«Il paradosso: attraverso la negazione della sicurezza dei diritti agli scarti umani – precari, immigrati, rifugiati – lo Stato si costruisce una nuova legittimazione con la sicurezza penale, proprio quella da garantire contro quelli ai quali la sicurezza è stata negata»Il mercato ha soppiantato la politica ed ha imposto una sorta di razionalità “tecnica”, oggettiva, che pare non ammettere contraddizioni.
Ma l’imposizione “tecnica” di ridurre drasticamente, nel privato e nel pubblico, il numero degli occupati per non meglio precisate finalità di ordine economico, è in realtà un’opzione politica ben precisa, secondo cui i diritti dell’uomo valgono poco o nulla. A ben vedere, all’interno del ciclo produttivo colui che lavora, da soggetto di diritti è tornato ad incarnare unicamente la figura, mortificante, di uno dei fattori della produzione, tanto per intenderci alla stregua di un macchinario o di una merce. Ed è strano che queste opzioni incivili vengano decise da un soggetto inafferrabile, il mercato, di cui si conoscono le pretese, peraltro vincolanti, ma non se ne conoscono né obblighi, né responsabilità. Eppure non è di facile comprensione come mai uno Stato, qual è quello italiano, che basa la propria ricchezza sul lavoro – essendo privo di risorse naturali – possa divenire più ricco, diminuendo il lavoro: si tratta di quello stesso Stato che proprio al lavoro ed al suo fondamentale pregio ha dedicato il primo articolo della Costituzione ancora vigente.
Ecco, invece gli ordini, indiscutibili, di derivazione sovranazionale che impongono la libertà di licenziamento da parte dell’impresa, in attesa di un miglioramento delle cose, cioè una fantomatica ripresa del mercato che vorrebbe rimettere a posto la situazione e, dunque, far riespandere le assunzioni: tutto ciò senza fare i conti con le svariate decine di milioni di disoccupati, europei e nordamericani, della cui sopravvivenza – nelle more delle “ripresa” – il mercato, evidentemente, non si dà cura.
E questo già dovrebbe favorire qualche dubbio sull’efficacia della cura e, soprattutto, sulle reali cause della malattia.
Si tratterebbe, in realtà, soltanto di un ultimo colpo assestato a categorie di soggetti già resi deboli, pauperizzati dall’imposizione di modelli di vita sempre più impossibili da sostenere. A costoro si aggiungano i giovani precari, i pensionati sociali, insieme agli inoccupati, ed a coloro che a quarant’anni e più, perdono il posto di lavoro, condannati all’emarginazione, per non parlare del lacerante, variegato cosmo dell’immigrazione: vite da scarto, rifiuti umani.
L’imporsi di un nuovo ordine, teso a soppiantare quello esistente, pare destinato a produrre inevitabilmente materiale di risulta, da smaltire ed eventualmente da riconvertire. E quando il progetto si riferisce alle comunità umane, allora il materiale di scarto, la cui produzione segue parallelamente la costruzione del nuovo ordine sociale, è l’insieme dei “rifiuti umani” – le wasted lives di Bauman – costituito da quegli individui che non si adattano alla forma progettata o non si lasciano adattare: si tratta di residui inutili, da marginalizzare ed eventualmente smaltire attraverso le carceri, la cui funzione di integrazione sociale rappresenta un dover essere astralmente distante dalla realtà.
Alla base di questo vortice che stritola le esistenze di tanti esseri umani si ritrova una massima esaltazione del consumismo che produce in abbondanza, assieme a tante merci, tanti rifiuti. Il rifiuto è una presenza sterminata, ma preferiamo non pensarci . Il dramma è che l’idea di rifiuto è ormai spostata dagli oggetti all’uomo, ad un tipo particolare di uomo che è divenuto un rifiuto, un vinto dell’età tecnologica. E la prima categoria di scorie umane è tutta occidentale, sono i giovani degli anni Settanta, quella generazione che viene espulsa da un mercato, tutto concentrato sulla riduzione dei posti di lavoro piuttosto che sul loro incremento. Ma va anche peggio per gli scarti degli scarti, gli esuberi del terzo mondo. Essi incarnano, direttamente, la figura di rifiuti di ancor minor pregio, senza alcuna funzione utile da svolgere nella terra del loro arrivo, destinati alle discariche dei ghetti e dei campi profughi, se non delle galere. Le probabilità che costoro vengano riciclati in membri legittimi e riconosciuti dalla società, sono infinitamente remote.
La verità è che il panorama globale fa emergere uno scenario inquietante, al cui interno lo Stato non è più in grado di garantire diritti di sicurezza economica, lavorativa, esistenziale di una parte cospicua dei suoi cittadini. E l’effetto immediato è la diffusione di panico e depressione, tra i malesseri più diffusi, specialmente tra i giovani, fra le cui cause evidenti vi sono proprio l’incertezza lavorativa e la conseguente precarietà esistenziale.
Tra le prerogative classiche della sovranità, moneta (economia), esercito, potere punitivo, è rimasta in piedi solo quest’ultima ed è proprio facendo riferimento al potere punitivo che, tanto scompostamente, l’istituzione statuale cerca oggi di legittimarsi nei confronti dei consociati: gli individui, così, smettono di essere oggetto di attenzione da parte dello Stato sociale e lo divengono per lo Stato penale, assecondando ed accelerando in tal modo la metamorfosi della cultura dell’uomo quale soggetto di diritti nell’anticultura dell’individuo rifiutabile.
Ma quando lo Stato perde la capacità di difendere i diritti dei singoli, cioè la protezione delle persone, costretto dall’affermarsi, nell’ordine della globalizzazione, di sfrenate politiche neoliberiste, esso deve cercare altre forme di autolegittimazione. E il paradosso consiste nel fatto che attraverso la negazione della sicurezza dei diritti agli scarti umani – precari, immigrati, rifugiati – lo Stato si costruisce una nuova legittimazione tramite un altro tipo di sicurezza, penale, che è proprio quella da garantire contro coloro ai quali la sicurezza esistenziale è stata negata. Di qui la famigerata, ricorrente “questione sicurezza” che fa leva sulla suggestione mediatica di paure indotte, o ingrandite a dismisura, sui pericoli delle attività potenzialmente destabilizzanti di chi ha perso tutto o niente ha mai avuto.
Tutto ciò testimonia la crisi di legittimazione dello Stato, che ha finito per perdere il carattere inclusivo che contraddistingueva la natura dello Stato sociale, in favore di un ritorno graduale alla priorità dell’elemento della tutela dell’incolumità personale e del patrimonio attraverso il controllo penale. La ricerca di legittimazione da parte dello Stato di fronte all’incertezza prodotta dai processi di globalizzazione – che incentivano esponenzialmente la precarietà, e la conseguente vulnerabilità, sociale da un lato, e le variabili di rischio che minacciano la sicurezza personale degli individui, dall’altro – passa attraverso la produzione sociale e mediatica di cause diverse da quelle che sono le fonti reali del disagio e determinano la mutazione nello Stato penale.
Diversamente dal caso delle minacce generate dalla mancata difesa della sopravvivenza delle persone, la portata dei pericoli predatori per la proprietà e la incolumità individuale viene enfatizzata e colorata con le tinte più fosche, di modo che il mancato concretizzarsi delle minacce possa essere venduto come un evento straordinario, frutto della vigile efficienza e, perché no, della buona volontà degli organi dello Stato.
Che fare? Rimettere in discussione tutte le precondizioni politiche, sociali ed economiche che hanno caratterizzato ogni fase della postmodernità, con progettazioni a lungo periodo che, ponendo come fine dell’azione politica la promozione e la difesa dei diritti fondamentali di tutti gli esseri umani, tengano conto con lungimiranza delle conseguenze nel tempo delle soluzioni adottate. Tutto il contrario di quel che caratterizza l’azione politica oggi dominante: essa non è in grado di produrre altro che pseudo-soluzioni discriminatorie, di natura emergenziale e provvisoria, espressioni di una politica dal fiato corto, destinata a modellarsi e a limitare la propria sfera d’azione sui tempi brevi e scenari inquietanti.
Tutto ciò che ostacola la corsa incessante alla crescita economica costituisce un ostacolo da rimuovere obbligatoriamente, ma credo che gli esseri umani ai quali si negano i diritti primari possano per breve tempo risultare acquiescenti: è facile prevedere che alla violenza delle istituzioni si possa rispondere con altra violenza . Ed a nulla potranno servire nuove norme penali,ulteriori giri di vite repressivi ,specialmente quando sono funzionali unicamente alla conservazione di una sempre più diffusa condizione di iniquità sociale.
Sergio Moccia da il manifesto
Share this: