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Il piano antiterrorismo per il giubileo prende di mira i rifugiati

Manca meno di una settimana all’apertura della porta santa a Roma per il giubileo della misericordia – l’anno santo straordinario proclamato da papa Francesco – e a Roma, dopo gli attentati di Parigi, è scattato il piano per la sicurezza.

Più controlli, polizia e militari per le strade e due blitz nel giro di pochi giorni ai danni di migranti e rifugiati. Prima in un centro di accoglienza per migranti e poi in un palazzo occupato da circa trecento famiglie di rifugiati, a conferma che le persone in fuga da guerre, dittature e dagli stessi jihadisti sono le prime vittime del nuovo approccio di rafforzamento delle misure di sicurezza lanciato dal governo.

Il 1 dicembre di prima mattina, a due passi dalla stazione Termini di Roma, sono arrivate le camionette della polizia. Hanno bloccato l’ingresso di via Curtatone e hanno fatto scendere un centinaio di poliziotti in tenuta antisommossa che sono entrati in uno stabile occupato da circa 270 famiglie eritree; più di cinquecento persone con regolari documenti, rifugiati o beneficiari di qualche forma di protezione internazionale.

“Ci hanno avvisato che volevano identificarci e sono entrati. Hanno bussato casa per casa, hanno fotografato tutte le persone all’interno dello stabile e hanno controllato i documenti”, racconta Ali, uno degli inquilini dello stabile.

“Io ho la protezione sussidiaria e come me quasi tutti qui dentro. Noi siamo contenti che il governo ci venga a controllare, siamo famiglie normali”, aggiunge.

In effetti in un comunicato la questura di Roma spiega che “sono state in tutto controllate 556 persone, per lo più cittadini eritrei ed etiopi. Tra i presenti anche una trentina di bambini. Durante le operazioni d’identificazione nessuno ha opposto resistenza. Al termine delle operazioni si è potuto constatare che si trattava per la maggior parte di rifugiati politici”. Quattro persone sono state trovate senza regolari documenti e sono state portate all’ufficio immigrazione della questura di Roma.

Le autorità hanno spiegato che anche questa operazione fa parte, come quella avvenuta al centro di accoglienza Baobab di Roma il 24 novembre, del “più ampio progetto di controllo del territorio romano, previsto per la sicurezza del giubileo”.

L’operazione è durata circa tre ore e alla fine la polizia ha portato via quattro persone senza documenti.

“Questi messaggi non sono neutri”, commenta Valeria Carlini del Consiglio italiano per i rifugiati. “E fare due blitz di polizia nel corso di pochi giorni contro migranti e richiedenti asilo è un messaggio chiaro che viene dato dopo gli attentati di Parigi. Un’equazione che si vuole fare tra terroristi e rifugiati, tra sicurezza e chiusura delle frontiere. C’è da chiedersi, invece, perché queste persone, che hanno ottenuto la protezione internazionale, vivano in una situazione di emergenza abitativa e perché non esista in Italia un programma d’integrazione nazionale per i rifugiati”.

Nel nostro paese, infatti, le persone a cui è stata riconosciuta la protezione internazionale possono chiedere di entrare in un centro di accoglienza Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per sei mesi, dopo aver ottenuto lo status di rifugiato. “Hanno la possibilità, ma non il diritto”, aggiunge Carlini, che spiega che il sistema d’accoglienza italiano non prevede nessuna misura di welfare e nessun programma per favorire l’integrazione dei rifugiati nel sistema produttivo italiano. “La mancanza di un piano nazionale per l’integrazione di richiedenti asilo e rifugiati condanna queste persone alla marginalità”.

Il 1 ottobre 2013, su un vecchio peschereccio ormeggiato nel porto libico di Misurata s’imbarcano più di cinquecento persone. Vengono dall’Eritrea, dal Ghana, dalla Somalia, dall’Etiopia e dalla Tunisia e sono diretti verso le coste italiane. Molti vogliono proseguire verso il nord e arrivare in Svizzera, in Germania, nel Regno Unito o nei paesi scandinavi.

Dopo due giorni di mare, avviene una tragedia. Da una torcia prende origine un incendio che divampa su tutto il barcone: fiamme che non lasciano scampo ai migranti. Il peschereccio s’inabissa davanti all’isola dei Conigli di Lampedusa, muoiono almeno 366 persone di nazionalità eritrea, i dispersi sono decine.

“Ormai il dramma del 3 ottobre 2013 a Lampedusa non lo ricorda più nessuno”, spiega Cristiano Armati, attivista dei movimenti per il diritto alla casa di Roma e autore del libro La scintilla. Una storia antagonista della lotta per la casa (Fandango, 2015). “È uno dei tanti naufragi che sono avvenuti da allora e che hanno attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione, ma provocò un trauma forte nell’opinione pubblica italiana”, ricorda Armati. “I politici italiani si affrettarono a piangere e a stracciarsi le vesti”.

Dopo quella strage, l’Italia si accorse che gli eritrei formavano il gruppo più numeroso, dopo i siriani, tra i migranti che ogni anno attraversano il Mediterraneo per arrivare in Europa: in cinquemila fuggono ogni mese. Un vero e proprio esodo da un paese governato da una dittatura. Nell’ex colonia italiana, governata dal 1993 dal dittatore e leader dell’indipendenza Isaias Afewerki, la leva è obbligatoria per tutti quelli che hanno compiuto 18 anni e dura almeno 18 mesi, ma può essere prolungata e trasformarsi in arruolamento permanente. Inoltre, molti soldati sono costretti ai lavori forzati.

All’indomani del naufragio del 3 ottobre nacque l’occupazione di piazza Indipendenza

“Gli eritrei non sono governati dalla legge, ma dalla paura”, si legge in un recente rapporto delle Nazioni Unite sui diritti umani in Eritrea, che raccoglie testimonianze su esecuzioni extragiudiziali, schiavitù sessuale e lavoro forzato. Secondo il rapporto dell’Onu, il governo di Asmara è responsabile di violazioni dei diritti umani diffuse e repressione del dissenso, che hanno creato un clima di paura. Questa situazione spinge ogni anno centinaia di migliaia di persone ad abbandonare il paese.

“All’indomani del naufragio del 3 ottobre, nacque l’occupazione di piazza Indipendenza”, spiega Armati che ripercorre le tappe dell’arrivo degli eritrei nel palazzo, in un quartiere che storicamente ha sempre ospitato esercizi commerciali, ristoranti e attività della comunità etiope, eritrea e somala di Roma.

Dopo il naufragio del 3 ottobre il sindaco di Roma Ignazio Marino offrì ospitalità ai 155 superstiti che avrebbero dovuto trovare un alloggio nel centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto, finito recentemente all’onore della cronaca per l’inchiesta Mafia capitale. Ma il centro all’epoca era allagato, così in molti si stabilirono nell’edificio abbandonato di otto piani di proprietà dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), vicino alla principale stazione ferroviaria della capitale.

“Secondo alcune inchieste i rifugiati in emergenza abitativa a Roma sono 2.500, settemila i richiedenti asilo che vivono nelle stesse condizioni. Nel totale disprezzo della convenzione di Ginevra”, spiega Armati, che sottolinea come i rifugiati avrebbero il diritto a partecipare ai bandi per l’assegnazione di una casa popolare, “ma si preferisce che siano ospitati nei centri di accoglienza, sovraffollati, malsani e gestiti da enti che ne hanno fatto un business”.

Secondo un articolo di Redattore sociale, “il ministero dell’interno ha stimato in un miliardo e 162 milioni di euro la spesa complessiva dell’accoglienza dei richiedenti asilo in Italia nel 2015. In particolare, per la gestione dei centri vengono erogati in media 35 euro al giorno pro capite per ogni richiedente asilo”.

“Se si valutano i costi di questi centri e la loro reale efficacia, se ne deduce che investire in programmi di integrazione, che comprendano facilitazioni per l’accesso ai prestiti per l’acquisto di una casa, o l’inserimento in un programma di edilizia popolare sarebbe più conveniente ed efficace nel lungo periodo”, conferma Valeria Carlini del Cir.

Con una delibera regionale del gennaio del 2014 si è provato a regolarizzare la condizione abitativa dei rifugiati di piazza Indipendenza, insieme a quella degli altri occupanti di case a Roma, racconta sempre Cristiano Armati. La delibera prevedeva il recupero del patrimonio immobiliare pubblico per l’assegnazione di case popolari, l’acquisto calmierato d’immobili privati inutilizzati, sempre con lo stesso scopo, e lo stanziamento di fondi per la costruzione di nuove abitazioni destinate all’edilizia popolare pubblica. Ma la delibera è rimasta inapplicata.

Anche a causa dell’articolo 5 del decreto Lupi che impedisce agli occupanti di case di chiedere la residenza negli immobili dove abitano, i rifugiati o i beneficiari di protezione internazionale sono destinati a vivere in una situazione di marginalità e di precarietà, che emerge come contraddizione a ogni allerta sicurezza.

Annalisa Camilli da Internazionale