La permanenza dell’ambasciatore italiano in Egitto risponde a politiche e logiche distanti da quelle che dovrebbe perseguire un Paese sovrano, e democratico come l’Italia. A quattro anni dall’assassinio di Giulio Regeni, la questione viene riproposta con forza dai suoi genitori durante un’audizione in Commissione parlamentare d’inchiesta: «L’ambasciatore italiano al Cairo, Giampaolo Cantini, da molto tempo non ci risponde, evidentemente persegue altri obiettivi rispetto a verità e giustizia, mentre porta avanti con successo iniziative su affari e scambi commerciali tra i due Paesi», denuncia Claudio Regeni ascoltato ieri, insieme alla moglie Paola Deffendi e alla loro avvocata Alessandra Ballerini, dalla Commissione bicamerale creata ad hoc per fare luce sulla morte del giovane ricercatore friulano rapito il 25 gennaio 2016 nei pressi della propria abitazione al Cairo e ritrovato cadavere orrendamente torturato il 3 febbraio successivo nei pressi di una prigione dei servizi segreti egiziani.
I DUE CONIUGI – che hanno appena dato alle stampe per Feltrinelli il loro racconto di questi quattro anni nel libro Giulio fa cose – parlano espressamente di responsabilità congiunte: «Ci sono zone grigie sia dal governo egiziano, che è recalcitrante e non collabora come dovrebbe, ed anche da parte italiana, che non ha ancora ritirato il nostro ambasciatore al Cairo», come chiedono da tempo. E, sottolinea Paola Deffendi, la scelta compiuta in pieno Ferragosto 2017 dall’allora ministro degli Esteri Angelino Alfano di rinviare il nuovo ambasciatore, dopo che Maurizio Massari era stato richiamato nell’aprile 2016, è stata «una fuffa velenosa».
I Regeni raccontano tutti gli incontri istituzionali avuti: il 7 marzo 2016 l’allora premier Matteo Renzi li volle incontrare «senza legali, cosa che oggi non faremmo più. Quella volta l’emotività e il desiderio di muovere le cose ci fece accettare di andare senza. Fu una cosa strana». Era la prima volta che si vedevano, ma a luglio poi «ci fu un nuovo incontro in cui Renzi ci fa un discorso come se fossero già in Italia i famosi video della sorveglianza della metro», quelli che la procura di Roma chiese invano per mesi e ottenne solo due anni dopo, nel maggio 2018. Allora, invece, «ci venne detto come se quei video fossero stati già visti. Noi restammo basiti». Poi fu la volta del premier Paolo Gentiloni «che il 20 marzo 2017 voleva convincerci che prima o poi sarebbe stato il caso di rimandare l’ambasciatore al Cairo».
E fino ai giorni nostri: il 6 ottobre scorso il ministro Luigi Di Maio disse loro che «se entro il 28 novembre non ci sono novità nella collaborazione alle indagini, ritiriamo l’ambasciatore. Prima della scadenza, con una lettera maleducata il nuovo procuratore egiziano annuncia che ci sarà un incontro quando sarà nominato il procuratore di Roma, bypassando il titolare delle indagini Sergio Colaiocco».
AI MEMBRI dell’organismo presieduto da Erasmo Palazzotto (Leu) che a metà dicembre scorso hanno sentito raccontare della mancata collaborazione egiziana anche dai procuratori di Roma Colaiocco e Prestipino, i signori Regeni riferiscono poi che negli stessi giorni in cui Giulio era nelle mani dei suoi aguzzini, «tra il 25 gennaio e il 4 febbraio 2016, era presente al Cairo il direttore dell’Aise (il servizio segreto per l’estero, ndr), Alberto Manenti».
Una presenza che potrebbe aver messo fuoristrada gli apparati del regime di Al Sisi? «Perché è stato ucciso Giulio? – si chiede l’avvocata Ballerini – La ricerca che stava conducendo non è la risposta. Altri facevano ricerche potenzialmente più pericolose della sua. È stato ucciso perché si trovava in un regime paranoico dove tutto può succedere perché non c’è il minimo rispetto per i diritti umani». Perciò, afferma la legale, «l’Italia dovrebbe inserire l’Egitto nella lista dei Paesi non sicuri: lì 3-4 persone ogni giorno fanno la fine di Giulio».
D’ALTRONDE «è evidente – continua Ballerini – che Giulio è stato preso dagli apparati egiziani, tanto che Massari si attivò parlando con il ministro degli Interni e le stazioni di polizia. Perché, ce lo hanno ribadito altre persone, Giulio non è il primo italiano preso: è il primo che viene torturato e ucciso, ma altri italiani sono stati presi, e in un caso uno è stato molto maltrattato. Per questo motivo – ha sostenuto il legale – Massari ha usato una strategia sotto traccia, una strategia già collaudata nel tempo e funzionante per altri casi di italiani». Quanto ai nostri connazionali arrestati e poi rilasciati, «sono così terrorizzati che non parlano. Uno ci ha contattato, pentito per non aver parlato perché ci ha detto che magari si sarebbe saputo che l’Egitto non è un Paese sicuro». E ancora: «Siamo costantemente spiati dagli egiziani, ho presentato un esposto alla procura di Genova», ha aggiunto Ballerini. «Tempo fa ho comunicato al telefono con i nostri consulenti e loro sono stati subito chiamati a riferire dal commissariato di Doki. Le nostre telefonate vengono ascoltate e ancora adesso ai convegni in Italia c’è qualche egiziano che fotografa i presenti».
FATTI GIÀ DENUNCIATI più volte pubblicamente dalla famiglia Regeni ma che in questa cornice istituzionale assumono una rilevanza speciale. Palazzotto però, rispondendo ai giornalisti, non entra nel merito delle richieste dei genitori di Giulio: «Non spetta a me discutere dei rapporti diplomatici tra Italia e Egitto. Penso che la famiglia abbia la legittimità di chiedere alle istituzioni atti concreti e forti che restituiscano autorevolezza al nostro Paese nel rivendicare la cooperazione che finora non c’è stata da parte dell’Egitto». Nel frattempo, alla Camera il presidente Roberto Fico ha incontrato Ahmed Abdallah, consulente della famiglia Regeni al Cairo. L’incontro, ha scritto l’esponente 5 Stelle su Facebook, «è servito per fare un punto sullo stato delle indagini, ma anche sulla situazione e sulle preoccupazioni dell’associazione di cui fa parte Abdallah, l’Ecrf, che in questi anni in un contesto difficile ha fornito un contributo coraggioso nella ricerca della verità». Piccoli movimenti, per non lasciare Giulio da solo a fare cose.
Eleonora Martini
da il manifesto