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Informazione e diritto di manifestare al tempo della pandemia

Green pass, obbligo vaccinale, tamponi e quant’altro sono oggetto di un bombardamento mediatico sempre più stucchevole e fuorviante. Soprattutto perché ad esso si accompagnano la carenza di un’informazione attendibile ed effetti collaterali preoccupanti. Tra questi una contrazione significativa e indifferenziata della libertà di riunione e manifestazione.

di Livio Pepino

Il bombardamento mediatico su green pass, obbligo vaccinale, tamponi, cosa fare a Natale e come divertirsi (nonostante tutto) a Capodanno, che occupa quotidiani, telegiornali e talk show mattutini, pomeridiani e serali, sta diventando sempre più inutile e stucchevole. E, soprattutto, fuorviante. Non solo per la riproposizione della compagnia di giro (“scienziati”, virologi, giornalisti, filosofi, pensatori, politici, amministratori, attori cinematografici e chi più ne ha più ne metta) che si trasferisce dall’uno all’altro canale televisivo o testata giornalistica per dire tutto e il contrario di tutto, magari contraddicendo e prendendo a male parole chi si è espresso prima, ma, ancor più, per la perdurante carenza di un’informazione minimamente attendibile e per gli effetti collaterali che ne derivano.

Partiamo dall’informazione su cui fin dall’inizio della pandemia ha insistito  Gianni Tognoni.  La sola certezza è che si tratta di un’informazione incompleta, parziale e contraddittoria. Perché e in forza di quali controindicazioni il vaccino Astra Zeneca (con cui la maggioranza di noi è stata trattata) è scomparso dai radar? Perché l’efficacia temporale del vaccino (e del green pass) viene dilatata o ridotta come un elastico (con evidenti conseguenze per chi intende sottoporsi alla cosiddetta terza dose)? Perché l’utilità – generale e temporale – del tampone viene anch’essa modificata a piacimento in relazione ad altre contingenti utilità? Perché, salva la (ovvia) segnalazione che il maggior numero (almeno in termini percentuali) dei ricoverati in ospedale non è vaccinato, l’informazione complessiva su tutti i ricoverati (classi di età, patologie concorrenti, località di provenienza e quant’altro) è del tutto carente? Perché l’efficacia del vaccino non è monitorata in rapporto ad altri fattori di rischio (uso di protezioni, distanziamenti in luoghi chiusi, permanenza in aule scolastiche o luoghi di lavoro, uso di mezzi di trasporto etc.). Intendiamoci, molti cambiamenti di analisi, smentite, aggiustamenti sono fisiologici e dovuti al fatto che la scienza si nutre di sperimentazioni e trae da esse indicazioni e insegnamenti. Ma perché non dirlo e informare in maniera corretta invece di presentare ogni nuova decisione come risolutiva, a maggior gloria del presidente del consiglio salvatore della patria e del suo braccio destro in tuta mimetica (magari presentando come ignoranti o sabotatori tutti coloro che avanzano dubbi e suggeriscono interventi paralleli)? Purtroppo, ancora una volta, in punto informazione “il re è nudo”. E non è un buon segnale che a denunciarlo sia, nel silenzio di partiti e “comunità scientifica”, quasi solo un comico come Maurizio Crozza. Quanto questo giovi a un corretto rapporto dei cittadini (di tutti noi) con la pandemia e alla fiducia nella politica è facile immaginare.

Ma, oltre alla carenza informativa, la pandemia sta producendo molti effetti collaterali, voluti e non voluti. Uno su tutti, certamente voluto, è una significativa restrizione della sfera delle libertà e dell’espressione del dissenso. La democrazia come l’abbiamo studiata sui sacri testi è da tempo in crisi profonda, forse irreversibile (per ragioni note: dalla globalizzazione alla finanziarizzazione dell’economia, dal trionfo di un liberismo senza limiti alle grandi trasformazioni tecnologiche e del mondo del lavoro, dal disastro climatico ai nazionalismi e molto altro ancora). A fronte di questa crisi e dei connessi fenomeni di disaffezione, di disgregazione sociale, di dissenso radicale, di protesta, di contestazione fuori dalle regole, di comportamenti diversi e non omologati (id est, dell’unica opposizione esistente) la reazione crescente – seppur con diverse modalità e intensità tra situazione e situazione – è un nuovo modello di democrazia autoritaria (come taluno la definisce, con un evidente ossimoro) che mantiene ferme alcune forme della democrazia classica (come le elezioni, più o meno regolari, e la presenza di Parlamenti, più o meno vitali) ma erode progressivamente le libertà e le garanzie dello Stato di diritto. Orbene, a questa erosione, la pandemia – come altre “emergenze” che l’hanno preceduta – dà un contributo imponente. È bene essere chiari, ad evitare incomprensioni e polemiche sterili. La pandemia non è, come taluno ha detto con inutile e sciocca provocazione, un’invenzione finalizzata a una svolta autoritaria. È, al contrario, una realtà drammatica che ha a che fare con la vita e la morte, nel mondo, di milioni di persone. Ma c’è, da più parti, chi la usa per uscire dalla crisi politica e istituzionale con un irrigidimento del sistema.

Prendiamo la libertà di manifestare. Da tempo, nel nostro Paese, è sotto attacco. Chi protesta e dissente è sempre più considerato, anziché un contraddittore con cui confrontarsi, un nemico interno: basta pensare, per restare all’oggi, alle reazioni allo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil. Da anni è cambiato persino il linguaggio, al punto che tutti (media e politici) si affannano a denunciare le “manifestazioni non autorizzate”, dimenticando – o fingendo di dimenticare – che per manifestare in luoghi pubblici non è richiesta, nel nostro sistema, alcuna autorizzazione ma soltanto la comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza (e sol perché «svolgendosi la riunione in luogo pubblico, è necessario tutelare la sicurezza e l’incolumità pubbliche, sicché tale autorità può predisporre un servizio d’ordine e intervenire, sciogliendo la riunione in corso, quando questa non si svolga più pacificamente, condizione alla quale è subordinato l’esercizio del diritto di riunione, […] o vietare che una riunione in luogo pubblico si svolga quando esistono fondati e comprovati motivi per ritenere che, qualora si svolgesse, ne verrebbe nocumento alla sicurezza o all’incolumità pubblica»: così Tar Lazio, 13 febbraio 2012). Parallelamente, molte sono state le iniziative tese a limitare il diritto di manifestare. Se ne possono ricordare alcune alla rinfusa: il reiterato ricorso a “zone rosse” nelle quali è vietato l’accesso in occasione di eventi potenzialmente generatori di conflitto (è accaduto persino a Taranto in occasione delle manifestazioni che hanno accompagnato il sequestro degli impianti dell’Ilva); le leggi del 2008 e del 2011 con cui le discariche per i rifiuti in Campania e il cantiere per il Tav in Val Susa sono stati definiti «aree di interesse strategico nazionale» con la conseguenza, tra l’altro, che «chiunque […] impedisce o rende più difficoltoso l’accesso autorizzato alle aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale»; le oltre 40 ordinanze prefettizie emesse senza soluzione di continuità dal 2011 ad oggi che, con riferimento alle strade di accesso alla Maddalena di Chiomonte, vietano «fino al venir meno delle preminenti esigenze di ordine pubblico, l’ingresso e lo stazionamento di persone, mezzi e cose estranei allo svolgimento delle previste attività connesse con l’apertura del cantiere»; le ordinanze 17 ottobre e 18 novembre 2011 dell’allora sindaco di Roma Alemanno con cui sono stati vietati per un mese i cortei in città adducendo insuperabili esigenze di traffico (sic!); la proposta, avanzata nel novembre 2011 dal ministro dell’Interno Maroni di trasformare il conflitto sociale in una sorta di attività a pagamento, subordinando le manifestazioni al previo versamento di una somma di denaro a copertura di eventuali danni cagionati nel corso delle stesse.

Ebbene, in occasione della pandemia (e dei cortei organizzati in alcune città da esponenti di diversi movimenti no Vax), il 10 novembre scorso la ministra dell’interno Lamorgese ha emesso una direttiva che imprime a questo processo una accelerazione imponente. La direttiva, stando al titolo, si propone di disciplinare «lo svolgimento di manifestazioni di protesta contro le misure sanitarie in atto» ‒ e già così solleva non pochi dubbi, in particolare per la sua genericità – ma dalla lettura del testo emerge una finalità diversa e ben più ampia. Essa, infatti, attribuisce in via generale ai prefetti la facoltà di vietare lo svolgimento di riunioni e manifestazioni in «specifiche aree urbane sensibili, di particolare interesse per l’ordinato svolgimento della vita della comunità»: cioè, come risulta dal dibattito che l’ha accompagnata, nei centri storici cittadini interessati allo shopping in particolare in periodo prenatalizio. E a ciò si aggiungono due ulteriori circostanze. Anzitutto, non c’è, nella direttiva – come sarebbe doveroso se la sua finalità fosse di carattere “sanitario” – alcuna indicazione sulla necessità che i manifestanti indossino dispositivi di protezione o mantengano l’opportuno distanziamento (cautele ritenute, evidentemente e irresponsabilmente, inutili in periferia, come, del resto, è stato ed è in occasione di eventi e festeggiamenti sportivi…). Ma poi, come se non bastasse, nella parte finale della direttiva si precisa che essa può «trovare applicazione per manifestazioni pubbliche attinenti ad ogni altra tematica». Dunque, decodificando, la direttiva e i connessi divieti non c’entrano nulla con il contenimento della pandemia ma solo con il controllo del territorio e con la gestione dell’ordine pubblico. Con buona pace dell’articolo 17 della Costituzione.

Ci avevano provato in molti – come si è visto – a limitare il diritto a manifestare. Finora con risultati significativi ma limitati. Oggi, grazie alla pandemia, è saltato un tabù e, per di più, senza proteste di sorta.  Superfluo dire che così la democrazia cessa di essere la casa di tutti e assume connotazioni autoritarie e verticistiche che ne sono, in realtà, la negazione.

da Volere la Luna