I sovraffollati istituti di pena italiani vedono il 37% dei detenuti in carcere per reati di droga. A questo va aggiunto che oltre un quarto della popolazione carceraria (circa 13.500 persone) ha problemi di dipendenza patologica da sostanze.
Il 23 febbraio scorso si è tenuto a Roma – voluto da Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini-Cri, in collaborazione con il Centro europeo studi penitenziari, l’Associazione italiana giovani avvocati e la Federazione italiana per i diritti umani – il convegno «La dipendenza patologica da sostanze, tra misure restrittive e strategie di recupero». In quell’occasione, il senatore Francesco Paolo Sisto, viceministro alla Giustizia, ha auspicato una
«riflessione su come riconnettere il mondo della sanità con quello delle carceri soprattutto sul tema delle dipendenze patologiche da sostanze. Bisogna essere in grado di motivare il soggetto al recupero perché senza il suo consenso non si potrà fare nulla […]. Dobbiamo far sì che il tossicodipendente, che è finito a commettere un reato, abbia la possibilità di essere recuperato, per tornare, dopo l’esperienza esecutiva della pena, migliore. Sarebbe invece grave se rimanesse uguale, o peggio, potesse finire per essere peggiore di quando è entrato in carcere».
Secondo gli ultimi dati (febbraio 2023) citati dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, a fronte di una capienza regolare di 51.285 posti, sono 56.319 i detenuti reclusi:
«Il sovraffollamento carcerario è risolvibile solo affrontando il problema delle dipendenze. Se poi si aggiunge che la legge di riferimento attuale è il Dpr del 1990, in cui si indica che i tossicodipendenti dovrebbero stare in istituti idonei per programmi terapeutici e di riabilitazione, è chiaro che il sistema non funziona. Quella era l’epoca in cui si riteneva che lo Stato potesse fare tutto, e quindi si immaginarono strutture apposite che non sono mai state create. Intanto con diverse riforme abbiamo perso la sanità penitenziaria e quindi, per attivare quel tipo di strutture, bisognerebbe attingere ai sanitari regionali. E oggi già siamo in difficoltà per i detenuti psichiatrici» (intervista rilasciata a «Il Messaggero», 12.3.2023).
Sotto il profilo giuridico, Delmastro ipotizza che non sia più il giudice di sorveglianza a convertire l’esecuzione della pena definitiva in una comunità di recupero, bensì direttamente quello del dibattimento, aprendo a considerazioni multi-paradigmatiche.
Per chi deve scontare pene fino a sei anni, l’affidamento in prova nelle comunità esiste già (art. 94 del Dpr 309/90). L’eziopatogenesi multi-fattoriale del consumo di sostanze come malattia non può prescindere da una diagnosi e da un trattamento terapeutico che, secondo indicazioni ministeriali, è «integrato», ossia medico e psico-sociale. Il non auspicabile ma sempre possibile fallimento dell’affidamento in prova in una struttura residenziale – ricaduta nell’uso, evasione ecc. – che cosa comporterebbe? Nuovamente il carcere?
Il 13 marzo il sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega alle Politiche antidroga, Alfredo Mantovano, è intervenuto a Vienna in occasione della sessione della Commissione stupefacenti delle Nazioni unite, ricordando che l’Italia a fine dicembre ha assunto la presidenza del Gruppo Pompidou, che manterrà fino al 2025. In occasione della diciottesima Conferenza ministeriale, tenutasi a Lisbona, i ministri e gli altri partecipanti hanno confermato il loro impegno per un approccio incentrato sui diritti umani, da abbinare a strategie per affrontare le dipendenze legate all’uso delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione. La presidenza italiana ha evidenziato le seguenti priorità: approfondire il rapporto già esistente con ciascuno degli Stati membri, conoscendo la realtà di ogni Stato e incrementando lo scambio di esperienze, modelli e buone pratiche; dare priorità alla prevenzione, da accompagnare con l’attenzione al trattamento e al recupero; ridurre sia la domanda sia l’offerta, combattendo il traffico di droga e la criminalità organizzata; garantire a tutti il diritto alla salute; cercare un giusto equilibrio tra libertà e responsabilità, a livello sia individuale sia statale.
Fallite le politiche della «guerra alla droga» e della «tolleranza zero», prodromica rispetto alla necessaria revisione della legislazione sugli stupefacenti e conseguente alla rimodulazione del regime sanzionatorio previsto per i reati in materia è la depenalizzazione dell’uso personale – ad oggi ancora illecito amministrativo –, magari attingendo da modelli più virtuosi come quello portoghese, ripensando le sanzioni e circoscrivendo l’area della rilevanza penale di fenomeni collaterali al consumo.
Sarebbe opportuno evitare la custodia in fase cautelare, implementare gli arresti domiciliari per ragioni terapeutiche, rimodulare la casistica dei reati caratterizzati da una presunzione, relativa, di pericolosità ai sensi dell’art. 275, co. 3, c.p.p. e della reale offensività del reato commesso. Inoltre, come suggerito dai tavoli degli Stati generali sull’esecuzione penale avviati 2015-2016 e, passando per i lavori della VI Conferenza nazionale dipendenze di Genova del 2021, dai tavoli degli esperti del Piano di azione nazionale dipendenze 2022-2025, andrebbero create specifiche unità trattamentali dedicate alla presa in carico dei soggetti alcool- e tossicodipendenti autori di reato, con una collocazione in appositi «spazi dedicati» all’interno dei Tribunali.
Andrebbero create specifiche unità trattamentali dedicate alla presa in carico dei soggetti con dipendenze da alcool e tossicodipendenti autori di reato, con una collocazione in appositi “spazi dedicati” all’interno dei Tribunali
Il lavoro, in tal caso, vedrebbe una più agevole sinergia tra autorità giudiziaria e unità operative per le dipendenze già operanti presso gli istituti penitenziari e sul territorio (certificazione di dipendenza patologica, programmi terapeutici ecc.).
Tutto ciò comporterebbe il potenziamento dei Servizi socio-sanitari dedicati (Ser.D. e privato sociale accreditato) e l’implementazione degli organici della Giustizia, prevedendo così misure alternative alla detenzione che non siano semplicisticamente l’immobilizzazione in contesti altri – in alcuni casi troppo simili alla detenzione comune.
Ė ormai d’obbligo pensare a «programmi di reintegrazione sociale» che non abbiano un tetto limite di pena, previsto per l’affidamento in casi particolari, come avviene oggi – i già citati sei anni. Rispetto all’ipotesi generale di cui all’articolo 168-bis c.p., potrebbero essere previsti un più elevato limite massimo edittale di pena, la necessaria connessione tra il reato e la condizione di dipendenza, il divieto di concessione della sospensione per più di due volte.
Dirimente è poi l’individuazione di linee guida condivise a livello nazionale circa i criteri per la valutazione dello stato di dipendenza e la conseguente certificazione, finalizzate a distinguere il problema salute dalla condotta deviante. Non meno importante è il potenziamento nel contesto detentivo di percorsi terapeutici, di contrazione della recidiva, di riduzione del danno (overdose, Hiv, ecc.) come, peraltro, da linee guida internazionali.
I Ser.D. dovrebbero mantenere la titolarità circa la certificazione – l’individuazione e la diagnosi dello stato di tossicodipendenza, nonostante la cancellazione della legge n. 49 del 2006, appaiono ancora troppo legate ad aspetti biomedici e molto meno alle pur necessarie valutazioni di tipo psico-socio-educativo – e l’invio in comunità, restando il trait d’union tra persona, magistratura di sorveglianza, Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) e privato sociale accreditato.
Non si può ignorare il disposto dell’art. 32 che recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Parimenti, non si può misconoscere che l’Organizzazione mondiale della sanità definisce la dipendenza patologica una malattia cronica e recidivante.
Non è più possibile sorvolare sulla volontà della persona ignorandone la voce e la possibilità di un’autodeterminazione differente da quella attesa, socialmente accettabile, condivisibile, e non comprendere che l’istanza di sicurezza, la pena, il trattamento e la cura necessitano di approcci differenti perché si muovono entro alvei diversi.
Bisogna capire che non può esserci recupero/riabilitazione/reinserimento senza rispetto per la persona
Bisogna capire che non può esserci recupero/riabilitazione/reinserimento senza rispetto per la persona; non si può pensare di riconoscere all’altro dignità solo se il suo agire corrisponde all’aspettativa comune. Ė improponibile sostenere che l’invio in comunità terapeutica rappresenti l’unica l’alternativa al carcere, incoraggiata a oltranza come se fosse una panacea. I dati circa le interruzioni non concordate e le ricadute nel consumo, a disposizione dei servizi pubblici, smentiscono questa sorta di messianica visione del trattamento residenziale.
Non si può scaricare sul Servizio sanitario nazionale il peso economico di una spesa che lieviterebbe senza garanzie di risultati accettabili per la sola ragione di alleggerire il carico degli istituti di pena, a meno che non si voglia favorire una privatizzazione che non si sa bene a quali criteri dovrebbe rispondere, considerato che ad oggi ci sono regioni in cui le strutture del settore attendono l’accreditamento istituzionale.
La pedissequa esecuzione procedurale, preferita all’assessment di salute, l’impulso a rendere le regole sempre più precise, delimitando l’ambito delle possibili interpretazioni e rendendo le decisioni – che dovrebbero essere assunte caso per caso – certe e prevedibili non rappresenta una risorsa ma un limite a ciò che non dovrebbe prescindere dalla centralità della persona e del suo percorso.
L’assenza di dubbi potrà appartenere al mondo delle procedure e della detenzione, non certo a quello della salute. Se solo avessimo la volontà di andare a rivedere quanto elaborato dai tavoli degli esperti negli anni e avessimo l’umiltà di ascoltare i diretti interessati e gli stakeholders, le soluzioni non dovremmo cercarle chissà dove, ricominciando ogni volta tutto da capo.