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Francia: La brutalizzazione dell’ordine pubblico

A partire dall’inizio del XX secolo in Francia, la Repubblica ha cercato di disciplinare le proteste popolari di piazza, evitando il più possibile gli attriti. Dagli anni 2000, l’approccio è diventato maggiormente punitivo e si dà la priorità all’arresto dei «facinorosi». Un’evoluzione che favorisce le violenze e pone il problema del rispetto del diritto di manifestare

di Laurent Bonelli

Dal palco di Palazzo Bourbon, un deputato denuncia le violenze subite alcuni giorni prima dai dimostranti in una piccola città del nord della Francia. La giornata era iniziata con un picchetto davanti a una fabbrica. Verso le ore 9, «i gendarmi, per ordine del tenente e senza precedenti provocazioni, hanno caricato. Un uomo è stato ferito, a un bambino è stato tagliato per metà un orecchio. La rabbia della folla è iniziata in quel momento ed è sfociata in un lancio di pietre». Dopo un ritorno alla calma, la situazione è nuovamente tesa: «Verso le ore 3 [del pomeriggio], si verificano nuovi disordini e aumenta il numero dei manifestanti». Poi, si scatena la violenza: «i gendarmi colpiscono in ogni direzione. Donne, bambini e anziani vengono travolti. Cresce l’esasperazione. Molti cittadini rispondono ai gendarmi con le pietre». All’improvviso, il dramma: «Regna una gran confusione e in quel momento, senza sapere chi ne ha dato l’ordine, senza alcun preavviso, il plotone ha investito la massa di persone con una terribile scarica di colpi d’arma da fuoco. (…) La piazza era ricoperta di feriti e di morti».

Il ministro dell’interno, interpellato, risponde con veemenza: «Abbiamo dato l’ordine che venisse assicurata la pubblica tranquillità; l’abbiamo dato con chiarezza, fermezza e prudenza». In seguito, offre il proprio racconto: «La gendarmeria locale ha individuato tra la folla molti clienti abituali dei contrabbandieri e di individui senza scrupoli, stimabili tra i 500 e i 600, più di un quarto dei quali era straniero. Per tutto il giorno la forza pubblica e l’esercito hanno dovuto subire insulti, provocazioni e aggressioni sempre più violente da parte della folla, e solo in ultima istanza, sentendosi in pericolo e nell’impossibilità di arginare iversamente, sono dovuti ricorrere all’uso delle armi». Conclude: «Non so se gli agenti, stufi delle provocazioni della folla, si siano lasciati trasportare commettendo alcune violenze; quel che so bene è che uomini di cui non si è ancora parlato sono stati feriti ed esposti al pericolo di morte compiendo il proprio dovere (…) Ci tengo a ringraziare tutte queste brave persone». Quest’ultima invettiva scatena l’ira del deputato, che per due volte gli rivolge l’epiteto «assassino», e viene temporaneamente escluso dall’aula

Sostegno incondizionato alle forze di polizia

Rivendicazione di «moderazione, fermezza e prudenza» da parte dello Stato, polemica sulla responsabilità

dell’escalation di violenza (manifestanti o gendarmi), ruolo dei «facinorosi» (in particolare, stranieri), sostegno incondizionato alle forze dell’ordine: la scena sembra riecheggiare le polemiche scatenate nelle ultime settimane dalla repressione del movimento contro la riforma delle pensioni o contro i mega-bacini, come a Sainte-Soline, lo scorso 25 marzo. Il deputato, seppur socialista, non appartiene alla Nuova unione popolare ecologica e sociale (Nupes) e il ministro non è Gérald Darmanin. Parliamo rispettivamente di Ernest Roche e Jean Antoine Ernest Constans, che si scontrano alla Camera il 4 maggio 1891, appena tre giorni dopo il massacro di Fourmies, che ha provocato nove morti (tra cui due bambini) e trentacinque feriti per colpi d’arma da fuoco tra gli operai che chiedevano la giornata di otto ore e la festività del 1° maggio[i].

Stupisce l’analogia delle discussioni perché, dalla fine del XIX secolo, le politiche riguardo l’ordine pubblico hanno subito notevoli progressi. Non è più compito dell’esercito, allora incaricato di gestire quelle che venivano definite «emozioni popolari». Interveniva ogniqualvolta la polizia locale o la gendarmeria erano in difficoltà, come il 145° reggimento di fanteria a Fourmies. Dalle Tre gloriose giornate del 1830 alla «settimana di sangue» del 1871, passando per le giornate del giugno 1848, nel soffocare le crisi sociali o ribaltare i regimi si provocano migliaia di morti e decine di migliaia di feriti. Ma questa brutale repressione non costituiva affatto un problema politico né morale. Per le élite del tempo, il popolo era per natura diverso. Una massa priva di volontà individuale, pronta a seguire ciecamente qualche capobanda nella sommossa[ii].

Anne Robert Jacques Turgot, controllore generale delle finanze di Luigi XVI offre una panoramica su questo immaginario sociale nella lettera ai rappresentanti degli stati di Borgogna del 18 aprile 1775. In seguito a razzie e alla distruzione di un mulino per mano di contadini furibondi per il prezzo del grano, scrive: «È innanzitutto necessario imporsi alla plebe ed essere i più forti», quindi «arrestare i capi della rivolta, che possiamo facilmente riconoscere e scoprire», poiché l’impunità è considerata «un grande incoraggiamento per le sommosse future».

Alla fine del XIX secolo, questa filosofia non è più sostenibile. La dominazione politica rimaneva appannaggio della nobiltà nell’Ancien Régime; era riservata ai più facoltosi sotto la monarchia censitaria; l’avvento del suffragio universale maschile nel 1848 apre le porte della politica al popolo. Le forme più consuetudinarie e personali di autorità perdono forza con la comparsa dei circoli, dei comitati elettorali, delle leghe (come quella dell’insegnamento), delle società di mutuo soccorso, poi dei partiti. Queste strutture organizzano i cittadini e sviluppano discorsi, programmi e ideologie che mettono l’accento soprattutto sulla questione sociale e sulla condizione dei lavoratori[iii]. L’impegno politico ha un forte peso sull’avvento della III Repubblica e sul consolidamento dei repubblicani, a partire dal 1877. Sebbene siano necessari molti anni, il nuovo regime si trova a dover garantire le libertà di espressione (si pensi alle leggi sulla stampa del 1881), di riunione e di adesione al sindacato, pur dando l’ordine alle truppe di sparare su quanti le esercitano. Oltretutto, l’esercito non è sempre affidabile. Durante la rivolta dei vignaioli del 1907 (che ha provocato sette morti a Narbonne), il 17° reggimento di fanteria si ammutina e solidarizza con i manifestanti, mettendo in difficoltà il governo di Georges Clémenceau.

L’inizio del XX secolo è dunque segnato da diversi progetti di legge volti a istituire una forza specializzata nella gestione delle proteste, distinta dall’esercito. Dopo molte esitazioni, quest’ultima viene creata il 22 luglio 1921, sotto forma di 111 «plotoni mobili di gendarmeria». Questa forza, rinominata nel 1926 «guardia repubblicana mobile», era composta da 21.000 uomini nel 1939 e aveva pressoché il monopolio sulla gestione dell’ordine pubblico sul territorio francese, a eccezione di Parigi. Ha sviluppato una dottrina, un addestramento e un know-how peculiari[iv]. Il mandato è quello di non trattare più i dimostranti come nemici o avversari, bensì come «individui temporaneamente suggestionati», riprendendo la terminologia degli anni 1930, o «cittadini temporaneamente smarriti», ricorrendo a quella degli anni 1970.

In tal modo si vorrebbero evitare i contatti diretti con questi ultimi, dal momento che l’esperienza dimostra la sicura degenerazione in scontri. Si preferiscono le tecniche di canalizzazione, contenimento e dispersione della folla, che prevedono di lasciare sempre una via di fuga. In un primo tempo, gli unici strumenti disponibili sono la disciplina collettiva, gli sbarramenti con i corpi, il calcio del fucile e il manganello. Dopo la seconda guerra mondiale, approdano tecnologie in grado di tenere a distanza i manifestanti, come i gas lacrimogeni – precedentemente inimmaginabili in Francia perché ricordavano le trincee – le granate e gli idranti. Nel 1944, anche la polizia crea unità specifiche, le compagnie repubblicane di sicurezza (Crs) che raggiungono le 13.000 unità nel 1947 e riproducono l’organizzazione, la dottrina e l’equipaggiamento della gendarmeria mobile.

Parigi resta un’eccezione

Le due forze sono impegnate nei complessi conflitti sociali di quel periodo (come gli scioperi dei minatori del 1947-1948), che si lasciano alle spalle un ingente numero di feriti, da una parte e dall’altra. Ma, si riscontra una significativa riduzione dei decessi tra i dimostranti, soprattutto in provincia. Parigi resta un’eccezione, poiché il prefetto dispone delle proprie unità, selezionate all’interno della polizia municipale[v]. Questi gruppi non posseggono l’addestramento e le conoscenze dei colleghi e non esitano a dar sfogo alla propria brutalità e a «regolare i conti» con gli algerini (sette vittime durante la manifestazione del 14 luglio 1953 e diverse decine il 17 ottobre 1961[vi]) o con i comunisti dieci morti alla stazione della metropolitana Charonne a Parigi, l’8 febbraio 1962).

Per la sua violenza e la sua portata, la crisi di maggio-giugno 1968 mette a dura prova il ministero dell’interno. A dispetto delle intenzioni esposte nei discorsi ufficiali, si piangono cinque morti (tre studenti a Parigi, Flins e nel Calvados e due operai a Sochaux) ma, soprattutto, è evidente che gli agenti sono pochi e mal equipaggiati.

Di conseguenza, tra il 1968 e il 1974 vengono reclutati ventimila poliziotti e sia i Crs sia i gendarmi mobili sono dotati di nuovi dispositivi di protezione (casco, visiera, parastinchi, scudi, maschere antigas) e di materiale offensivo e difensivo, come camionette con idranti, mezzi blindati ruotati della gendarmeria (Vbrg) e granate di ogni tipo. Nell’aprile 1969, a Saint-Astier, in Dordogna, viene inaugurato il Centro di perfezionamento della gendarmeria mobile (Cpgm), destinato alla formazione continua del personale.

Nel 1977, viene ricostruita una vera città – Cigaville – con palazzi, strade piazze, che permette di allenarsi nella gestione dell’ordine pubblico in qualsiasi condizione, comprese le più estreme (barricate, bottiglie molotov).

Ne usufruiscono anche i Crs prima di dotarsi dei propri centri. Questi addestramenti hanno inoltre la funzione di infondere nel personale una disciplina collettiva e un controllo di sé fondamentali per gestire la paura e lo stress insite nella loro missione.

Un nuovo e importante ammodernamento dell’attrezzatura viene stabilito a seguito della manifestazione di marittimi e pescatori a Rennes il 4 febbraio 1994, ritenuta dai tecnici come una delle più violente dell’epoca contemporanea (utilizzo dei razzi di segnalazione e degli arpioni, ferite «di guerra» riportate da poliziotti e gendarmi, incendio del parlamento bretone). Vengono rafforzati i mezzi con delle grate e soprattutto fanno la loro comparsa le divise da «Robocop», come le chiamano gli interessati: uniformi ignifughe, polsiere, gomitiere, spalle rafforzate e casco in Kevlar, protezione per la nuca, ecc [vii].

La «violenza contenuta» rivendicata dalle forze dell’ordine lascia dietro di sé una lunga scia di feriti e mutilati. Ma i decessi sono rari dopo il 1968, tanto che ancora si ricordano i nomi di Malik Oussekine, ucciso dagli agenti in motocicletta all’epoca del movimento studentesco contro la legge Devaquet, a dicembre 1986 e Rémi Fraisse morto a seguito dello scoppio di una granata a Sivens, nell’ottobre 2014[viii].

I responsabili della polizia si sono spinti a evidenziare l’eccellenza del «modello francese» nella gestione dell’ordine pubblico. Guardano con circospezione le difficoltà delle polizie straniere nel contenere il movimento no global (come a Seattle nel 1999, a Göteborg e a Genova nel 2001) e rimangono in disparte nelle riflessioni elaborate a livello europeo.

Un bacino di agenti da usare

Eppure, qualcosa cambia gradualmente a partire dalla fine degli anni 1990. I principali responsabili governativi ritengono che la conflittualità sociale sia diminuita e vedono nelle compagnie di Crs e negli squadroni della gendarmeria mobile (Egm) un bacino di agenti facilmente destinabili alla lotta contro «l’insicurezza», in quel momento prioritaria. Questa tendenza, tratteggiata durante il governo di Lionel Jospin (1997-2002), si consolida negli anni successivi. Il programma di azione collegato alla legge di orientamento e programmazione per la sicurezza interna del 29 agosto 2002 indica: «Le forze mobili sono state create in un contesto storico particolare, segnato da periodi di rivolte e disordine collettivi. La democrazia pacificata che vige nel nostro paese da molti anni permette oggi un cambiamento radicale della dottrina dell’impiego delle forze mobili. Questa politica sistematica in rottura con la priorità dell’ordine pubblico concede di spostare i trentamila uomini che oggi costituiscono le forze mobili al servizio della sicurezza quotidiana».

Viene ridotto il numero di poliziotti e gendarmi assegnati all’ordine pubblico. Sono 25.786 nel 2015, con un calo vicino al 15% rispetto al 2002, e le loro missioni si diversificano. Il conseguente sovraccarico che colpisce le unità si traduce nell’ascesa delle compagnie di intervento (Cdi). Queste ultime, già presenti localmente in diverse forme, sono composte da poliziotti di pubblica sicurezza che adempiono soprattutto incarichi di protezione nella lotta contro le «violenze urbane» e il traffico di stupefacenti. Riconoscibili per il casco con due fasce di color blu reale (gialle in quello dei Crs), sono diventate un elemento centrale nella gestione dell’ordine pubblico, dopo la fine degli anni 2000. Oltre a fornire un sostegno numerico, godono di maggiore autonomia nel comando e nell’azione, rispetto a Crs ed Egm, considerati troppo statici. Risultano, inoltre essere più adeguate di questi ultimi alla giudiziarizzazione del mantenimento dell’ordine.

L’arresto era una componente marginale della gestione delle manifestazioni (veniva effettuato, per esempio, a seguito della loro dissoluzione). Il generale Bertrand Cavallier, ex responsabile del Cpgm, spiega che la dottrina tradizionale prevede innanzitutto di «assorbire una violenza che è solitamente passeggera. È il concetto di disordine accettabile. Qual è l’effetto finale che si cerca? Ci si soffermerà su alcuni danneggiamenti o si cercherà di capire che, dopo questo picco febbrile, ci sarà un ritorno alla normalità, con la possibilità di discutere e rispondere alle aspettative dei manifestanti, anche se questi manifestanti sono stati violenti[ix]?».

A partire dall’inizio degli anni 2000, anche in questo ambito si fa sentire la tendenza punitiva dei governi che si succedono. Il loro intento è di porre fine all’«impunità», identificando e arrestando i facinorosi. Compaiono le squadre di Crs e gendarmi videomaker e, più recentemente, i «prodotti di marcatura codificata», che lasciano tracce sulla pelle e sui vestiti. Queste tecniche permettono di intervenire in un secondo tempo. I procuratori autorizzano facilmente gli arresti preventivi e organizzano i servizi per agire in condizioni di emergenza. Ma si assiste, soprattutto, a una revisione tattica, in cui si opera una separazione tra i manifestanti con comportamenti consoni e quelli che scivolano in azioni illegali (i cosiddetti «casseur»), da cercare, d’ora in avanti, all’interno dei cortei. Questa distinzione si ritrova chiaramente nello schema nazionale per il mantenimento dell’ordine, adottato nel 2021.

Vengono definiti due obiettivi «distinti o complementari» nella gestione delle manifestazioni: «la dispersione immediata dei gruppi ostili e arresti rapidi e mirati, grazie all’adozione di dispositivi tattici in grado di intercettare gli individui identificati». Sebbene le Egm e i Crs posseggano unità capaci di svolgere questi compiti, nella pratica vengono assegnati ai Cdi e, soprattutto, alle brigate anticriminalità (Bac) e alle controverse brigate motorizzate di repressione dell’azione violenta (Brav-m), create nel 2019.

Nonostante i grandi sforzi retorici per spiegare la complementarità di queste tattiche, nei fatti risultano parzialmente contraddittorie. Le strategie di «impatto» o «urto» verso i «gruppi ostili» hanno spesso come conseguenza l’interruzione dei cortei e l’irruzione della violenza al loro interno. Le cariche, come i lacrimogeni, non sono selettive. Colpiscono innanzitutto i meno agguerriti, suscitano incomprensione e alimentano la rabbia. Inoltre, il rischio fisico di intervento nella folla, oltretutto in numero esiguo, aumenta la possibilità del ricorso alla forza. Molti video diffusi sui social network testimoniano il disordine causato dall’intervento di queste polizie urbane ma anche i conflitti sorti con i gendarmi mobili e i Crs, interferendo con i loro dispositivi. Si trovano facilmente in difficoltà e ricorrono senza troppe premure alle granate, per rompere l’accerchiamento, e ai lanciatori di proiettili da difesa (come l’Lbd 40).

La forza intimidisce, la giustizia neutralizza

Quest’arma «a letalità ridotta», comparsa a metà degli anni 1990 (nota con il nome commerciale di Flashball), inizialmente era destinata alle unità specializzate nella neutralizzazione di squilibrati o sequestratori. In un secondo momento, si è andata diffondendo all’interno dei Bac e dei Cdi, per poi generalizzarsi dopo i gravi disordini delle periferie francesi nel 2005. I poliziotti sono i primi a farne un uso sistematico durante le manifestazioni.

Nel corso della crisi dei «gillet gialli», l’85% dei 13.460 colpi di Lbd registrati tra il 17 novembre 2018 e il 5 febbraio 2019 è imputabile alle polizie urbane, contro il 15% attribuibile ai Crs. Nello stesso arco temporale, la gendarmeria riferiva l’utilizzo di un migliaio di colpi[x]. Sebbene le polemiche sui danni provocati da quest’arma ne abbiano ridotto l’uso, la sua diffusione resta comunque un’evidenza. Il rapporto annuale dell’ispezione generale della polizia nazionale (Igpn) relaziona di 6.684 colpi nel 2021, contro i 1.514 nel 2012, ossia un numero quattro volte maggiore in nove anni.

Infine, il ruolo affidato alle polizie urbane nelle manifestazioni modifica l’immagine dei manifestanti. Gli agenti, spinti dalla loro socializzazione professionale a pensarsi come «cacciatori», non sono affatto inclini a considerare i dimostranti come «cittadini momentaneamente smarriti». Li vedono piuttosto come delinquenti (o complici) e non esitano a trattarli come tali: umiliazioni e vessazioni di diverso tipo, arresti con uso eccessivo della forza, ecc.

Tutti questi fattori contribuiscono a spiegare la «brutalizzazione della gestione dell’ordine pubblico[xi]» riscontrabile dalla metà degli anni 2010 e giunta all’apice con il movimento dei «gilet gialli». Tuttavia, non può essere pienamente compresa se non la ricolleghiamo alla delegittimazione della manifestazione come strumento di azione politica.

La gestione dell’ordine pubblico non si limita a un faccia a faccia tra poliziotti e dimostranti. È un rapporto a tre in cui sono coinvolti anche i governanti. Per tutto il XX secolo, si è gradualmente sviluppato un ordine delle manifestazioni di piazza. Quest’ultimo implica un cambiamento nelle forze dell’ordine, ma anche nei cittadini, che abbandonano progressivamente il registro della rivolta per aprirsi a repertori più codificati, come la manifestazione. Dunque, i dimostranti passano attraverso questa formazione che trova completezza nell’organizzazione dei cortei, nella creazione di striscioni, nell’elaborazione di rivendicazioni e slogan, nella costituzione di servizi d’ordine[xii]. Tuttavia, è possibile solo in quanto apre alla negoziazione politica, viene riconosciuta come espressione democratica del dissenso. Il commissario Jean-Marc Berlioz, direttore aggiunto della pubblica sicurezza alla prefettura di polizia di Parigi, nel 1997, osservava: «Ormai, ogni cittadino è chiamato a diventare manifestante, un giorno, e io condivido l’analisi secondo cui la manifestazione è un dispositivo correttivo delle elezioni[xiii]».

Oggi, questa formula sembra scontrarsi con l’immagine fornita dalle élite al governo che non hanno la stessa esperienza sull’azione collettiva rispetto a coloro che l’hanno preceduta. L’elezione, seppur fragile, da cui deriva la loro posizione è percepita come unica fonte di legittimità, una sorta di assegno in bianco. Il rifiuto del dialogo con le centrali sindacali (loro stesse rappresentative) e i gruppi coinvolti nelle azioni (ad esempio, il personale sanitario), così come l’utilizzo fino all’estremo di strumenti legali per imbavagliare il Parlamento («49-3», durata limitata delle discussioni, sanzioni disciplinari) sono il simbolo di una concezione verticale del potere poco attenta alla contestazione.

Nei dibattiti, espressioni come «folla», «branchi» od «orde» rilanciano una visione della plebe ignara e brutale, che Turgot avrebbe sottoscritto. Si applica, quindi, una politica coerente ai suoi principi: ostentare la forza per intimidire e utilizzare la giustizia per neutralizzare, seppur temporaneamente. Le cariche inopportune, l’uso improprio dei lacrimogeni, degli Lbd o delle tecniche di contenimento, le zone rosse, le misure cautelari preventive, le sanzioni, le schedature e i fermi di massa concorrono a rendere le manifestazioni più inospitali, incerte e insicure.

Ora, la brutalizzazione della gestione dell’ordine pubblico e quella della politica sono due facce dello stesso processo. Il rifiuto della negoziazione e la negazione della possibilità di esprimersi attraverso le manifestazioni scatenano una rabbia che alza il livello della violenza. La focalizzazione dei media anche sul più piccolo bidone dato alle fiamme o sui danni all’arredo urbano rafforza questa dinamica. Nelle lotte «per l’imposizione del senso di un evento[xiv]», la scelta di mettere l’accento sugli atti più spettacolari e sottacere le rivendicazioni espresse – spesso con molta inventiva – accreditano i primi. Questi gesti assumono una rilevanza inversamente proporzionale al proprio peso all’interno dell’azione di protesta. In compenso, provocano un irrigidimento dell’intervento poliziesco e favoriscono il deterioramento dell’immagine di movimenti anche molto partecipati, poiché vengono assimilati alle condotte di coloro che i ministri dell’interno definiscono agevolmente «black-block», «anarco-autonomi» o «estrema sinistra».

Mentre è evidente quali siano i benefici politici immediati di questo strappo nella gestione dell’ordine nelle manifestazioni, restano più oscuri, invece, i suoi effetti nel medio periodo. In primo luogo, provoca un adeguamento dei dimostranti. Imparano a proteggersi meglio (maschere antigas, comparsa degli street medics, ecc.), a puntare i riflettori sulle violenze poliziesche (filmandole), e adottano strategie incentrate sullo scontro, sul movimento rapido e sull’imprevedibilità più che sull’espressione di parole d’ordine. Queste evoluzioni potrebbero condurre, in un secondo momento, al ritorno di modelli d’azione più radicali, come le sommosse, i sabotaggi, gli incendi, i blocchi o le occupazioni.

Ma, soprattutto, il governo di un paese dovrebbe godere del, seppur minimo, consenso di coloro su cui esercita le proprie funzioni, ossia delle controparti. Subito dopo il dramma di Fourmies, il deputato Alexandre Millerand – che in seguito sarà più volte ministro e quindi presidente della Repubblica (1920-1924) – si rivolge al ministro Constans: «Se la Repubblica è stata fondata, se esiste, se è stata preservata attraverso le crisi, lo deve, come Lei sa bene, solo a quei milioni di lavoratori delle fabbriche, dei campi, delle miniere che oggi si aspettano dalla Repubblica le riforme sociali a loro dovute». È curioso come il suo discorso somigli nei toni a quello di Gérard Mardiné, segretario generale della Confederazione francese del personale dirigente – Confederazione generale dei dirigenti (Cfe-Cgc), che, il 15 febbraio 2023, si è rivolto alla commissione degli affari sociali del Senato: «La vostra politica, per chi la state portando avanti? Per i lavoratori francesi o per i fondi pensione anglosassoni?»

Entrambi ci ricordano che l’instaurazione e il rafforzamento di uno Stato democratico in Francia sono inscindibili dalla protezione che ha dovuto garantire al mondo del lavoro e quindi dai compromessi raggiunti tra il lavoro e il capitale[xv]. L’evidente divario che si è determinato a favore dei gruppi più privilegiati – e che non si cerca neanche più di nascondere – mina alla base questo contratto sociale implicito. Le élite politiche che ne sono responsabili smontano pietra dopo pietra una costruzione di cui sono gli ignoranti eredi. La democrazia rappresentativa non funziona come un dialogo cortese e ovattato tra gli azionisti di un consiglio di amministrazione o i membri dei comitati dirigenti delle istituzioni finanziarie internazionali. Vive e si esprime anche attraverso gli scoppi innescati delle azioni collettive che periodicamente rinnovano i rapporti di forza tra rappresentanti e rappresentati.

Ricordando pubblicamente l’interesse della moltitudine, contribuiscono a fondare la legittimità della delega politica, ben più delle linee guida della politica penale, delle circolari sulla composizione dei lacrimogeni o delle norme di utilizzo dell’Lbd.

da Le Monde diplomatique

Traduzione di Alice Campetti

 

Note:

[i] Queste citazioni sono tratte dal Journal officiel de la République françaisedel 5 maggio 1891, https://gallica.bnf.f

[ii]  Déborah Cohen, La Nature du peuple. Les formes de l’imaginaire social (XVIIIe-XXIe siècles), Champ Vallon, Ceyzérieu, 2010

[iii] Christophe Charle, Histoire sociale de la France au XIXe siècle, Seuil, Parigi, 1991

[iv]  Patrick Bruneteaux, Maintenir l’ordre. Les transformations de la violence d’État en régime démocratique, Presses de Sciences Po, Parigi, 1996

[v] La polizia parigina viene incorporata nella polizia nazionale solo nel 1966

[vi] Emmanuel Blanchard, La Police parisienne et les Algériens (1944-1962), Nouveau Monde, Parigi, 2011

[vii] David Dufresne, Maintien de l’ordre. Enquête, Hachette, Parigi, 2007.

[viii] Dobbiamo aggiungere anche Vital Michalon, vittima di una granata durante le azioni di protesta contro la costruzione di una centrale nucleare a Creys-Malville, nel luglio 1977, e Zineb Redouane, uccisa da un lancio di lacrimogeni nel suo appartamento a Marsiglia, nel dicembre 2018

[ix] «Maintien de l’ordre: du terrain au politique», conferenza del 16 ottobre 2020, la cui registrazione video è disponibile su YouTube

[x] Jacqueline Eustache-Brinio, «Rapport sur la proposition de loi visant à interdire l’usage des lanceurs de balles de défense dans le cadre du maintien de l’ordre et à engager une ré-lexion sur les stratégies de désescalade et les alternatives pacifiques possibles à l’emploi de la force publique dans ce cadre», Senato, Parigi, 20 febbraio 2019

[xi] Olivier Fillieule e Fabien Jobard, Politiques du désordre. La police des manifestations en France, Seuil, 2020

[xii]  Charles Tilly, La Francia in rivolta, Guida, Napoli, 1990

[xiii] «Table ronde: à propos des matériels de maintien de l’ordre», Les Cahiers de la sécurité intérieure, n° 27, Parigi, 1997

[xiv] Patrick Champagne, Faire l’opinion, Éditions de Minuit, Parigi, 1990

[xv] Robert Castel, La metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato, E. Sellino, Avellino, 2007

 

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