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Il fascismo in marcia e la debolezza degli anticorpi

Quello che va in scena in questi giorni, con le intimidazioni del Governo nei confronti della magistratura, non è un conflitto tra giudici e potere politico, ma una tappa del processo di fascistizzazione dello Stato. Una tappa che presenta singolari analogie con quanto accaduto negli anni Venti, anche nella debolezza della reazione dei vertici istituzionali contro la deriva eversiva.

di Livio Pepino da Volere la Luna

Lo abbiamo detto e scritto molte volte (da ultimo: https://volerelaluna.it/commenti/2024/07/26/ma-i-giudici-sono-migliori-dei-politici/) ma conviene ripeterlo: quello che va in scena in questi giorni non è, come afferma la quasi totalità dei media, un conflitto tra magistratura e potere politico, ma una tappa del processo sempre più evidente di fascistizzazione dello Stato.

Andiamo con ordine.

Nell’approssimarsi della sentenza nei confronti di Matteo Salvini per sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio per avere, come ministro dell’Interno, bloccato per 20 giorni l’approdo a Lampedusa della nave Open Arms con a bordo 147 migranti soccorsi in mare e all’indomani della decisione del Tribunale di Roma che, in (doverosa) applicazione dei principi di diritto affermati in una sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia dell’Unione europea, ha negato la convalida del trattenimento nel centro di Gjadër di 12 migranti ivi tradotti manu militari dalle autorità italiane (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/21/il-grande-bluff-del-trasferimento-dei-migranti-in-albania/), la presidente del consiglio, uno stuolo di ministri, sottosegretari e parlamentari e la stessa seconda carica dello Stato hanno messo in scena uno spettacolo dai tratti genuinamente eversivi. Diversi gli attori e le parti in commedia (rectius, in tragedia): alcuni hanno gagliardamente marciato, petto in fuori, sul Tribunale di Palermo per intimidire i giudici preposti al processo contro il leader leghista; altri – e talora gli stessi – si sono esibiti in insulti («Se qualcuno ha preso il Tribunale per un centro sociale ha sbagliato mestiere»), volgarità da osteria («I magistrati fanno entrare in Italia cani e porci»), minacce («Quel magistrato andrebbe licenziato»); altri infine – il presidente del Senato in primis – hanno sostenuto la necessità di modificare la Costituzione per mettere al loro posto i giudici. Identica l’impostazione di fondo, pur diversamente modulata. Al vicepresidente del Consiglio Salvini («Ho compiuto i fatti che mi vengono contestati per proteggere i confini nazionali da sbarchi incontrollati di stranieri irregolari sulle nostre coste, e nessun giudice quindi può condannarmi perché ho agito per proteggere un interesse dello Stato, esercitando il “sacro dovere del cittadino” di “difesa della Patria” sancito dall’articolo 52 della Costituzione»: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/04/23/salvini-la-difesa-della-patria-e-lo-stato-di-diritto/) fa eco la presidente del Consiglio Meloni («Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale è un precedente gravissimo») in un coro sintetizzato, infine, dal giurista (si fa per dire) dell’allegra compagnia, il guardasigilli Nordio, che pronuncia la sua sentenza: «Se la magistratura esonda dai propri poteri attribuendosi delle prerogative che non può avere come quella di definire uno Stato sicuro deve intervenire la politica che esprime la volontà popolare. Noi rispondiamo al popolo, se il popolo non è d’accordo con quello che facciano noi andiamo a casa. La magistratura, che è autonoma e indipendente, non risponde a nessuno e quindi proprio per questo non può assumersi prerogative che sono squisitamente ed essenzialmente politiche».

Tacciare il giudice sgradito di esondare dal ruolo e – il passo è breve e conseguente – di essere “comunista” è stato un leitmotiv della stagione berlusconiana (https://volerelaluna.it/controcanto/2023/10/06/toghe-rosse-e-calzini-azzurri/) ma con precedenti illustri in epoca fascista, come ricorda Piero Calamandrei in Elogio dei giudici scritto da un avvocato (risalente al 1935) raccontando la storia di un miliardario che, per sottrarre il figlio dallo “sconcio” di un processo per omicidio colposo stradale, mette sul piatto una somma ingente e, all’obiezione del difensore che «la giustizia non è una merce in vendita», sbotta nella conclusione: «Ho capito, abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista».

Ma oggi c’è un salto di qualità: la teorizzazione (e la conseguente pretesa) che la giurisdizione abbia un ruolo servente nei confronti della politica, ne debba affiancare e sostenere le scelte, interpretandone e traducendone lo spirito e avendo come stella polare l’utilità contingente e non il rigoroso rispetto delle regole. È il ribaltamento dello Stato di diritto, la cui essenza – per usare le parole del più autorevole teorico del garantismo, Luigi Ferraioli – è il fatto che «ci sia un giudice indipendente che interviene a riparare i torti subiti, a tutelare il singolo anche se la maggior parte o persino la totalità degli altri si schierano contro di lui, ad assolvere in mancanza di prove quando l’opinione comune vorrebbe la condanna o a condannare in presenza di prove quando la medesima opinione vorrebbe l’assoluzione».

Il conflitto con i giudici è solo la punta di un iceberg fatto di insofferenza per ogni regola. E ciò mentre, per la nostra carta fondamentale, l’investitura del voto non attribuisce un potere assoluto e incontrollato, come precisato nell’articolo 1 (scritto in italiano, a beneficio del guardasigilli, notoriamente a disagio con la lingua francese delle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, e posto all’inizio della Carta, con conseguente possibilità di agevole e immediata lettura), in forza del quale «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»: forme e limiti analiticamente indicati negli articoli successivi che prevedono, tra l’altro, diritti e libertà inviolabili tutelati da una magistratura soggetta soltanto alla legge. Di più: il fatto che l’atto politico incontri i limiti del diritto (anche quello penale) è un’acquisizione fondamentale delle democrazie, come hanno insegnato, tra gli altri, la Camera dei Lords di Londra, che, con sentenza 25 novembre 1988, ha negato l’immunità all’ex presidente del Cile Augusto Pinochet Ugarte per i crimini commessi durante la dittatura, e la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con sentenza 22 marzo 2001, ha respinto i ricorsi dell’ex Ministro della Difesa e dell’ex presidente del Consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca, condannati dai giudici nazionali per gli omicidi di 133 persone che cercavano di oltrepassare il muro di Berlino, con la motivazione che persino in uno Stato autoritario le autorità politiche, anche nell’esercizio della legittima facoltà di difesa delle frontiere, dovevano rispettare le leggi penali poste a tutela del bene della vita e della libertà delle persone (https://www.domenicogallo.it/2024/10/meloni-e-salvini-uniti-a-berlino/).

Democrazie, si è detto. Già, perché è proprio questo che si sta cercando di abbandonare. C’è, nella nostra storia nazionale, un precedente attualissimo, persino nelle parole utilizzate. Un precedente che riguarda i passaggi dalla democrazia al fascismo e il consolidamento del regime. «La magistratura – proclamò solennemente in Parlamento, il 19 giugno 1925, il guardasigilli Alfredo Rocco – non deve far politica di nessun genere. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista. Questo nella immensa maggioranza dei casi accade. I magistrati politicanti costituiscono una trascurabile eccezione, una insignificante minoranza». Che cosa significava essere apolitici lo precisò lo stesso Rocco appena quattro anni dopo: «Lo spirito del Fascismo è entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Fino ad arrivare al 1939 quando i più alti magistrati del regno – come ricorda ancora Piero Calamandrei – si radunarono in divisa a palazzo Venezia, compiacendosi di fronte al riconoscimento del ministro di avere finanche superato «i limiti formali della norma giuridica» per «obbedire», quando si era trattato di difendere i valori della Rivoluzione, «allo spirito e alla sostanza rinnovatrice della legge», applaudendo ripetutamente le parole del duce e lasciando quindi la sala al canto di inni della Rivoluzione…

Il precedente è tanto inquietante quanto pertinente e proietta un’ombra ulteriore. Il fascismo si affermò grazie all’ignavia del re e all’accettazione della classe dirigente dell’epoca. Dobbiamo, dunque, interrogarci oggi sull’adeguatezza della resistenza dei vertici delle istituzioni alla deriva in atto. E la risposta non autorizza ottimismi se finanche il presidente della Repubblica, di fronte all’aggressione eversiva nei confronti della magistratura, si ferma all’auspicio che «le istituzioni non si limitino a visioni di parte, perché collaborare rafforza la democrazia»… Non siamo di fronte a una semplice mancanza di collaborazione tra poteri!

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