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Il prefetto a guardia dello stato d’eccezione

Sotto la maschera del potere neutrale. Roma come Londra negli anni ’80 del secolo scorso quando, nel dare il cambio del ciclo economico, venne sciolto il consiglio comunale

La storia politica europea degli ultimi trent’anni è la storia della difesa della libertà del mercato dall’assedio della democrazia. Una torsione insostenibile rispetto al precedente ciclo continentale – anch’esso per causalità trentennale – che aveva registrato, se non un rovescia­mento, almeno un robusto riequilibrio di forze tra i movimenti popolari e le élites mercatiste.

Non importa esser ferrati nell’armamentario della scolastica marxista d’antan per sottolineare questo riequilibrio di forze: la nostra carta costituzionale può esser letta come la sua più alta espressione europea.

Un riequilibrio che i codici istituzionali e morali sorti dalla guerra civile europea e dal ciclo lungo delle lotte operaie e contadine erano stati in grado di fotografare abbastanza fedelmente. In conseguenza, la tensione tra costituzione scritta e costituzione materiale propria della fase attuale deriva da un molecolare, progressivo e finalmente esploso cambiamento di paradigma nei rapporti tra interessi del mercato e domande popolari.

Di qui il continuo ricorso allo stato di eccezione, la via sempre più frequente di sostituzione di un ordine egemonico con quello successivo da parte dei gruppi dirigenti tradizionali, impossibilitati ad attuare fino in fondo la (per loro vitale) contro-rivoluzione nell’ambito istituzionale dato.

Si badi bene che non di un fenomeno solo italiano si tratta: se l’attuale governo, in nome della “stabilità”, ha avocato all’istituto prefettizio (a-democratico per eccellenza) il compito di guidare l’amministrazione romana, nella Gran Bretagna degli anni Ottanta del secolo scorso, impegnata nel dare il là al cambio di ciclo, il consiglio municipale della capitale fu direttamente sciolto.

E a livello macro, cos’è stata la costruzione europea tra gli anni Novanta e Duemila se non un gigantesco processo di espropriazione della legittimità democratica e di avocazione del potere decisionale a presunti luoghi neutrali, deputati alla realizzazione dell’utopia liberale della pura amministrazione?

Ma il fatto è che, sotto la maschera di istituzioni (e linguaggi) apparentemente neutrali, si è innestato un ciclo di accumulazione espropriativo (secondo la definizione di David Har­vey) che non può non innescare una reazione popolare da tenere sotto controllo e marginalizzare, pena l’incepparsi dell’intero meccanismo.

Quattro le caratteristiche di questo nuovo ciclo di accumulazione, che da vicino richiama, estendendolo sul piano planetario, l’accumulazione originaria dell’Inghilterra alle soglie della rivoluzione industriale:

un’intensificazione rispetto al ciclo precedente dello sfruttamento della manodopera occupata; una riconduzione, tramite ingenti privatizzazioni, nell’ambito del mercato di settori che il senso comune identifica istintivamente come beni comuni (la terra nell’Inghilterra del ‘600, l’acqua, o la sanità, oggi);

l’espulsione dalla terra di origine di masse diseredate e la creazione di un enorme esercito di disoccupati, un fenomeno anch’esso oggi globalizzato rispetto al modello originario;

la finanziarizzazione e l’indebitamento come via al mantenimento artificiale dei livelli di sviluppo (nell’Italia di oggi, mentre lo Stato, direttamente o indirettamente, esime i grandi patrimoni dall’obbligo contributivo, si invita chi non può permettersi di pagare le tasse locali a prestare gratuitamente il proprio lavoro per i servizi pubblici, una cosa che ricorda molto da vicino la vittoriana “servitù per debiti”).

In questa cornice, comportamenti che solo una manciata di lustri orsono sarebbero apparsi delittuosi in base alla morale ed alla legislazione corrente, vengono o depenalizzati dallo Stato (il falso in bilancio, ad esempio), o sotterraneamente ignorati (il caporalato come riduzione in schiavitù) in quanto essenziali per la salute del modello di sviluppo in fieri. Ed è in fondo normale che sia così, nel momento in cui gli ordinamenti pubblici vengono in qualche maniera travolti dalle necessità dell’accumulazione e del mantenimento del potere nelle mani delle élites mercatiste.

Negli Stati Uniti di oggi la memoria dei Morgan e dei Rockefeller, i Robber baron fondatori della Nazione, è preservata come quella di eroi eponimi, ma le loro fortune sull’asse orizzontale dell’espansione ferroviaria e quella verticale dell’estrazione petrolifera furono accumulate con metodi banditeschi, che solo a posteriori sono state impancate a modello di virtù repubblicana.

E il decoro della Londra vittoriana – ce lo ricorda la Trilogia dell’oppio di Amitav Gosh da poco tradotta anche in Italia – fu in gran parte costruita su una spoliazione delle periferie dell’impero attuata con metodi altrettanto brutali: solo la riscrittura della storia da parte delle classi dominanti e la loro attuale egemonia impedisce di assimilare i capitani coraggiosi di quella vicenda ai trafficanti di uomini che oggi infestano le coste del Mediterraneo.

Nel corso di stravolgimenti epocali come l’attuale, tuttavia, blocchi storici, tanto di potere quanto di opposizione, si frantumano e si riconfigurano.

Le frontiere delle egemonie si fanno mobili, il conflitto perde la propria centralità ed esplode in mille rivoli dispersi, e soprattutto il movimento popolare, nel breve periodo, ne esce frastornato.

Ma l’utopia liberale della “pura amministrazione” già appare destinata a rivelarsi, appunto, un’utopia.

Quanto letale si possa rivelare non lo sappiamo ancora, e spetta al contro-movimento delle classi subalterne trovare codici comuni e modalità dell’agire politico adatte a riequilibrare l’arbitrio dell’élite mercatista.

Questa ricomposizione del movimento di opposizione alla grande espropriazione in corso è all’ordine del giorno: un compito enorme, difficile ed allo stesso tempo appassionante, da mettere in campo prima che le élites suggellino il proprio trionfo ed ai Robber baron di oggi si intitolino nuove piazze e nuove università.

Tommaso Nencioni da il manifesto