L’autoritarismo che avanza, anche in Italia, va ben oltre la preoccupazione
di Fabio Marcelli da Comune- Info
Reduce dalla Turchia, un Paese dove l’avvitamento repressivo è palese e dura da molti anni, mi fa una certa impressione constatare quanto la situazione dei diritti e delle libertà in Italia sia peggiorata a vista d’occhio nei soli sette giorni della mia assenza.
In Turchia si continuano a mettere in galera con motivazioni pretestuose avvocati, giudici, intellettuali, sindacalisti, parlamentari e leader sociali. Sta in galera in totale isolamento da oltre venticinque anni la persona che più di ogni altra potrebbe contribuire alla pace e alla democrazia nel Paese, e cioè il leader kurdo Abdullah Ocalan. La guerra imperversa ai confini sudorientali, colle Forze armate proiettate a distruggere ogni esperimento di democrazia multietnica, che pure sarebbe prezioso per tutto il Medio Oriente e il mondo intero. Erdogan, che pure ha preso posizione in termini abbastanza condivisibili a favore della resistenza palestinese (anche per le sue innegabili affinità ideologiche con Hamas), continua a massacrare la resistenza kurda. Confermato per pochi voti alle recenti elezioni presidenziali di maggio, il presidente in carica guida un Paese in forte crisi economica, politica e istituzionale. Cerca di vendersi come mediatore ed uomo di pace all’estero, ma appare ancora lungi dal raggiungimento di un’autentica pace all’interno dei suoi confini, che si potrà ottenere solo con un patto di rifondazione della Turchia, esteso a tutti i suoi popoli costituenti, la liberazione di tutti i prigionieri politici e la fine dell’arbitrio delle forze repressive. Si registra inoltre una vera e propria crisi istituzionale di notevole gravità, dopo il rifiuto della Corte di cassazione di accordare la doverosa immunità parlamentare ad alcuni deputati perseguitati per reati di opinione.
La mia visita alle carceri speciali di Edirne e Kandira mi ha consentito di parlare brevemente con l’avvocato Aytaç Ŭnsal, che conosco da vari anni ed è stato protagonista con Ebru Timtik, poi morta a seguito dello stesso, dello sciopero della fame per il processo giusto, che fortunatamente ha interrotto in tempo, e con l’avvocata Aycan Cicek.
Sono stato lieto di constatare che entrambi stanno in salute e grande forma sia materiale che spirituale. Però continuano a soffrire per le condizioni di isolamento e vorrebbero avere maggiori livelli di socialità e un numero maggiore di libri, giornali e riviste, possibilmente non solo in turco. Richieste che ci impegniamo a sostenere colla delegazione di oltre trenta avvocati provenienti da vari Paesi europei che ha visitato il Paese, le sue carceri e i suoi tribunali per circa una settimana. La solidarietà internazionale è davvero di grande importanza per gli avvocati e tutti i settori assoggettati alla repressione.
E in Italia? Subito dopo il mio ritorno sono stato colpito da tre notizie, ovviamente di spessore e portata differente, ma che tutte e tre dimostrano come siamo su di una pericolosa china autoritaria.
La prima riguarda il progetto di premierato portato avanti con convinzione e fermezza da Giorgia Meloni. Si tratta di una vera e propria ossessione dei governanti degli ultimi decenni. Com’è noto in precedenza ci avevano provato con scarsa fortuna Berlusconi e Renzi. Se è vero che non c’è due senza tre, occorre augurarsi che anche la grintosa postfascista si infranga sugli scogli della volontà popolare, ma non sarà una battaglia facile, anche e soprattutto per l’evanescenza dell’opposizione parlamentare, che vede la presenza di vari infiltrati, specie nelle file del PD.
La seconda riguarda la sfida di Salvini ai sindacati, colla precettazione di coloro che intendono scioperare il 17 novembre. E’ evidente come costui sia impegnato in una lotta all’ultimo sangue colla Meloni, da cui derivano tutte le sue scomposte agitazioni su questo come su altri temi. La gara a chi è più repressivo si inserisce bene nel contesto di un Paese complessivamente allo sbando e che da tempo ha perso la sua bussola non solo costituzionale ma anche istituzionale lato sensu. La guerra nei confronti di lavoratrici e lavoratori costituisce un asse programmatico condiviso dell’attuale governo, espressione più che altro di settori sociali parassitari, caratterizzati da comportamenti asociali come l’evasione fiscale o peggio.
Last but not least, la vera e propria montatura giornalistica, con possibili addentellati di ordine disciplinare, nei confronti di un professore di un liceo romano, considerato colpevole di aver discusso la situazione di Gaza coi suoi studenti, fornendone un quadro completo ed imparziale.
Episodio, quest’ultimo, di particolare gravità, perché ben si inserisce nel sussulto bellicista che vede il nostro disgraziato Paese in pole position tra i promotori della guerra mondiale a pezzi da tempo annunciata da intellettuali lucidi come Abdullah Ocalan e Papa Francesco.
La militarizzazione della società e dell’economia costituisce a ben vedere un ingrediente fondamentale della cura Meloni. Ma è proprio su questo fronte che dovrebbe essere più netta la risposta, anche alla luce del fatto che gran parte della popolazione italiana continua ad essere schierata su posizioni di stampo nettamente umanitario e pacifista, continuando ad avversare la continuazione della sempre più insensata guerra in Ucraina, come pure l’atroce massacro della popolazione palestinese a Gaza e in Cisgiordania che il governo fasciosionista di Netanyahu continua a perpetrare. E tuttavia è proprio su questo tema che si registrano le maggiori e imperdonabili lacune dell’opposizione parlamentare, specie nella sua maggioritaria componente piddina.
Le elezioni europee potrebbero costituire l’occasione di un rilancio di un’opposizione autentica che proprio dall’opposizione alla guerra potrebbe partire per disegnare quell’Italia alternativa, solidale e fedele al progetto costituzionale della quale abbiamo urgente bisogno. Altrimenti andremo a sbattere in una situazione per certi aspetti assimilabile a quella turca. Popolo avvisato, mezzo salvato.
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