La salvezza era a un passo – il ritorno in l’Italia già fissato per il 20 luglio – ma Carmine Mario Paciolla non ha fatto in tempo a raggiungerla. Il 33enne collaboratore delle Nazioni unite, trovato morto mercoledì, in circostanze ancora da chiarire, nella sua abitazione a San Vicente del Caguan, nel dipartimento meridionale di Caquetá, è finito nell’interminabile lista delle vittime della violenza in Colombia.
SUL SUO CORPO, secondo quanto rivelato da Radio Caracol, «varie ferite da arma da taglio». Il colonnello Oscar Lamprea, comandante della polizia dipartimentale, non ha escluso la pista del suicidio. Ma a rifiutare categoricamente tale ipotesi è la madre del giovane, la quale ha riferito a Repubblica che negli ultimi giorni il figlio era preoccupato perché, dopo avere discusso con i suoi capi, si era messo «in un pasticcio». E che con grande sollievo aveva comunicato alla famiglia di essere riuscito ad acquistare un biglietto aereo per l’Italia per il 20 luglio.
NEI GIORNI PRECEDENTI alla sua morte, il 33enne originario di Napoli aveva accompagnato il governatore di Caquetá, Arnulfo Gasca, e il sindaco di San Vicente, Juliàn Perdomo, in alcune riunioni con le comunità rurali, nel quadro della missione di verifica del sempre più disatteso processo di pace tra il governo e l’ex guerriglia delle Farc. E proprio la missione delle Nazioni unite in Colombia, esprimendo solidarietà alla famiglia del giovane, assicura, in un comunicato ufficiale, che condurrà un’indagine interna e seguirà «da vicino le indagini delle autorità colombiane per determinare le cause del decesso».
Al di là delle misteriose circostanze della morte di Paciolla, la situazione in Colombia si rivela in ogni caso estremamente grave.
NEPPURE LA RIGIDA quarantena applicata nel paese ha messo un freno alla strage di leader popolari ed ex combattenti: dall’inizio del mandato presidenziale di Iván Duque (7 agosto 2018) sono più di 700 i dirigenti sociali, i leader indigeni e i difensori dei diritti umani uccisi dal paramilitarismo, soprattutto nel quadro della lotta contro l’estrattivismo minerario e la concentrazione della terra, più di 100 solo nei primi sei mesi di quest’anno. Mentre dalla firma dell’accordo di pace del 2016 sono arrivati a 218 gli ex guerriglieri assassinati dopo aver creduto alla possibilità di cominciare una nuova vita.
Ed è proprio per denunciare tale carneficina, sotto lo slogan «Ci stanno ammazzando», che una quarantina di organizzazioni e di movimenti popolari ha dato vita, a partire dal 24 giugno, alla Marcia per la Dignità, giunta il 10 luglio a Bogotá dopo aver percorso a piedi quasi 600 chilometri e attraversato 22 municipi, e subito ripartita per raggiungere altre aree del paese, non senza soffrire intimidazioni e abusi da parte della polizia.
LE SOLLECITAZIONI della Marcia affinché siano adottate misure di protezione nei confronti dei leader popolari sono però destinate a cadere nel vuoto. Nei confronti delle vittime della violenza paramilitare, infatti, il governo di Iván Duque rivela lo stesso disprezzo dimostrato nei riguardi all’Accordo di pace, ripetutamente calpestato in tutti i suoi punti: da quello della Giurisdizione speciale per la pace (riconducibile a quel modello di giustizia restaurativa che pone l’accento sulla riabilitazione tanto della vittima quanto del carnefice) fino a quello del Piano integrale di sostituzione delle coltivazioni illecite, sostituito da una serie di violente operazioni di eradicazione forzata ai danni delle comunità contadine di vari dipartimenti del paese.
Quanto il governo Duque abbia a cuore la pace, lo ha dimostrato del resto anche la sua reazione alla proposta di un cessate il fuoco bilaterale per tre mesi avanzata dall’Eln. Il quale, nel contesto della crisi provocata dal Covid-19, aveva accolto l’invito del segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres alle parti impegnate in conflitti armati in tutto il mondo ad abbassare le armi per far fronte all’emergenza sanitaria.
Niente da fare. Il presidente Iván Duque, ha spiegato su Twitter che il suo governo non verrà mai meno al dovere costituzionale di affrontare la criminalità in tutto il territorio.
Claudia Fanti
da il manifesto