La disperazione dei respinti, nel caos alle frontiere chiuse d’Europa
Pagano per arrivare. E devono pagare pure per essere respinti indietro. Dopo dieci ore di viaggio. Senza pause o conforto. Ecco cosa sta accadendo al valico fra Grecia e Macedonia ogni giorno da più di due mesi. Sotto lo sguardo indifferente delle autorità. E i guadagni per i privati
I volontari continuano a ripetere: “assurdo”, “surreale”, “una follia”. Non sanno come altrimenti descrivere quello che sta accadendo da due mesi a Idomeni, villaggio di confine fra Grecia e Macedonia, valico piano per superare la frontiera e iniziare la rotta verso la Germania, e per questo scelto da centinaia di migliaia di profughi sbarcati nelle isole egee dall’inizio dell’anno. Dal 18 novembre il governo macedone ha alzato qui una rete di filo spinato e militari, che filtrano “gli ingressi”, come a uno stadio: solo coloro che arrivano da Siria, Afghanistan e Iraq possono passare. Solo loro hanno il biglietto giusto per iniziare la marcia verso Nord.
Gli altri, tutti gli altri, compresi somali o yemeniti (dove la guerra continua, nonostante sia stata dimenticata dai media ) non hanno alcun diritto riconosciuto, nemmeno quello di fermarsi e riposare. Sono subito rispediti indietro, ad Atene. Ricacciati sui bus privati con i quali sono arrivati, e che devono pagare pure per il rientro forzato. L’Europa? Osserva e accetta, tranquillamente, il caos di Idomeni.
La disperazione emerge, evidente, dalle immagini che pubblichiamo in questa pagina , scattate e filmate pochi giorni fa sul confine. Uomini e donne stravolti, una coperta in testa, uno zaino che è tutto ciò che hanno della vita precedente, fermi diligentemente in coda per farsi “filtrare”. Quindi i bus, con un video che mostra un autista che raccoglie i soldi del biglietto “di ritorno” con protervia. E parole fin troppo chiare: «Se non mi date i contanti vi faccio subito arrestare». La polizia osserva passiva. È tutto in regola, pare.
«È tutto surreale», dice invece Costance Theisen, operatrice di Medici senza Frontiere che si trova sul posto: «Prima i bus arrivava al piazzale, i migranti scendevano e potevano almeno riposare al campo allestito per l’accoglienza». Dopo le proteste di dicembre però, nelle quali alcuni profughi respinti (in quanto non siriani) erano arrivati a cucirsi le labbra in segno di protesta, il campo è stato chiuso.
«Adesso i bus vengono fermati sul percorso, in un posto di blocco a circa venti chilometri da qui», racconta Fani Galatsopoulou dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni: «E solo una vettura alla volta può parcheggiare a ridosso della frontiera. La procedura così è più veloce. In pochi scendono, si mettono in fila, mostrano i documenti – i controlli sono più rigidi – e attraversano il confine, se possono».
Gli altri vengono ricacciati sui bus. «Per arrivare da Atene a Idomeni questi pullman impiegano circa 10 ore. Poi vengono fermati, e spesso stanno in attesa anche per mezza giornata», denuncia Constance: «Appena scesi, se sono pakistani, iraniani, o di qualunque nazionalità che non rientri nelle tre accettate, sono rispediti indietro per un viaggio altrettanto lungo. Senza pause. Noi cerchiamo di offrire ora un po’ di conforto, visite mediche minime e cibo alla stazione di servizio, ma è un caos».
Per il viaggio, i migranti pagano agli imprenditori privati che si sono buttati nel business di frontiera fra 10 e i 20 euro l’andata. Altrettanti per il rientro. Spendono 40, 35 euro a testa per essere trasportati avanti e indietro come pacchi. «Che ci sia un problema qui è evidente», ammette Fani. Bruxelles aveva promesso di risolvere tutto con i funzionari di Frontex. «Frontex? Li abbiamo aspettati per settimane», raccontano gli operatori sul campo: «Un giorno sono venuti due funzionari, hanno fatto una visita di qualche ora e poi via. Mai più visti o sentiti». Intanto i pullman continuano a raccattare disperati a Kavala, ad Atene, al Pireo, senza informarli del passaggio bloccato. E ancora adesso fra il 16 e il 30 per cento di quanti arrivano fino a Idomeni sono ricacciati indietro.
Dove? «Ad Atene l’unico riferimento istituzionale è il campo d’accoglienza allestito nello stadio», spiega Constance: «Dove però le condizioni umanitarie non sono buone e i posti limitati. Chi non entra semplicemente sparisce». Siriani, afghani e iracheni hanno infatti un permesso, dato allo sbarco, che è valido sei mesi. Per loro la strada verso l’Europa del Nord resta impervia ma possibile. Chi sopravvive ai naufragi nel piccolo braccio di mare fra Turchia e isole Egee può sperare.
Somali, iraniani, pakistani e yemeniti invece ricevono un documento che vale soltanto 30 giorni in Grecia. Possono fare richiesta d’asilo lì, certo, ma se non vogliono aspettare ad Atene il giudizio sul loro stato devono trovare autonomamente un modo per “scappare”. Da clandestini. Anche perché non tutti possono fare richiesta di rientrare vista la situazione a casa loro: come un paradosso, la Somalia, ad esempio, non è considerata un “paese sicuro”. I suoi abitanti quindi a rischio, non possono chiedere il rimpatrio volontario. E restano sospesi in un limbo. «Ora in molti si stanno avviando anche sulla tratta più impervia che passa dall’Albania, ma avranno gli stessi problemi: non li faranno entrare», spiega Galatsopoulou.
Le frontiere sono chiuse. E per alcuni ancora più chiuse che per altri. «Adesso agli illegali si è aggiunto un gruppo considerato ancora più illegale», racconta Theisen: «I migranti del Magreb. A loro non viene nemmeno dato il permesso di 30 giorni, quando arrivano. Per loro l’unica strada indicata è il rimpatrio. Oppure la detenzione immediata». Benvenuti in Europa
Francesca Sironi da L’Espresso