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Il Governo Meloni tra decreti d’urgenza e norme eccezionali

La tendenza dell’esecutivo è di accentrare i poteri nelle proprie mani e di governare tramite la decretazione di urgenza, con lo scopo di introdurre nuove norme considerate eccezionali, che riducono i diritti e gli spazi di agibilità e irrigidiscono l’apparato penale in chiave più autoritaria. Una vera e propria legislazione di guerra interna, rafforzando le politiche sicuritarie, come la criminalizzazione delle manifestazioni di piazza o la lotta alle occupazioni, alla sicurezza urbana con ulteriori ampliamenti della possibilità di applicare il Daspo anche a chi ha precedenti contro la persona o il patrimonio

di Ludovica Formoso da DINAMOpress

La tendenza dell’esecutivo è di accentrare i poteri nelle proprie mani e di governare tramite la decretazione di urgenza, con lo scopo di introdurre nuove norme considerate eccezionali, che riducono i diritti e gli spazi di agibilità e irrigidiscono l’apparato penale in chiave più autoritaria. A partire dal decreto Caivano

Fin dai primi giorni del suo insediamento il Governo Meloni ha iniziato a occuparsi di temi quali la giustizia e la sicurezza e ha così proseguito nei mesi successivi.

Probabilmente lo avremmo dovuto capire fin dal primo momento, con il c.d. decreto anti-rave, quale sarebbe stata la tendenza, se non altro per la velocità e l’opportunismo con cui veniva sfruttata una finta emergenza per introdurre una nuova figura di reato, spendibile anche in altre e diverse circostanze.

Ed è così che sono già legge, oltre al decreto Anti- rave, il decreto Cutro, il decreto Caivano, la legge Anti-ecovandali e pronti per essere approvati il DDL sicurezza e il DDL Nordio.

In realtà il meccanismo utilizzato per l’approvazione dei decreti c.d. sicurezza, non è di certo una novità posto che si pone in linea di continuità con l’operato dei precedenti Governi, a prescindere dal loro colore politico, ed è un tratto comune nella storia di questo paese, quantomeno a partire dagli anni ’70.

Si tratta della tendenza dell’esecutivo di accentrare i poteri nelle proprie mani e di governare tramite la decretazione di urgenza, in particolar modo attraverso lo strumento del decreto-legge, anche al di fuori delle ipotesi per le quali è stato introdotto nella Costituzione, bypassando il Parlamento e il normale iter di approvazione delle leggi.

Ovviamente per giustificare l’urgenza deve potersi fare appello a una qualche “emergenza” che può nascere da un singolo episodio di cronaca, che suscita particolare clamore e sgomento, come spesso accade quando si tratta di violenza contro le donne, che viene così strumentalizzata, o da un fenomeno che, nonostante la sua evidente strutturalità, viene fatto percepire come risolvibile nel breve periodo, come accaduto in passato per la mafia o il terrorismo.

L’emergenza viene spesso enfatizzata da una campagna stampa ad hoc, capace di far aumentare il senso di insicurezza individuale della popolazione, in quanto la sicurezza è ormai considerata come l’immunità personale dall’essere vittima di reati e non è più legata all’effettiva garanzia di diritti, tutele ed erogazione dei servizi, che sentendosi più insicura oppone meno resistenza all’approvazione delle norme eccezionali.

E questo nonostante la sopra descritta percezione non sia in alcun modo giustificata dai dati che invece narrano di una progressiva diminuzione dei fenomeni criminali e di una stabilizzazione del numero degli omicidi (salvo i femminicidi e le morti sul lavoro).

Lo scopo di tutto ciò è ovviamente quello di introdurre nuove norme considerate eccezionali, che spesso riducono i diritti e gli spazi di agibilità, con lo scopo di irrigidire e sclerotizzare l’apparato penal-repressivo in chiave più autoritaria e che, soprattutto, invece che venire abrogate una volta risolta la presunta emergenza, diventano stabili nel nostro ordinamento e il loro perimetro applicativo viene ampliato fino a ricomprendere categorie e fenomenologie estranee alla finalità originariamente perseguite.

Tra i decreti così approvati vi sono stati, per rimanere in materia, ildecreto espulsioni” del 2007 del Governo Prodi o il “pacchetto sicurezza” del 2008 del Governo Berlusconi, emananti a seguito dell’omicidio di Giovanna Reggiani, che scatenò una vera e propria ondata di razzismo nei confronti dei migranti, che introducevano alcune misure poi riprese e sviluppate dai successivi esecutivi, come la possibilità per i sindaci di emettere provvedimenti in materia di “sicurezza urbana” e che portavano l’esercito in città con l’operazione  “Strade Sicure” e la militarizzazione della Val Susa, che esiste ancora oggi.

Fino ai più recenti decreti che prendono il nome del Ministro di turno, come i “decreti Minniti” del 2017, che disciplinavano il Daspo urbano, misura simile al Daspo sportivo per contrastare il fenomeno Ultras e che in questo caso prevede il divieto di accesso in alcune aree della città, in particolar modo il centro storico o le stazioni ecc. a determinate categorie di soggetti, o i “decreti sicurezza Salvini”, che tra le altre norme, reintroducevano il reato di blocco stradale per mezzo di oggetti, o i vari “decreti Covid”, che con l’emergenza pandemica hanno portato all’applicazione di divieti che in altri  momenti sarebbero apparsi inimmaginabili e illegittimi.

Tutti decreti che spesso intervengono sulle medesime tematiche come la sicurezza, il decoro e la repressione del dissenso, aumentando le pene per reati già esistenti o creandone di nuovi o ampliando il novero dei soggetti a cui possono essere applicate le sanzioni amministrative o quelle di prevenzione.

Ebbene, svolta questa necessaria premessa, appare quindi lecito domandarsi se il Governo Meloni, con la mole di provvedimenti così approvati o in via di approvazione, si sia semplicemente posto in linea di continuità con l’operato dei precedenti o se invece presenti elementi di innovazione ovvero se siamo di fronte a una torsione autoritaria particolarmente allarmante e alla quale occorre fare particolare attenzione anche e ovviamente per la collocazione molto a destra del Governo in carica.

A parere di chi scrive, fermo restando attuale quanto sin qui illustrato, sono diverse le novità che si legano indissolubilmente tra di loro.

La prima è una tendenza, in parte simile a quella della fase berlusconiana, in cui in apparenza sembra che gli esecutivi di destra si facciano promotori di idee più garantiste in tema di giustizia, opponendosi così a un centro sinistra considerato maggiormente giustizialista, ed è all’interno di questa narrazione che deve essere letto il DDL Nordio. Garantismo che, come vedremo, si rivolge solo ed esclusivamente a una parte della popolazione e che svela il posizionamento di questo Governo estremamente galantuomo e particolarmente attento agli interessi e alle esigenze dei propri sostenitori oltre che della classe dirigente, politica e non solo, di questo Paese e degli alleati atlantici, e autoritario e repressivo verso tutti gli altri che non rientrano nei piani o nella sfera di consenso.

La seconda novità, che si lega indissolubilmente alla precedente, è rappresentata dalla chiara identificazione degli altri ossia di quelli che vengono considerati dei veri e propri nemici interni, che devono essere individuati, esclusi e neutralizzati in ragione del timore di una ripresa, in maniera più organica e strutturata e non più solo frammentata come in passato delle lotte e del conflitto sociale, all’interno di un contesto che si vorrebbe pacificato ma che invece ribolle, esasperato com’è da una crisi economica di cui non si percepisce la fine e che è stata alimentata prima dalla pandemia e ora dalle guerre.

Nemici che vanno individuati nei migranti e nelle persone razzializzate, nei così detti scafisti (anche se dovremmo  più propriamente chiamarli capitani), negli studenti, in chi vive ai margini della società ossia negli esclusi socialmente, negli abitanti delle periferie, nelle persone detenute e ovviamente in chi si oppone e lotta contro questo sistema e prova a manifestare il proprio dissenso, ma anche nelle donne, nella comunità LGBTIQ+, nelle famiglie omogenitoriali e in generale in chi si batte per i diritti civili, che vengono considerati problemi di ordine pubblico da trattare attraverso il ricorso al diritto penale, come la proposta di istituire un reato universale per la GPA.

Infine, l’ultima novità è ovviamente rappresentata dal carattere particolarmente repressivo e meramente punitivista delle norme approvate che, in un crescendo, ha visto prima interventi mirati per poi giungere ad azioni più strutturali con il DDL sicurezza, che esamineremo in seguito.

Entrando ora nel merito dei provvedimenti approvati, non si può non partire dal DL Caivano, in quanto classico esempio del meccanismo sopra descritto.

Anche in questo caso vi è la volontà di risolvere la problematica relativa al disagio giovanile, che nel caso specifico di Caivano è esasperato da una situazione di estrema marginalità e povertà, in un territorio abbandonato dalle istituzioni e innervato dalla criminalità organizzata , solo ed esclusivamente tramite l’utilizzo del diritto penale e della repressione, che diventano la panacea di ogni male sociale, invece che con politiche di welfare e di inclusione, come sarebbe stato logico e giusto fare, fatte di finanziamenti per la scuola e l’istruzione, per la cultura, per i centri sportivi, per le biblioteche.

Ma vi è di più, con il DL Caivano viene completamente rivoluzionato l’approccio alla giustizia minorile che, seppur a volte amministrata con fare paternalistico, aveva fatto della legislazione italiana un caso all’avanguardia, in cui la carcerazione era davvero considerata come una extrema ratio e in cui venivano sperimentati istituti premiali, quali la messa alla prova, che sono stati poi mutuati anche nel processo per adulti e in cui l’interesse del minore, in considerazione della sua personalità ancora in evoluzione, era considerato centrale.

Le norme introdotte via decreto hanno, inoltre, avuto un approccio meramente punitivo, muovendosi nella direzione di equiparare sempre di più la figura del minore a quella dell’adulto, indiziato/imputato di reati.

Ed è così che fattispecie quali l’ammonimento del Questore potrà ora essere applicato anche ai minori tra i 12 e 14 anni, che non sono imputabili, in caso di prospettazione di reati con pene a partire dai 5 anni, così come il Daspo Urbano e l’avviso orale che vengono estesi anche ai maggiori di 14 anni.

E ancora l’abbassamento dai 9 ai 6 anni della pena massima per procedere con il fermo, l’arresto e la custodia cautelare dei maggiori di 14 anni, che viene prevista anche per ulteriori e specifiche ipotesi di reato, come la resistenza a pubblico ufficiale, e l’equiparazione dei minori agli adulti per quanto concerne l’applicazione delle misure cautelari, con l’estensione del requisito del “pericolo di fuga”.

Viene, inoltre, aumentata la pena per il reato di spaccio di stupefacenti, nei casi di lieve entità, che passa da un massimo di quattro anni a un massimo di cinque anni di pena edittale, sia per minorenni che per i maggiorenni, consentendo così l’arresto obbligatorio in flagranza e la possibilità di applicazione della custodia cautelare in carcere, prima esclusi.

Tutte misure altamente criminogene che non faranno altro che aumentare il numero della popolazione detenuta, così come già riferito dal rapporto di Antigone sulla giustizia minorile, che sottolinea, come dopo l’approvazione del DL Caivano, nei primi mesi del 2024, siano già 500 i minori detenuti.

E ciò appare ancor più preoccupante se si considera che viene introdotta la possibilità per il direttore di un istituto penitenziario, in alcune determinate ipotesi, di richiedere al magistrato di sorveglianza il nulla osta al trasferimento dall’istituto minorile al carcere per adulti, nei confronti del detenuto di età compresa tra 18 e 25 anni che abbia commesso il reato da minorenne.

Si privano così i minori e i giovani adulti delle tutele che venivano garantite negli istituti a loro riservati – ossia gli IPM nei quali possono restare fino al 25esino anno di età se il reato era stato commesso da minori – e aumentando notevolmente il rischio che si ritrovino nelle case di reclusione per adulti, che presentano, come noto, problemi di sovraffollamento, di mancanza di risorse per processi di reinserimento sociale, di maggiore violenza, di rischio suicidio ecc. da cui i minori dovrebbe essere tutelati.

Al fine di comprendere fino in fondo il posizionamento di questo Governo, non si può non esaminare l’altro provvedimento, ancora in fase di approvazione, rappresentato dal DDL Nordio che si pone all’interno di quell’apparente garantismo selettivo di cui sarebbero espressione le destre di questo paese.

Quest’ultimo disegno di legge introduce alcuni elementi di novità nel procedimento di applicazione delle misure cautelari personali, ma soprattutto va a riformare alcuni temi particolarmente cari alla politica, come l’abrogazione del reato di abuso di ufficio e la modifica del delitto di traffico di influenze illecite. Allo stesso modo interviene in tema di pubblicazione sulla stampa del contenuto delle intercettazioni e introduce alcune specifiche al fine di garantire la riservatezza del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate.

Da ultimo, agisce sulla disciplina dell’informazione di garanzia che, secondo quanto riportato nella relazione introduttiva al disegno di legge «si è spesso trasformata nell’esposizione dell’indagato alla notorietà mediatica, con effetti stigmatizzanti» e, in particolar modo, sulla notifica della stessa, che deve essere fatta in modo da garantire la riservatezza dell’indagato, nonché sul potere di impugnazione del Pubblico Ministero, di berlusconiana memoria.

Si tratta di riforme che, seppur possano esser lette in chiave garantista, in realtà rispondono a esigenze del potere e che, solo incidentalmente, possono avere riflessi positivi anche nei confronti dei comuni imputati.

È infatti facilmente intuibile come tutte le novità introdotte in tema di intercettazioni e di pubblicità dell’informazione di garanzia possano avere effetti soprattutto quando a finire sotto indagine sono esponenti politici e della classe dirigente, quando cioè si realizza quel corto circuito in cui la stampa di questo paese, che raramente si pone in rottura con il potere, pubblica gli atti giudiziari, che spesso le vengono inviati proprio da un altro potere dello Stato, quello giudiziario.

Inutile, pertanto, sottolineare come ben altre riforme servirebbero al codice penale e quello di procedura, se si volesse riformarli in chiave realmente garantista, depenalizzando a esempio altri tipi di reato come la detenzione e la cessione ai fini di spaccio delle droghe leggere,  invece che innalzarne le pene, o iniziando ad approvare riforme che si pongano in una prospettiva abolizionista dell’istituzione carceraria.

In ogni caso che il Ministro Nordio non fosse realmente garantista era cosa nota, non solo per la gestione del caso Cospito, ma anche per quello di Ilaria Salis in cui, nonostante le disumane condizioni di detenzione accertate e la dubbia imparzialità che le verrà riservata dai giudici ungheresi, tutti i principi dello stato di diritto sono venuti meno di fronte al dichiarato antifascismo della stessa e alla sua militanza politica, che l’ha fatta immediatamente collocare tra i nemici di questo Governo.

Tuttavia, se il favore garantito alla classe dirigente può indignare, quello che deve far preoccupare è il trattamento che si vuole riservare agli altri da loro ossia a quelli che vengono individuati come nemici e rispetto ai quali viene riservata una vera e propria legislazione di guerra interna.  Ed è così che va letto il DDL sicurezza verso cui deve essere indirizzata una vera e propria campagna al fine di evitare che tale progetto normativo venga approvato.

Le novità contenute nel disegno di legge sono diverse e toccano molteplici argomenti che non sarà possibile analizzare uno per uno, dovendosi concentrare in particolar modo sugli aspetti che riguardano la criminalizzazione del dissenso e dei movimenti sociali. Al suo interno vi è di tutto: dal rafforzamento, in chiave repressiva, di alcuni capisaldi delle politiche securitarie, come la criminalizzazione delle manifestazioni di piazza o la lotta alle occupazioni, alla sicurezza urbana con ulteriori ampliamenti della possibilità di applicare il Daspo anche a chi ha precedenti contro la persona o il patrimonio.

Un capitolo a parte merita poi uno dei temi fondamentali del DDL ossia la tutela delle forze dell’ordine che viene garantita e irrobustita attraverso una serie di norme che, da un lato, prevedono innalzamenti di pene in caso di reati compiuti contro gli stessi o inasprimento di sanzioni nei casi d’inosservanza delle prescrizioni impartite dal personale che svolge servizi di polizia stradale mentre, dall’altro, consentono agli agenti di pubblica sicurezza di portare senza licenza un’arma diversa da quella di ordinanza, quando non sono in servizio.

Si tratta di un insieme di disposizioni tramite la quali non si fatica a ipotizzare come questo Governo immagini la gestione dell’ordine pubblico nel più prossimo futuro (vedi i recenti fatti di Pisa).

Entrando ora nel merito delle novità si ritiene che maggiore approfondimento debba essere dedicato agli interventi in materia di criminalizzazione dei movimenti sociali, in quanto il DDL compie un’operazione chirurgica, andando a individuare i settori in cui negli ultimi anni si è manifestato maggior dissenso, al fine di introdurre specifiche ipotesi di reato che riguardano proprio quegli ambiti di lotta che si sono più mobilitati.

In scia con i precedenti decreti sicurezza, in particolare con i Decreti Salvini, si è voluto nuovamente intervenire sul reato di blocco stradale, rendendo penalmente rilevanti tutte le ipotesi in cui questo si può verificare. Secondo Meloni dovrà essere reato non solo il blocco della libera circolazione, sia su una strada ferrata che su quella ordinaria, con congegni o altri oggetti di qualsiasi specie, com’è adesso, ma anche l’ulteriore ipotesi che questo avvenga tramite l’utilizzo del solo corpo, attualmente punito con una sanzione amministrativa.

Se verrà approvato questo DDL sarà penalmente perseguibile chiunque impedisca la libera circolazione su strada, ostruendola con il proprio corpo, se il blocco «risulti particolarmente offensivo e allarmante, sia per la presenza di più persone sia per il fatto che sia stata promosso e organizzato preventivamente».

È evidente come la progressiva riscoperta di questo reato (introdotto nel 1948 ma depenalizzato nel 1999 pe quanto riguarda il blocco su strada ordinaria)  sia servita per attaccare diversi settori di lotta, particolarmente attivi negli ultimi anni, come quelli della logistica che, grazie all’attività dei sindacati di base, si sono politicizzati e hanno avanzato rivendicazioni spesso ricorrendo al picchetto davanti ai magazzini o come quelli antisfratto, che provano a rimettere all’ordine del giorno la questione dell’emergenza abitativa, agendo nel concreto e impedendo l’accesso dell’ufficiale giudiziario.

Detto questo, non può sfuggire come proprio in questo ultimo periodo al centro dell’attenzione mediatica ci siano stati dei veri e propri blocchi stradali che, tuttavia, non sono mai stati trattati come tali né dai media, né dal sentire comune né soprattutto da questo Governo che anzi ne ha accolto parte delle rivendicazioni (anche se non si dubita che qualche zelante magistrato abbia immediatamente iscritto il procedimento penale). Si tratta ovviamente della c.d. rivolta dei trattori i cui protagonisti ossia gli agricoltori formano una delle basi elettorali più solide di questo esecutivo.

Il caso è importante perché dimostra come non tutte le pratiche di lotta vengano considerate automaticamente reato, nemmeno da questo Governo (!), che il giudizio cambia in base ai rapporti di forza esistenti in un determinato periodo e che la criminalizzazione è una evidente scelta politica.

Rimanendo nell’ambito delle lotte non si può non notare il riferimento nel DDL alle condotte degli attivisti climatici di Ultima Generazione, con l’introduzione di una fattispecie aggravata di imbrattamento nel caso in cui si deturpino beni qualora il fatto sia commesso con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene, con inasprimento della reclusione in caso di recidiva.

Tuttavia, in questo caso, il Governo ha agito su più fronti perché aveva già in cantiere un altro disegno di legge ad hoc, approvato a inizio anno, contro quelli che vengono definiti ecovandal

Tra le norme appare oltremodo esagerata, rispetto alle pene edittali solitamente individuate nel nostro ordinamento, quella che prevede sanzioni amministrative che vanno dai 20 ai 60mila euro per chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui.

Ma quello che allarma maggiormente e contro cui occorre davvero mobilitarsi sono le disposizioni che riguardano le persone detenute in carcere e nei CPR, ree di aver alzato la testa e di essersi ribellati negli ultimi anni.

A parere di questo Governo, evidentemente, i 13 detenuti morti a Modena e Rieti e la mattanza di Santa Maria Capua Vetere (e chissà quante altre ce ne sono state che non sono state inquadrate dalle telecamere di sorveglianza) non sono stati una punizione sufficiente per le rivolte del 2020, durante la pandemia, ritenendo necessario dover introdurre alcune fattispecie di reato ad hoc, di cui non si sentiva il bisogno e tantomeno la necessità.

Basti, infatti, pensare come, in caso di rivolte nei luoghi di detenzione, venga ora utilizzato l’ormai famigerato reato di devastazione e saccheggio, essendo ormai sdoganato il suo utilizzo, dopo i fatti di Genova 2001, al di fuori delle ipotesi per i quali è sopravvissuto all’interno del codice Rocco dopo l’approvazione della Costituzione.

Si tratta del delitto di rivolta in istituto penitenziario, che punisce con pene elevate, chiunque all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia o mediante atti di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti dalle autorità, posti in essere da tre o più persone riunite, promuova, organizzi, diriga o partecipi a una rivolta. Con tale norma si inizia così a punire anche la resistenza passiva, che fuori non viene mai considerata reato (chissà per quanto ancora).

A preoccupare è inoltre la genericità della disposizione che potrebbe essere interpretata nella maniera più estesa possibile ricomprendendovi anche le quotidiane rimostranze delle persone detenute che, già ampiamente ricattate dal sistema della premialità, si vuole del tutto silenziare.

Insieme al reato di rivolta, deve essere letta l’ulteriore previsione sull’aggravamento della pena prevista per il delitto d’istigazione a disobbedire alle leggi, già presente nel codice, se commesso al fine di far realizzare una rivolta all’interno di un istituto penitenziario, a mezzo di scritti o comunicazioni dirette a persone detenute.

Si tratta di una gravissima erosione dell’agibilità politica mediante la configurazione di reati di solidarietà, con il quale si vogliono spezzare i legami di complicità con le persone detenute e qualunque tipo di rapporto tra dentro e fuori le mura dei luoghi di detenzione.

Reati di solidarietà che ormai vengono sempre più spesso contestati da parte delle Procure soprattutto nel caso dei migranti e tramite l’utilizzo del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare che viene imputato sia gli attivisti, ma anche e soprattutto agli stessi migranti che non rinunciano a gesti di solidarietà all’interno delle proprie comunità e nei confronti di chi è appena arrivato in Italia.

Rimanendo in materia, con il DDL si vuole introdurre una norma identica a quella prevista per gli istituti penitenziari anche per i disordini che potrebbero verificarsi nei CPR, che – vale sempre la pena ricordarlo – sono dei veri e propri lager di Stato, o nelle strutture per richiedenti asilo o in altre strutture di accoglienza o di contrasto all’immigrazione illegale.

E ciò appare ancor più allarmante se si considera quanto previsto nel decreto Cutro, in cui viene rafforzato l’utilizzo dei CPR, con l’approvazione di un piano per la costruzione di nuove sedi e l’aumento del tempo di permanenza al loro interno, fino a un massimo di 18 mesi

Ciò nonostante, sia più che noto quali siano le condizioni di detenzione all’interno degli stessi, ben peggiori di quelle che si vivono all’interno delle nostre sovraffollate galere, così come riferito da chi vi è stato ristretto ma anche come emerso, per esempio, dall’indagine penale sulla gestione del CPR di via Corelli a Milano, che è stato sequestrato, emersa grazie a chi vi era rinchiuso e agli attivisti che si sono mobilitati, e soprattutto dai fatti di cronaca come il recente suicidio di Ousmane Sylla, di soli 22 anni, nel CPR di Ponte Galeria.

In chiusura, non si può non citare la riforma costituzionale pensata da questo esecutivo e avallata anche da altre forze politiche sul c.d. premierato, ossia sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, che determinerebbe un ulteriore accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo e rivoluzionerebbe l’equilibrio di poteri sancito in Costituzione.

Arrivando finalmente alle conclusioni, la risposta alla domanda iniziale, sul concreto rischio di una torsione autoritaria del Governo Meloni, dopo l’analisi dei provvedimenti approvati, appare davvero scontata.

I problemi sociali, che prima vengono alimentati da un liberismo selvaggio e da un capitalismo sfrenato, vengono trattati solo ed esclusivamente come una questione penale, rinunciando ormai a politiche di inclusione e di welfare. Per non parlare del dissenso sociale che si vorrebbe criminalizzato in tutte le sue espressioni.

Il livello d’allarme, per contro, appare ancora troppo basso. Bisognerà vedere se saremo in grado di avviare campagne diffuse di denuncia di quanto sta avvenendo e di mobilitazione, con l’obiettivo minimo di impedire che il DDL sicurezza diventi legge.

 

 

 

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