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Kenya: La grande protesta del movimento Gen Z

Le manifestazioni contro chi governa ci sono sempre state in Kenya, ma questa volta sono oceaniche e promosse da giovani, che non cercano il sostegno dei partiti e non vogliono leader. Il presidente Ruto ha ritirato la legge finanziaria, il movimento non si fida

di Ettore Marangi da Comune-info

In Kenya sta accadendo qualcosa di unico. Tutto è cominciato mentre il suo presidente, William Ruto, veniva accolto con tutti gli onori al G7 in Puglia: nelle strade di Nairobi è scoppiata la protesta per la nuova finanziaria (“Finance bill 2024”, legge pensata per rafforzare la situazione finanziaria in vista di nuovi prestiti del Fondo monetario internazionale). Cosa ci sarebbe di straordinario? Ogni anno in Kenya ci sono contestazioni violente che arrivano a minacciare la stabilità delle istituzioni. Questa volta non siamo di fronte a un movimento violento caratterizzato dalle divisioni tribali. Questa volta, malgrado i grandi media europei continuino a parlare per lo più di guerriglia urbana, si tratta di manifestazioni nonviolente nelle quali partecipano giovani di tutti i gruppi etnici appartenenti al ceto medio, giovani perfettamente consapevoli che le nuove tasse ruberanno loro il futuro. La società kenyana è fortemente stratificata, le nuove tasse vanno a incidere sui beni di prima necessità.

Comunque non sono soltanto consapevolezza, assenza di violenza e superamento delle tribalismo a fare di queste contestazioni qualcosa di (post)moderno, c’è anche l’assenza di motivazioni religiose. Ultimamente Chiese e Governo hanno camminato mano nella mano, ma questi giovani appartengono a quella generazione che ha cominciato, anche in Africa, a disertare le chiese lamentando il loro silenzio, rotto solo da pochi.

I giovani kenyani hanno disertato le elezioni perché non credono nella politica istituzionale e oggi gridano contro quelle politiche economiche che rendono i ricchi sempre più ricchi. Hanno capito perfettamente che la differenza radicale non è tra essere di una tribù o un altra, essere cristiani o musulmani. Del resto qui come altrove le chiese sono in gran parte istituzioni antiche che conservano molteplici relazioni con i poteri costituiti. Qualche giorno fa mentre la polizia caricava i giovani del movimento di protesta (Gen Z), questi cercavano rifugio nella Cattedrale di Nairobi, ma quelli della Cattedrale si sono rifiutati di farli entrare. La chiesa cattolica, allora, ha capito che rischiava di diventare impopolare per tutto il paese: per rimediare, domenica scorsa è stata costretta a concedere a una delegazione di giovani di lanciare un messaggio dopo la messa in Cattedrale.

Le manifestazioni sono ancora condotte senza la leadership di partiti politici: i giovani sanno che non bisogna consentire a nessuno di utilizzare le loro proteste per conquistare il potere. Sanno anche che non si tratta di cambiare il presidente Ruto, per quello ci sono le elezioni, si tratta di far sentire forte la propria voce perché nasca una nuova cultura politica. Ma c’è anche chi desidera un colpo di stato.

Un’altra novità assoluta di questa protesta, che sta coinvolgendo diverse generazioni di giovani me anche tante mamme – che, ad esempio, armate di bottiglie d’acqua vanno in soccorso dei giovani colpiti dai gas lacrimogeni – è il fatto di essere portata avanti da studenti e studentesse che si sono formati nelle università pubbliche.

È evidente che le centinai di migliaia di persone che marciano non possono essere tutte dei gandhiani convinti ed esperti, è chiaro anche che ci sono alcuni gruppi di criminali approfittano di questa situazione per colpire specialmente i centri commerciali. Un dato fa pensare: tra le oltre venti persone uccise non ci sono stati uomini delle forze dell’ordine (per il quotidiano keniano The Nation sono più di cinquanta!). È la polizia ad aver sparato con proiettili veri, come denunciano alcune ong, tra cui la sezione keniana di Amnesty international. Ma è stato un passo falso: questi keniani uccisi rischiano di essere più pericolosi da morti che da vivi.

Le manifestazioni si realizzano in continuazione, spesso sono improvvisate, al suono di canti kenyani: non solo l’inno nazionale (Tujiangalie, Utawala) ma anche canti ispirati alla lotta contro l’apartheid in Sud Africa (Freedom is coming tomorrow, Safa, saphelisizw’esimnyama, che significa “Oh, stiamo morendo e la nazione nera sta sperendo”) o alla Bibbia (Zakayo Shuka). C’è anche qualcuno che canta Bella Ciao.

Se tutto il paese è in subbuglio perché ci sono un milione di persone per strada, è chiaro che approvare in questo momento la legge finanziaria sarebbe soltanto una provocazione. Insomma, dall’altro non hanno dato alcun segnale di distensione, almeno fino a mercoledì 26 giugno quando il presidente ha detto di voler ritirare la contestata legge finanziaria. La maggior dei giovani non si fida, lui ne esce molto indebolito. In ogni caso è una prima grande vittoria della protesta.

Non si sa cosa accadrà nei prossimi giorni: c’è molta rabbia per la violenza utilizzata dalle forze dell’ordine, preoccupano anche le prime inevitabili divergenze nel movimento in cui l’ala nonviolenta rischia di perdere il controllo.

Certo, è un’illusione aspettarsi che questo movimento cambi dall’oggi al domani la dura situazione del Kenya, tuttavia si tratta di un punto di non ritorno: d’ora in poi non sarà più possibile per la vecchia classe dirigente manipolare facilmente le masse, è scoppiato una sorta di illuminismo tutto africano. Chissà se questo movimento riuscirà a coinvolgere i giovani che vivono nelle baraccopoli, la cui consapevolezza di quanto accade resta limitata.

Fernand Braudel, più di altri, ha mostrato come i cambiamenti storici che trasformano in profondità la società non si realizzano attraverso capovolgimenti repentini, ma sono il frutto di cambiamenti quasi impercettibili che si susseguono in tempi lunghi. Questo grande movimento in strada è la punta di un iceberg fatto di proteste e cambiamenti poco visibili a coloro che sono in alto.

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