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Il grande imbroglio della sostituzione etnica

Vi siete mai chiesti perché quasi sempre «etnici» sono gli altri/le altre, cioè coloro che, discostandosi dalla norma e dalla cultura dominante, vengono percepiti/e come differenti, particolari, marginali, periferici, arcaici, attardati o anche in via d’estinzione?

di Annamaria Rivera

Un lemma che andrebbe decisamente abbandonato, al pari di “razza”, è quello di etnia, che, invece, pur avendo, in realtà, una valenza discriminatoria, continua a ottenere una straordinaria fortuna, perfino in ambienti intellettuali, oltre che di destra.

Eppure, a decostruire questo pseudo-concetto e a mostrarne la valenza e il significato discriminatori sono comparsi, nel corso del tempo, alcuni volumi scientifici. Il più noto, L’imbroglio etnico (Dedalo, Bari 2012), strutturato per parole-chiave, del quale sono ispiratrice e co-autrice insieme con lo storico René Gallissot e l’antropologo Mondher Kilani, ha conosciuto ben tre edizioni: la prima, in francese e in dieci parole-chiave, fu pubblicata nel 2000; la seconda, comparsa nel 2001 in italiano e in una versione più ampia (in quattordici parole-chiave), ha conosciuto ben tre ristampe, l’ultima delle quali nel 2012.

Ciò malgrado, un tale lavorio intellettuale sembra non aver suscitato alcun dubbio circa i significati e l’opportunità dell’utilizzo di “etnia”. È per questa ragione che propongo qui la sintesi di una delle quattordici parti che compongono il volume, tutte introdotte da parole-chiave: è quella, per l’appunto, su Etnia-etnicità.  

Nel parlare comune, nel linguaggio mediatico e talvolta perfino in quello scientifico, “etnia” ed “etnico” sono adoperati per designare sinteticamente, con un’unica parola, gruppi di popolazione immigrata e minoranze che si distinguerebbero dalle maggioranze per diversità di costumi e/o di lingua, nonché per la loro provenienza, per le loro culture, modi e stili di vita. In realtà, chi abusa del vocabolario etnico intende alludere a qualche forma di differenza fondamentale e irriducibile: che sia quella data dai caratteri somatici, oppure da una «essenza» culturale premoderna o addirittura da qualche fondamento ancestrale. V’è anche chi ritiene che «etnia» sia il termine più appropriato per nominare le differenze senza ricorrere al vocabolario detto razziale; v’è chi lo reputa o lo «sente» più specifico e pertinente di quello di cultura, meno svalutativo e dunque politicamente più corretto di «tribù».

Vi sono poi perfino alcuni studiosi pronti a sostenere che il lemma “etnia” avrebbe addirittura inaugurato una valutazione delle diverse parti costitutive dell’umanità più razionale e giusta, più neutra e a-valutativa di altri. In realtà, il vocabolo cela sovente la convinzione o il pregiudizio che le differenze fra culture e modi di vita si fondino su qualche principio ancestrale, su qualche identità originaria; spesso, in realtà, viene adoperato come sinonimo eufemistico di “razza”.

In ogni caso, l’uso del termine e della nozione riflette la divisione netta istituita fra la società cui appartiene l’osservatore (ritenuta normale, generale e universale) e altri gruppi e culture. Quasi sempre «etnici» sono gli altri/le altre, che, discostandosi dalla norma della società dominante e della cultura maggioritaria, sono percepiti/e come differenti, particolari, marginali, periferici, arcaici, attardati, in via d’estinzione o “soltanto” non conformi alla norma nazionale.

Un impiego del tutto particolare del termine, per auto-attribuzione («etnici siamo noi») da parte di settori della società dominante, è quello del Front national in Francia e, in Italia, della Lega Nord e di altre formazioni di destra, le quali parlano rispettivamente di «etnia francese» e di «etnia padana».

L’etnicizzazione è un processo non solo di riconoscimento o d’invenzione di differenze culturali, ma anche di classificazione surrettizia, potremmo dire, di gerarchie sociali, economiche, politiche. Etnicizzando dei gruppi sociali, infatti, si tende a mascherare la loro posizione di subordinazione o emarginazione rispetto alla società globale.

La cronaca della guerra fratricida nella ex Jugoslavia ha rappresentato il trionfo del modello e delle designazioni etniche, che in tal modo si sono affermati come un indiscutibile dato di fatto e si sono definitivamente consolidati nel linguaggio corrente.

 Il che ha concorso non poco alla costruzione delle ideologie che hanno sorretto e mascherato le ragioni della sanguinosa guerra civile col suo orrendo corredo di reciproche «pulizie etniche» (nonché dell’ideologia che è servita a dissimulare gli scopi della guerra «umanitaria» della Nato nei Balcani); e ha condotto all’artificiosa separazione di popolazioni che avevano per lungo tempo convissuto e condiviso territorio, lingua, costumi, abitudini, progetto e istituzioni politiche.

Proprio perché ciò che è rappresentato come l’Altro/a assoluto/a spesso si rivela assai simile al Noi, è percepito come una minaccia: è questo uno dei meccanismi che conducono alle «pulizie etniche».

In definitiva, la nefasta etnicizzazione di un tale conflitto, il ricorso a una strategia che infine condurrà alla secessione, incoraggiata e avallata dalle potenze europee, avevano come principale posta in gioco la redistribuzione del potere.

Anche il conflitto in Ruanda, culminato nei mutui genocidi fra hutu e tutsi, è stato sottoposto a una lettura in chiave rigidamente etnicista, identitaria, tribalista, che ha lasciato completamente in ombra altre logiche, ben più determinanti, trascurando il carattere di conflitto economico, sociale e politico, anzitutto. In realtà, nonostante si sia espresso in forme di sanguinosa barbarie, quel conflitto è stato per molti versi di una «terrificante modernità», per dirla con lo storico Alessandro Triulzi. La politica di annientamento è stata, infatti, concepita, pianificata, portata a termine non già dai capi tribali dell’interno, ma dalle élite intellettuali urbane.

Pochi ricordano che a etnicizzare la classe aristocratica dei tutsi e quella degli agricoltori hutu furono i colonizzatori, tedeschi prima e belgi poi: gli individui maschi furono classificati e trattati come tutsi o hutu a seconda che possedessero più o meno di dieci capi di bestiame. L’interpretazione in chiave etnicista e il linguaggio che ne discende si sono generalizzati e affermati come un’ovvietà, che invece è opportuno indagare e sottoporre a critica.

A introdurre il termine e la nozione di etnia nella lingua francese fu Georges Vacher de Lapouge, ideologo razzista e sostenitore di programmi eugenetici volti a impedire la «mescolanza razziale».

Dunque, sin dall’inizio l’”etnia” è connotata da un significato difettivo: è intesa come un raggruppamento di popolazione cui manca qualcosa di decisivo in rapporto alla società cui appartiene l’osservatore, cioè colui che ha il potere di nominare e definire gli altri e le altre. Insomma, questo lemma viene spesso inteso come somma di tratti negativi o comunque derivanti da inciviltà o arretratezza.

Il colonialismo, in particolare, ha prodotto classificazioni “etniche” basate sull’invenzione di etnonimi spesso del tutto arbitrari: sovente questi erano il risultato della trasposizione semantica, compiuta da etnologi e funzionari coloniali– di toponimi, di nomi che identificavano unità politiche, di appellativi che indicavano questo o quel gruppo di mestiere oppure di stereotipi con i quali un certo gruppo o popolazione era designato, spesso spregiativamente, dai gruppi vicini o dalle classi dominanti.

Quando, più di vent’anni addietro, scrivemmo L’imbroglio etnico fummo sì assai previdenti, ma non fino al punto da immaginare che il futuro ci avrebbe riservato un governo di estrema destra, tale da tirare in ballo la pseudo-teoria del rischio della “sostituzione etnica”, dovuta alle persone immigrate e rifugiate.

Infatti, il 18 aprile scorso, Francesco Lollobrigida, cognato della Meloni, nonché Ministro dell’Agricoltura, ha tirato in ballo “il rischio della sostituzione etnica”, teoria del complotto tipicamente di estrema destra. Del resto la stessa Meloni, a partire da alcuni anni fa, aveva più volte sostenuto tale teoria complottista, sostenendo che la sinistra, a livello mondiale, avrebbe pianificato “un’invasione d’immigrati”, quindi “una sostituzione di popoli”.

Com’è ovvio, la teoria (si fa per dire) della “sostituzione etnica” è giustificata, fra l’altro, da congetture riguardanti i dati relativi alla demografia, in particolare agli andamenti delle nascite.

Tutto ciò ha una lunga storia che risale al dopo la Seconda guerra mondiale, allorché in ambienti neonazisti si invitava a combattere insieme contro la presunta invasione dell’Europa da parte di “mongoli” e “negri”.

La retorica della “sostituzione etnica” è estremamente pericolosa, nonché, in tal caso, espressione di un governo fascistoide, sicché sinistra e democratici avrebbero il dovere di aggregarsi e opporsi strenuamente al governo più a destra della storia della Repubblica.

da Comune-Info

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