Il governo di Nea Dimokratia guidato da Kyriakos Mitsotakis vuole espellere i cittadini eurpei che partecipano a manifestazioni e proteste nella penisola ellenica
di Giansandro Merli da il manifesto
L’ultima manifestante arrestata ad Atene il 14 maggio scorso è stata liberata oggi. Non da un carcere, ma dal centro di detenzione amministrativa per migranti di Amygdaleza, alle porte della capitale greca. Lea Dakpa ci era stata portata insieme a un’altra francese, due italiane, due tedesche, una britannica e uno spagnolo. Per quindici giorni ha condotto uno sciopero della fame chiedendo di porre fine alla sua detenzione, annullare l’ordine di espulsione che le gravava addosso e far valere i diritti delle altre persone recluse rispetto ad assistenza sanitaria, fornitura di cibo e traduzioni.
La vicenda di questi otto cittadini comunitari e della ragazza inglese è degna di un romanzo di Kafka, ma è anche un segnale politico che il governo di Nea Dimokratia guidato da Kyriakos Mitsotakis intende lanciare agli stranieri che partecipano a manifestazioni e proteste nella penisola ellenica. «Se alcuni pensano di poter ripetere ciò che visto in altri paesi e prendere il controllo delle università, montando tende e creando il caos, stanno commettendo un grosso errore», aveva dichiarato il giorno degli arresti il primo ministro.
La notte del 13 maggio era stata occupata la facoltà di legge, a due passi dalla centralissima piazza Syntagma, nell’ambito della mobilitazione globale in solidarietà con il popolo palestinese. La mattina seguente alle 11.45, ovvero pochi minuti prima che iniziassero una serie di attività organizzate dai manifestanti, la polizia ha circondato l’edificio universitario. Dentro era in corso un’assemblea con 28 partecipanti. La trentina di agenti dei reparti celere schierati fuori ha sfondato la porta e arrestato tutti i presenti.
«Ci hanno portato nella centrale della polizia ellenica, dove ci è stato impedito di parlare con gli avvocati. Siamo stati tenuti lì una notte», racconta Giulia, una ragazza italiana residente ad Atene che chiede di usare un nome di fantasia. Gli arresti sono stati convalidati da un giudice intorno all’1 di notte e il giorno successivo si è svolta la prima udienza del processo. Quattro le ipotesi di reato: occupazione di edificio, disturbo della quiete pubblica, detenzione di armi ed esplosivi. «Hanno trovato dei bastoni e dei fuochi d’artificio in un edificio adiacente, chiuso e non collegato a quello dove eravamo noi, e ci hanno contestato anche questo», dice Giulia. Un’accusa ulteriore riguarda il rifiuto di sottoporsi alla rilevazione di impronte digitali e dati biometrici: diversi casi di cronaca hanno testimoniato manipolazioni e usi spregiudicati di queste informazioni da parte della polizia greca.
Trattandosi di reati minori e non essendoci né testimoni né prove sulle responsabilità individuali il tribunale ha aggiornato l’udienza, che si terrà a marzo 2025, e disposto la scarcerazione delle 28 persone. «Hanno tolto le manette a tutti, a parte noi internazionali. Ai nostri avvocati è stato comunicato che dovevano riportarci alla centrale della polizia, invece ci siamo ritrovati dentro l’ufficio immigrazione», continua Giulia.
«Le forze dell’ordine, sulla base di un potere arbitrario che riconosciuto dalla legge greca, hano stabilito che queste persone sono pericolose per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale – afferma Yota Masouridou, una delle avvocate del collegio difensivo – Senza alcun intervento di un magistrato le hanno inserite nell’elenco nazionale delle persone indesiderate. Questa decisione non ci è mai stata trasmessa nonostante le nostre richieste».
Da questo punto della storia i nove vengono trattati come stranieri provenienti da paesi terzi. Finiscono così nel centro di Amygdaleza. Prima in una cella, poi nei container. Isolati dagli altri detenuti. Lamentano la mancanza di assistenza medica e la distribuzione di cibo di pessima qualità.
Intanto gli avvocati fanno ricorso. Per otto persone viene sospesa la detenzione. Sono rilasciate tra il 24 e il 27 maggio. Dietro le sbarre resta solo Dakba: la ragione sarebbe che nei suoi confronti pende un altro procedimento penale. Nessuna condanna, neanche in primo grado, solo un procedimento. Gli avvocati ricorrono contro l’ordine di espulsione e ottengono la sospensiva: la ragazza deve essere rilasciata, ma la polizia si prende altre 12 ore per farlo. Al momento sono sospese per tutti le misure detentive e l’ordine di espulsione. In attesa che il giudice stabilisca la data dell’udienza di merito per valutare il caso e confermare o annullare il rimpatrio di nove persone che vivono e lavorano stabilmente in Grecia.
Dopo l’omicidio di Alexis Grigoropoulos per mano di un poliziotto il 6 dicembre 2008, poi durante tutti i movimenti contro l’austerity che ha strozzato il paese e ancora oltre con l’ondata di solidarietà verso i migranti nel 2015, il paese ellenico è sempre stato una meta di attivisti da tutto il continente. Nemmeno nei (tanti) casi di arresto di stranieri per manifestazioni di piazza ben più dure che l’occupazione di una facoltà era stato disposto il rimpatrio coatto di cittadini europei. L’unico caso sembrerebbe riguardare una persona fermata nel 2022 nel periodo delle restrizioni da Covid-19, quando un francese è stato espulso prima che sulla sua vicenda potesse esprimersi un giudice.
«Dal punto di vista della legislazione europea tutto quello che è avvenuto ai nove arrestati è illegale – afferma Masouridou – Ovviamente è possibile deportare cittadini di altri paesi membri, ma solo in presenza di condanne definitive per crimini molto gravi». Non è questo il caso, anche perché la sentenza che ha sospeso le detenzioni afferma che le azioni contestati ai manifestanti «non offendono alcun valore morale» e si inseriscono nel «contesto internazionale delle manifestazioni studentesche in sostegno al popolo palestinese dopo mesi di bombardamento della Striscia di Gaza da parte dello Stato di Israele». Dissenso politico, insomma, nessuna minaccia all’ordine pubblico o alla sicurezza nazionale. Ma forse Mitsotakis preferisce comportarsi come un Orbán qualunque.
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