!», ha affermato Fiammetta. E ha aggiunto: «Bisogna rivedere l’ergastolo! Più personale di sostegno, psicologi, educatori, sociologi, meno guardie carcerarie». La figlia di Borsellino ha così concluso il suo pensiero: «lasciarsi andare alla rabbia e alla vendetta non serve».
Damiano Aliprandi
da il dubbio
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FIAMMETTA BORSELLINO: ECCO COME SI SCONFIGGE LA MAFIA E L’ANTIMAFIA
In un incontro pubblico, organizzato da Sandra Berardi dell’Associazione Yairaiha, Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino, dilaniato dal tritolo il 19 luglio del 1992, ha detto queste importante parole:“Sapere che c’è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello Stato! Bisogna rivedere l’ergastolo! Più personale di sostegno, psicologi, educatori, sociologi, meno guardie carcerarie. Lasciarsi andare alla rabbia e alla vendetta non serve”.
Penso che queste parole abbiano avuto più effetto deterrente sugli autori dell’assassinio di suo padre che tanti inutili decenni di carcere duro. L’ho detto tante volte che pretendere di migliorare una persona per poi farla marcire dentro sia una pura cattiveria, anche perché in carcere se uno rimane cattivo soffre di meno. La società vorrebbe chiudere i criminali e buttare via le chiavi, ma bisogna rendersi conto che prima o poi alcuni di questi usciranno. E molti saranno più cattivi di quando sono entrati. È difficile migliorare le persone con la sofferenza e l’odio. Il carcere in Italia non è la medicina ma è, invece, la malattia, che fa aumentare la criminalità e la recidiva. E molto spesso aiuta a formare cultura criminale e mafiosa. La galera è spesso una macelleria che non ha nessuna funzione rieducativa o deterrente, come dimostra il fatto che la maggioranza dei detenuti ritorna a delinquere in continuazione.
Come si fa a tenere un uomo dentro per sempre, con l’ergastolo ostativo, molto spesso “colpevole” di avere rispettato le leggi della terra e della cultura dove è nato e cresciuto, senza dargli la speranza di poter diventare una persona migliore? Perché queste persone dovrebbero smettere di essere mafiose se non hanno la speranza di un futuro diverso? Cosa c’entra la sicurezza sociale con tutte le privazioni previste dal regime di tortura del 41 bis? Il carcere in Italia, oltre a non funzionare, crea delle persone vendicative perché alla lunga trasforma il colpevole in una vittima: quando si riceve del male tutti i giorni si dimentica di averne fatto. Mi permetto di ricordare ad alcuni politici, che fanno certe dichiarazioni per avere consensi elettorali, che il carcere, così com’è oggi in Italia, non rieduca nessuno, anzi ti fa diventare una brutta persona. Credo che “maggiore sicurezza” dovrebbe significare più carceri vuoti, perché fin quando ci saranno carceri pieni vuol dire che i nostri politici hanno sbagliato mestiere.
La nostra Costituzione stabilisce che la condanna deve avere esclusivamente una funzione rieducativa, e non certo vendicativa. E la pena non deve essere certa, ma ci dev’essere la certezza del recupero, per cui in carcere un condannato dovrebbe stare né un giorno in più né uno in meno di quanto serva. Io aggiungo che ci dovrebbe stare il meno possibile, per non rischiare di farlo uscire peggiore di quando è entrato.
In tanti anni di carcere ho capito che la mafia che comanda si sconfigge dando speranza e affetto sociale ai suoi gregari, facendoli così cambiare culturalmente e uscire dalle organizzazioni criminali. Molti ergastolani non sono più gli uomini del reato di 20 o 30 anni prima, non sono più i giovani di allora. Ormai sono uomini adulti, o anziani, che non hanno alcuna prospettiva reale di uscire dal carcere, se non da morti. Ora molti di loro sono persone che sanno di aver fatto errori, anche grossi, che stanno pagando e l’unica cosa che chiedono è una data certa del loro fine pena.
In carcere quello che manca più di tutto è proprio la speranza di riavere affetto sociale. Solo questo può sconfiggere la mafia e creare sicurezza. I padri della nostra Costituzione lo sapevano bene -forse perché alcuni di loro in carcere hanno trascorso tanti anni- se hanno stabilito che la pena deve avere solo una funzione rieducativa. Vivere in carcere senza avere la speranza di uscire è aberrante. La pena dell’ergastolo è un insulto alla ragione, al diritto, alla giustizia e, penso, anche a Dio. A me sembra che finora le politiche, ultraventennali, del carcere duro e del fine pena anno 9.999 abbiano portato più vantaggi alle mafie (almeno a quelle politiche e finanziarie) che svantaggi. Credo che alla lunga il regime di tortura del 41bis, e una pena realmente senza fine come l’ergastolo ostativo, abbiano rafforzato la cultura mafiosa, perché hanno innescato odio e rancore verso le Istituzioni anche nei familiari dei detenuti. Penso che sia davvero difficile cambiare quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami, neppure in quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni i tuoi stessi familiari incominciano a vedere lo Stato come un nemico da odiare e c’è il rischio che i tuoi figli, che si potrebbero invece salvare, diventino loro stessi dei mafiosi.
Sono rimasto perplesso di fronte al programma di costruire nuovi istituti penitenziari, perché nei Paesi in cui ci sono pochi carceri ci sono anche meno delinquenti. Non citerò i dati sulla recidiva, ma per esperienza personale penso che il carcere in Italia non fermi né la piccola né la grande criminalità, piuttosto la produca. E questo probabilmente perché quando vivi intorno al male non puoi che farne parte.
Si vuole assumere nuovo personale di Polizia, ma siamo il Paese nel mondo che, in rapporto al numero di detenuti, ha più agenti penitenziari. Penso che sarebbe meglio se in carcere ci fossero più educatori, psicologhi, psichiatri, insegnanti o altre figure di sostegno.
Sigmund Freud affermava che l’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza. Anch’io credo sia sbagliato cedere parte della nostra umanità per vivere in una società più sicura.
È vero che una società ha diritto di difendersi dai membri che non rispettano la legge, ma è altrettanto ragionevole che essa non lo debba fare dimostrando di essere peggiore di loro. Purtroppo, a volte, questo accade. Penso che il regime di tortura del 41bis, insieme alle pene che non finiscono mai, non diano risposte costruttive, né tanto meno rieducative. Non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni, senza dirle quando finirà la sua pena, soprattutto nel caso, non raro, che essa non abbia ulteriori probabilità di reiterare i reati. Lasciandola in quella situazione di sospensione e d’inerzia la si distrugge e, dopo un simile trattamento, anche il peggiore assassino si sentirà “innocente”. Grazie Fiammetta Borsellino delle tue parole. Un sorriso a te e uno al tuo cuore.
Carmelo Musumeci