Sulla ferita che più brucia nella memoria collettiva recente del nostro Paese, ossia sui fatti del G8 del luglio 2001 a Genova, è arrivata ieri la prima sentenza. La prima dell’autorità giudiziaria, in sede penale. E’ la sentenza, emessa ieri pomeriggio nel capoluogo ligure, sul processo mosso dall’accusa di devastazione e saccheggio da parte della Procura nei confronti di 25 imputati: i venticinque manifestanti alla sbarra del solo processo su quel G8 in cui, per i reati contestati dai magistrati inquirenti, non si potesse fare conto su prescrizioni ed effetti dell’indulto. Come invece è, precisamente, per tutti i dirigenti, funzionari ed agenti delle forze dell’ordine chiamati negli altri due processi penali ancora in corso a rispondere della «macelleria messicana» (parola, in sede di dibattimento, dell’allora numero 2 del primo reparto mobile della polizia – la celere – , Michelangelo Fournier) nella scuola Diaz e delle torture (parola di Amnesty International e dell’Onu) nel centro di detenzione di Bolzaneto: macelleria e torture perpetrate sui manifestanti stessi, molti più di quei 25 accusati, fra i 300mila di quei giorni di luglio di sette anni fa a Genova.Con la sentenza emessa dai giudici poco dopo le 17 e 30 di ieri, dopo circa sette ore di camera di consiglio, ventiquattro dei venticinque imputati sono stati condannati, per complessivi 110 anni di carcere di contro ai 225 richiesti dai pm. In un solo caso, quello d’una giovane donna, è stata riconosciuta l’assoluzione per non aver commesso il fatto. In altri dieci l’imputazione mossa dall’accusa, quella di devastazione e saccheggio, è stata confermata. Per i restanti quattordici i reati sono stati derubricati a danneggiamenti e furto. E per tutti coloro cui veniva contestata anche la resistenza nella prima fase dei fatti di via Tolemaide il pomeriggio del 20 luglio, ossia quando il corteo autorizzato delle e dei disobbedienti fu spazzato ben prima di giungere al limite della “Zona Rossa” da una carica improvvisa dei reparti speciali dei carabinieri, l’accusa specifica è caduta: perché è stata riconosciuta dai giudici l’«illegittimità» di quella carica. Circostanza importante, decisiva: che però tale non è stata per attenuare i «danneggiamenti» successivi, nel corso dei fatti occorsi in oltre due ore di ininterrotti attacchi delle forze dell’ordine ai manifestanti. Inclusi i «danneggiamenti» contestati nella situazione di piazza Alimonda: il teatro dell’omicidio di Carlo Giuliani, sul quale il procedimento è caduto già in fase di udienza preliminare in virtù d’una perizia che ha attribuito ad un sasso metafisico l’effetto letale del colpo sparato da quel defender dei carabinieri. Si dovrà attendere il deposito delle motivazioni per comprendere i criteri seguiti dai giudici di Genova nell’emettere la sentenza pronunciata ieri. Ma quel che si capisce da subito è che, in rapporto all’impianto accusatorio proposto dalla Procura, dalla sentenza stessa esce una quadro in chiaroscuro, con una certezza sola: la conferma, sia pur parziale, della pesantissima accusa di devastazione e saccheggio. Un reato di guerra, introdotto nella codificazione italiana da un decreto del Luogotente del Regno, Umberto di Savoia, nell’anno 1944: e che dall’inchiesta sui manifestanti di Genova in poi è divenuto di moda nell’approccio repressivo delle sedi giudiziarie rispetto ai movimenti degli ultimi anni. Solo cinque giorni fa una simile contestazione è caduta nei confronti di esponenti dei centri sociali torinesi, per un epidosio “minore”: mentre continua a pendere in varie indagine e in vari procedimenti, ed è invalso parallelamente anche nei confronti del pur difforme fenome degli “ultras” nella vicenda delle tifoserie calcistiche, in quei laboratori di conflittualità endemica e di sorveglianza “eccezionale” che è il mondo degli stadi.Ora l’accusa è stata confermata in primo grado per dieci dei venticinque manifestanti imputati a Genova, nella bilancia squilibratissima dell’azione penale sui fatti di sette anni fa – a favore delle forze dell’ordine, o meglio di chi in queste è sospettato d’aver travalicato ogni limite di legittimità e d’aver travolto lo stato di diritto, come tutto il mondo ha visto.Certo, l’altra faccia della sentenza è che la stessa accusa è caduta per i tre quinti degli imputati. Senza dimenticare che una sola è stata l’assoluzione, sui quelle venticinque posizioni complessive, le difese di chi soprattutto era imputato o imputata per i fatti contestati sul pomeriggio del 20 luglio, ossia dentro o tutt’intorno a quell’episodio cruciale che fu la repressione del corteo disobbediente partito dallo stadio Carlini, hanno ottenuto dei successi relativi: come il già ricordato riconoscimento dell’illegtitimità della prima carica che, ad opera degli specialisti dell’Arma, spezzo il corteo stesso. E certo è un alleggerimento, rispetto all’estrema durezza delle richieste dell’accusa, l’aver ottenuto la derubricazione da devastazione e saccheggio a danneggiamenti e, in pochi casi, furto. E’ certo, d’altra parte, che la divisione delle posizioni che così emerge dalla sentenza è destinata ad acuire, fuori dallo stesso fronte delle difese, le fratture a stento contenute negli anni nel fronte dei movimenti rimasti sulla breccia di Genova. E ancor più tra il panorama complessivo di quei movimenti e la politica “rappresentativa”, istituzionale, alle prese con l’affondamento alla Camera della commissione d’inchiesta per cui si erano battute le sinistre in Parlamento (e sulla quale altre difformità s’erano registrate tra i movimenti medesimi).I giudici di Genova hanno consegnato un altro “punto” ad una parte delle strategie delle difese, rinviando alla Procura le testimonianze di tre graduati dei carabinieri e d’un vicequestore della polizia, per procedere eventualmente contro di loro per falsa testimonianza. Qualcosa che può pesare sui processi aperti a carico di componenti delle forze dell’ordine, appunto i processi Diaz e Bolzaneto: almeno in un caso, nel merito, la possibile falsa testimonianza riguarda la saga delle molotov artatamente depositate dalla polizia stessa proprio alla Diaz dopo la sanguinosa irruzione della notte del 21 luglio (la «macelleria messicana»), al fine di avvalorare la versione d’una operazione contro un «covo del black bloc», falsificazione che coinvolge i massimi vertici della pubblica sicurezza – solo lambendo, sinora, il capo in persona, Gianni De Gennaro, oggi titolare del gabinetto del ministro dell’interno del governo Prodi, Giuliano Amato.Così ieri si è potuto registrare il comprensibile sollievo di almeno uno dei giovani imputati, noto alla triste cronache del mainstream come l’«uomo della trave» (quella brandita contro il defender impazzito dei cc sul “luogo del delitto” – di Carlo – piazza Alimonda), che ha visto la richiesta pesantissima dell’accusa ridotta in sentenza a cinque anni di carcere, con la possibilità ora di ricostruire una qualche serenità di vita con la sua compagna e il suo bambino. Ma resta tutto l’amaro della conferma di quella contestazione di reato enorme, per quei dieci condannati sotto il titolo di devastatori e saccheggiatori, con pene pesantissime, dai 7 fino agli 11 anni di carcere. Un amaro che fa capo ad un’amarezza più di fondo: l’evanescenza, ad oggi, di anche solo avvicinare, in sede giudiziaria, la verità di fondo che ognuna e ognuno in buona fede, nel mondo, conosce. Ossia la devastazione e il saccheggio del buon diritto di tutte e di tutti a manifestare dissenso, che a Genova sono stati perpetrati sette anni fa dal potere. Salvo, è chiaro, l’ulteriore battaglia delle difese dei manifestanti nei prossimi gradi di giudizio. Ma quella battaglia di verità, dopo ieri più che mai, è affidata alle coscienze e alle azioni di chi cerca tutt’oggi una qualche coerenza con l’altissimo momento di lotta di sette anni fa, che una repressione «cilena» (ricorda, ministro D’Alema?) e omicida provò a spezzare. Perché pesa, invece, implacabilmente sulle coscienze e le azioni di quanti esercitavano ieri i poteri pubblici: e di quanti li esercitano oggi senza cessare, pur diversi, lo sfregio a quella memoria.
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