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intervista alla giornalista Francesca de Carolis sul dramma dell’ergastolo ostativo

Da anni in Italia si chiede l’abolizione dell’ergastolo. Il carcere italiano è fondato sul concetto di rieducazione del detenuto, previsto dall’art. 27 della Costituzione. Ogni pena prevede sconti, agevolazioni e benefici in base all’osservazione del comportamento del condannato e alle sue necessità rieducative. Solo per via dell’esistenza di queste agevolazioni, l’ordinamento giuridico italiano ammette l’ergastolo, legittimo in quanto effettivamente “non perpetuo”.
Eppure il “fine pena mai” esiste. Esistono persone che mai riceveranno in carcere una rieducazione. Sono costrette a scontare il così detto “ergastolo ostativo”. Ostativo, come scrive Adriano Sofri (su La Repubblica del 24 settembre 2012), “vuol dire che per certi reati ritenuti di particolare gravità è esclusa senza riserve l’eventualità che la pena carceraria finisca o si muti in pene alternative: niente permessi, niente lavoro esterno, niente riduzioni di pena per buona condotta”.
A spiegare questa condizione è un libro composto da interventi degli stessi “uomini ombra” come si sono autodefiniti gli ergastolani che hanno accettato di raccontare la propria storia. Il libro si intitola “Urla a bassa voce”, edito da Stampa alternativa e curato da Francesca de Carolis, giornalista Rai, alla quale abbiamo posto qualche domanda sulla questione.
L’ergastolo ostativo nega nella sua natura il concetto di rieducazione dell’individuo condannato, contraddicendo l’art. 27 della Costituzione italiana. Come si spiega l’esistenza di questa pena nel nostro Paese?
L’ergastolo ostativo nasce da un meccanismo prodotto dall’inasprimento delle pene introdotte per combattere la mafia all’inizio degli anni 90. Norme particolarmente restrittive per chi compia reati legati ad associazioni di stampo mafioso. Norma chiave, il 4 bis, che impedisce la concessione di pressoché tutti i benefici previsti dalla legge, per chi è detenuto per reati di associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. A meno che non si scelga di essere “collaboratore di giustizia”. Credo che intanto sia necessario avere presente il momento storico nel quale questa normativa è nata, dopo le stragi nelle quali sono morti il giudice Falcone, Francesca Morvillo, gli agenti della scorta, e poi il giudice Borsellino e i suoi agenti. Un momento “d’emergenza”, in cui si decise di rafforzare le misure da prendere per combattere le grandi organizzazioni criminali. E se queste misure, giuste o non giuste le si considerino, sono rimaste inalterate a distanza di venti anni da quei giorni, credo sia perché il nostro paese rimane “assediato” dalle organizzazioni criminali, una battaglia ancor più difficile da combattere, se gli intrecci di mafia-politica-economia sembrano rafforzarsi, anziché scemare, negli anni. Proprio perché ben più radicate nel tessuto sociale sono le organizzazioni di stampo mafioso, non ci si è accontentati della “dissociazione” del detenuto, per dimostrare il distacco dall’organizzazione di appartenenza, ma si è chiesto un atto più radicale: il collaborare.


Collaborare, dunque, per dimostrare di essere pentiti?

Ecco, questo è il punto. Noi parliamo genericamente di pentiti, ma questo significa fare confusione, non aiuta a capire. Premesso che non si nega che i “collaboratori di giustizia” abbiano avuto un ruolo importante per combattere le organizzazioni di stampo mafioso, decidere di essere “collaboratore di giustizia”, significa fare una scelta processuale, che non necessariamente indica un “pentimento”, inteso come atteggiamento morale che nasce da un percorso di riflessione che è anche intimo. Mentre ci sono molti motivi (e nel libro ognuno lo spiega) per cui una persona può decidere di non collaborare: la paura di vendette trasversali, ad esempio, oppure il fatto che non si voglia “mettere in carcere qualcuno al posto mio”, oppure (succede anche questo) che davvero si abbia poco da dire.
Vorrei comunque sottolineare che le persone condannate all’ergastolo di cui stiamo parlando, e di ergastolo ostativo si tratta (quindi condannate a non uscire mai, ma proprio mai dal carcere) sono persone in prigione da quindici, venti, anche più di trent’anni. Quello che chiedono è di poter dimostrare che un percorso è stato fatto, di essere cambiati, certo “pentiti” del passato, senza necessariamente fare una scelta processuale (diventare cioè collaboratori di giustizia) che per motivi cui non possiamo non prestare ascolto, non possono fare. Insomma, se è comprensibile che chi decide di collaborare venga premiato, non sembra accettabile che chi non faccia questa scelta abbia di fatto una pena suppletiva.

Quanti sono oggi in Italia gli ergastolani ostativi? Per quali crimini sono condannati?
Non esiste un dato ufficiale. Neppure al Ministero della Giustizia possono dire esattamente quanti siano gli ergastolani ostativi. Perché, una volta che si è condannati per reati ostativi, l’ostatività viene di volta in volta attribuita o meno, in base ad una valutazione della collaboratività o meno della persona, che naturalmente può cambiare nel tempo, ma anche in base alla rilevanza che può assumere nel tempo l’eventuale collaborazione. Recentemente si è parlato di circa 1000, fino a 1200 ergastolani ostativi. Si calcola comunque una cifra che va dai due terzi ai tre quarti delle persone condannate all’ergastolo, che, per la cronaca, al mese di giugno di quest’estate erano 1546.

Per cosa sono condannati?
Per omicidio o reati comunque commessi nell’ambito di associazioni di stampo mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione… Il riferimento è all’articolo 4 bis cui accennavamo prima. Ma tengo a sottolineare che chi volesse trovare nel libro la “storia criminale” di ciascuno, ne rimarrebbe forse deluso. A meno che qualcuno non abbia voluto liberamente riferirsi a reati commessi in passato (e comunque qui c’è anche chi si dichiara innocente), nel libro non viene chiesto a nessuno di “pronunciare” il proprio reato, perché il tentativo è di andare “oltre “: chiedersi e chiedere se, indipendentemente dal reato commesso, abbia senso una pena che non finisce mai, in quale rieducazione si può sperare per una persona alla quale è tolta qualsiasi speranza di riaffacciarsi alla società.
Perché il carcere duro è una soluzione d’emergenza?

Con carcere duro ci riferiamo al regime di 41 bis, norma dell’ordinamento penitenziario che prevede particolari restrizioni: riduzione delle ore d’aria, celle particolari, nessuna attività in comune, restrizione dei colloqui con i familiari, vetri divisori durante i pochi colloqui. Una soluzione d’emergenza per impedire contatti con l’organizzazione criminale d’appartenenza, ma, si accusa, anche un regime vessatorio per “indurre” alla collaborazione. Il pensiero che fosse soluzione d’emergenza, e quindi legato a particolari situazioni e momenti storici, sembra chiaro anche al legislatore, se nel suo progetto l’efficacia di quella norma doveva essere temporanea, limitata a un periodo di tre anni, secondo l’idea originaria. Ma varie proroghe l’hanno lasciata in vigore, fino alla legge che poi l’ha resa definitiva.

E questo credo si spieghi sempre con quello che dicevamo prima, che l’Italia rimane per un verso o per l’altro un paese assediato dalle organizzazioni criminali, con inquietanti zone d’ombra nel mondo della politica e dell’economia… e l’idea trasmessa di un’emergenza costante anestetizza un può…
Ci fa chiudere gli occhi, pensare accettabili violazioni di diritti che accettabili non sono. Ma, a proposito di carcere e di carcere duro, c’è chi ci invita a cominciare a riflettere, a pensare che sicurezza (la nostra) e pena (quella degli altri) non coincidono, non sono la stessa cosa, che ci deve pur essere un modo per impedire i contatti di chi è pericoloso con l’associazione di appartenenza senza violarne la dignità. Perché non si può educare alla legalità con strumenti illegali, e il sistema carcerario italiano, così com’è adesso in Italia “è” illegale. E questo vale per tutti.

In un capitolo del libro gli ergastolani parlano della speranza che si possa pensare ad alternative all’ergastolo ostativo. Quali sono e quanto sono ipotizzabili?
Di cosa parlano… Premesso che una delle cose che colpisce è che nessuno, ma proprio nessuno, tranne ovviamente chi si dichiara innocente (e pure questo è legittimo) dice di non dovere scontare una pena, quello che si chiede è la definizione di un tempo che non sia una pena da scontare fino alla morte (perché questo, ripeto, è l’ergastolo ostativo), senza i normali benefici ai quali i “normali ” ergastolani pure posso accedere. Le alternative? Rimando alle pagine del libro: “preferirei spazzare le strade della mia città piuttosto che stare qui a rispondere a queste domande”, “lavorare per la famiglia della vittima”, “avere la possibilità di spiegare ai giovani che si trovassero nelle condizioni in cui mi sono trovato da giovane quali sono le strade da non prendere. Chi meglio di me potrebbe insegnare…”. Insomma la richiesta è di avere la possibilità di essere messi alla prova, di riallacciare un rapporto con la società.
Certo non è facile, ma da qualche parte bisogna pur partire, e bisogna partire da un lavoro culturale, lavorando soprattutto su noi stessi perché nessuno sia respinto nel nulla… ( chi lo ha detto?) . Qualche sera fa, ad un seminario su “Ergastolo e democrazia” ( ma il titolo vero sarebbe potuto essere “Ergastolo versus Democrazia”) , Gherardo Colombo ha fra l’altro detto che bisogna parlare, parlare e discutere con chi è a favore dell’ergastolo, perché la resistenza dipende “non tanto dalla diversità dell’altro, ma dall’incertezza di sé stessi… e mette in crisi riconoscere chi è condannato all’ergastolo perché significherebbe riconoscerlo simile a noi … e questo ci terrorizza…”.
La strada non è semplice ma da qualche parte bisogna cominciare. E cominciare a pensare a costruire una giustizia informata non più al criterio restituivo, restituisco il male con altrettanto male, che è quello che succede adesso; ma bisogna pensare a forme di giustizia riparativa, e perché ci sia riparazione è necessario riaprire la relazione con la società. Consapevoli, certo, che al dolore profondo di chi è vittima, di chi non c’è più, non c’è rimedio, ma comprendendo anche che una giustizia che si fa vendetta non serve a nessuno e tradisce tutti noi.

Come viene effettuata la valutazione della pericolosità sociale delle persone detenute al fine di concedere permessi e benefici extracarcerari? Chi la effettua? E quale probabilità ha un ergastolano ostativo di ottenerne?

Molto sintetizzando, la valutazione viene fatta sulla base della relazione periodica ( non superiore a un anno) prodotta dal Gruppo trattamentale (educatori, psicologi , direzione del carcere e commissari) che viene trasmessa al Giudice di Sorveglianza. La decisione è del Giudice di Sorveglianza. Ma i percorsi sono lunghi e non semplici. Va anche considerato il fatto che in Italia ci sono solo 173 Magistrati di Sorveglianza da cui passa tutto ( tutte le richieste, da quelle minime come ad esempio i reclami per le docce fino ai benefici più ampi e importanti come permessi e semilibertà) per quanto riguarda gli oltre 60.000 carcerati italiani, ergastolani e non. Un confronto di numeri che si commenta da solo.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, l’ergastolano ostativo per definizione, possiamo dire, non ha alcuna possibilità di ottenere benefici a meno che, per le leggi di cui abbiamo parlato, non scelga di essere “collaboratore di giustizia”. Oppure può accadere che gli venga riconosciuta la “collaborazione irrilevante”. Quello che è successo, ho saputo recentemente, a Pino Reitano, una delle persone che hanno testimoniato la loro vita nelle pagine di “Urla a bassa voce”. Reitano è in carcere dal ’91, da qualche mese non è più “ostativo”, dopo che il Magistrato di Sorveglianza, rispondendo ad una sua richiesta, e dopo aver esaminato tutti i fascicoli, gli ha riconosciuto la “collaborazione irrilevante”, che significa in sostanza che nulla può più dire per chiarire i fatti alla cui conoscenza si chiedeva di collaborare, che questi sono diventati chiari e definitivi, anche per tutt’altre strade, quindi, indipendentemente dalla buona condotta magari tenuta in carcere, dal percorso rieducativo seguito… Legittimo chiedersi che percorso, che giustizia è mai questa.

Cos’è la “famiglia carcere”?
La “famiglia carcere”… termine usato in senso anche un po’ ironico, amaramente ironico nel libro. Bisognerebbe trascorrere un periodo in prigione, credo, per capire che significa recidere di fatto completamente i rapporti con la propria famiglia. Posso immaginare sia la rete di relazioni che comunque capita che in carcere si possano stringere. Una “famiglia” forzosa, dalle dinamiche non facili, ma dove, e questo le testimonianze degli ergastolani che si raccontano nel libro sommessamente lo suggeriscono, è possibile trovare tracce di umanità che noi, da fuori, vogliamo perduta.

Anche la condizione di chi gestisce e amministra le carceri è critica. Quali sono i pericoli cui costoro sono esposti?
Certo, nonostante i giudizi anche duri che nel libro vengono dati, quello che si comprende è che anche chi lavora nel carcere fa in qualche modo la vita del carcerato. Tutti, in qualche modo diventano carcere. E il numero dei suicidi degli agenti carcerari, 80 in dieci anni, ne sono buona prova. Ricevo spesso i comunicati dei sindacati degli agenti penitenziari… ebbene denunciano sempre mancanza di personale, condizioni impossibili di lavoro, il sovraffollamento, l’amarezza dei comunicati che registrano le morti in carcere. E vorrei comunque ricordare che il numero dei detenuti morti in carcere quest’anno a metà agosto era 100. Sono 2.033 negli ultimi 12 anni, e di questi un terzo sono suicidi. I dati sono dell’Osservatorio Permanente sulle morti in carcere, che ha sottolineato come il numero dei morti in carcere è praticamente pari a quello delle vittime delle varie mafie e della criminalità comune sommate insieme. Ci dice nulla questo dato?


Nel libro si parla molto di perdono. Ma quale perdono, cos’è il perdono?
Il perdono… Noi forse istintivamente pensiamo al perdono del linguaggio devoto inteso come remissione di peccati, e quindi trasferito in terreno “laico” sembra diventare cancellazione della colpa. Ma il perdono che chiedono gli ergastolani che intervengono nel libro è quella disponibilità, quell’apertura verso l’altro che permette la riapertura di relazioni, che non cancella la colpa, ma rinunciando alla vendetta aiuta a ritrovare la strada dell’umanità comune. Insomma, quel non essere respinti nel nulla di cui si parlava prima.
Toni Castellano da www.gruppoabele.org