La follia di una legge senza grazia e perdono
- giugno 15, 2020
- in amnistia, carcere, indulto, riflessioni
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C’è la logica evangelica alla base degli atti di clemenza, quella della parabola del figliol prodigo. Ma la clemenza legislativa ha smarrito da tempo questa sua origine. E il Parlamento l’ha resa impraticabile per rispondere alla sete di giustizialismo.
1. Riformare una Costituzione per sua natura destinata a durare nel tempo è impresa difficile quanto scriverne una nuova: ciò rende le sue modifiche strutturali evento raro, spesso destinato al fallimento (citofonare Berlusconi e Renzi). Più utile è porre mano a singole disposizioni, se incoerenti con l’ordito costituzionale. Tale è il suo art. 79 che disciplina l’approvazione di amnistia e indulto, già oggetto di sciagurata revisione nel 1992. Un caso esemplare di riforma sbagliata da riformare di nuovo.
2. L’attuale art. 79 richiede per una legge di clemenza la “maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”. E un mostruoso procedimento rafforzato. Le sue soglie superano quelle richieste per leggi costituzionali, così da risultare più agevole modificarne l’art. 79 che approvare un’amnistia o un indulto. Sono quorum che regalano, gratis, paralizzanti veti incrociati: basta che un terzo dei votanti si sfili o minacci di farlo, e il ricatto avrà successo. Risultato? A parte l’indulto del 2006, da trent’anni l’Italia non conosce provvedimenti di clemenza È un copione andato in scena anche in pieno lockdown. Per disinnescare in tempo la bomba epidemiologica di carceri sovraffollati, serviva un calibrato indulto. Non lo si è preso neppure in considerazione (preferendo scaricare oneri e responsabilità sulla magistratura di sorveglianza). Invocarlo, peraltro, sarebbe stato tecnicamente vano: la maggioranza dolomitica necessaria, calcolandosi sugli aventi diritto al voto, era preclusa in partenza per ragioni sanitarie, prima ancora che politiche, in un Parlamento che ha scelto di lavorare a ranghi ridotti.
3. Amnistia e indulto, dunque, non si possono né si debbono concedere. Eppure rientrano tra gli stormenti di politica criminale che la Costituzione repubblicana mette a disposizione del legislatore. Perché, allora, questo tabù? Contro di essi pesano radicate riserve ideologiche, cioè pregiudizi. Nell’ordine il loro abuso in passato, quando tra il 1953 e il 1990 vennero approvati – in media – ogni triennio. L’essere una cura palliativa per problemi strutturali, destinati a riproporsi. L’enfasi sulla paura collettiva per la messa in libertà di detenuti (che non hanno finito di scontare la pena) e di imputati (che l’hanno fatta franca). La retorica della vittimizzazione secondaria di chi ha subito il reato. La preoccupazione di non mostrare uno Stato debole, preferendolo tutto chiacchiere e distintivo. Soprattutto, essere contrari a un atto di clemenza è molto popolare, assicura facile consenso e garantisce dividendi elettorali. Scritta in piena Tangentopoli da un Parlamento assediato dal risentimento popolare, la formulazione ostativa dell’art. 79 fu (anche) una risposta a tali pulsioni giustizialiste. Qui, però, demagogia e intransigenza fanno a pugni con il ripristino della legalità. Quando costringe gli imputati in un limbo processuale infinito, e i condannati in carceri inumani o degradanti, lo Stato viola la sua stessa Costituzione e i suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani. A ciò deve porre obbligatoriamente riparo, e presto, esercitando tutte le sue prerogative. Tra queste, la Costituzione annovera anche la clemenza quale strumento di deflazione giudiziaria e carceraria. Il vero problema, allora, è come restituirle agibilità politica e parlamentare. Il che ripropone la necessità di mettere nuovamente mano al suo art. 79. Ci prova ora il disegno di legge costituzionale n. 2456, presentato alla Camera il 2 aprile scorso, per iniziativa di quattro spiriti liberi: i deputati Magi +Europa), Giachetti e Migliore (Iv), Bruno Bossio (Pd). La premessa da cui muove la riforma è che amnistia e indulta rientrino nell’orizzonte costituzionale di un diritto punitivo rieducativo e mai contrario al senso di umanità. Le leggi di clemenza, infatti, agiscono sempre sulla punibilità, estinguendola: dunque, partecipano della duplice finalità cui la pena deve sempre guardare, da quando nasce “fino a quando in concreto si estingue” (come insegna la Corte costituzionale). Come contenerle entro questo perimetro? Condizionandone l’approvazione a “situazioni straordinarie” o “ragioni eccezionali”. Le prime rimandano a eventi imprevedibili, le seconde a valutazioni collegate all’indirizzo di politica criminale della maggioranza parlamentare. In presenza dell’uno o dell’altro presupposto, debitamente motivato nel preambolo della legge, le Camere approvano l’atto di clemenza secondo l’iter legislativo ordinario, garanzia di massima pubblicità della loro deliberazione. Sulla coerenza tra presupposti motivati in preambolo, contenuto normativo e finalità costituzionalmente orientata, diventa così possibile un duplice controllo di legalità per linee interne alla legge: a monte, da parte del Quirinale in sede di promulgazione: a valle, da parte della Corte costituzionale. Controlli oggi solo teoricamente possibili, ma mai efficacemente esercitabili. Entro questa cornice, si ipotizza un abbassamento ragionevole dell’attuale quorum deliberativo alla “maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella [sola] votazione finale”.
4. Ci sono ottimi motivi per sostenere il cammino parlamentare di una simile riforma. Dei tanti che si possono squadernare, ne illustro solo alcuni. Il primo è il disvelamento dell’ipocrisia che l’attuale art. 79 cela: la sua rigidità normativa, infatti, è solo apparentemente virtuosa. In realtà, fu il prezzo pagato all’approvazione della legge di amnistia e indulto del 1990, che estingueva reati riguardanti (anche) comportamenti politici e di partito: quel parlamento, “vergognandosene un po’, se ne assolse firmando un impegno a non farlo più in futuro” (Adriano Sofri). Questo è il contesto rimosso della revisione costituzionale intervenuta nel 1992. Un falso movimento che va invece denunciato, perché da cattive coscienze nascono solo cattive regole che impediscono buone pratiche. Al contrario, la proposta di legge n. 2456 trasforma l’art. 79 da norma sterile, perché interamente difensiva, a norma feconda, perché capace di modellare amnistia e indulto in strumenti di buon governo.
5. Farisaica è anche la granitica contrarietà a leggi di clemenza. È facile dimostrarlo. Quelle misure che – anche nell’attuale legislatura – prendono il nome di rottamazione delle cartelle esattoriali, voluntary disclosure, pace fiscale, saldo e stralcio, altro non sono che condoni fiscali, cioè sospensione per il passato della legge penale, dunque strumenti di impunità retroattiva. Ogni condono altro non è che un atto di clemenza atipica, una “oscena amnistia”, per la concessione della quale però ci si serve della legge ordinaria (approvata a maggioranza semplice) senza temere né il dissenso della pubblica opinione, né la crisi di governo, né la vergogna che pure dovrebbe accompagnare l’ipocrisia di chi, a parole, è incondizionatamente contrario ad atti di clemenza La proposta di legge n. 2456 ha anche il merito di squarciare il velo che copre questa doppia morale.
6. Altra ragione a suo favore è nel valorizzare la natura emancipante degli strumenti di clemenza, rispetto alla consueta rappresentazione patibolare del diritto punitivo. Un diritto penale esclusivamente retributivo e vendicativo, applicato in modo meccanico e impersonale, mostra un’arcaica origine veterotestamentaria La logica degli atti di clemenza è invece quella evangelica, spiegata da Luca con la parabola del figliol prodigo: celebrando l’evento del figlio ritrovato, il padre spezza “l’imperialismo folle di una Legge che non conosce né eccezioni, né grazia, né perdono”, consapevole che “la Legge è fatta per gli uomini”, mai viceversa (il copyright è di Massimo Recalcati). Vale in psicanalisi, vale nel diritto. La clemenza legislativa ha smarrito da tempo questa sua autentica matrice. Condannata come rifugio del potere arbitrario, oggi è disprezzata dalla doxa dominante, per la quale l’indulto è un insulto e l’amnistia un’amnesia. La clemenza è stata uccisa dalla sua storia, passata e presente: abusata allora, cancellata ora. Questo circolo vizioso è finalmente spezzato dalla proposta di legge n. 2456, capace di sottrarre amnistia e indulto alla falsa alternativa tra bulimia e anoressia (perché, entrambi, sono comportamenti patologici).
7. È una facile previsione: l’iniziativa legislativa in esame sarà accusata di colpire a morte la certezza della pena. Ma chi pensa questo ha una mente che mente. La certezza della pena, oggi, è (fra)intesa come indefettibilità della detenzione in carcere, fino all’ultimo giorno: perché, per i più, pena vuol dire sanzione ma, prima ancora, sofferenza. Nasce da qui lo stigma verso leggi di clemenza, accusate di inaccettabile perdonismo. Tutto verosimile, ma non vero. Perché non è questo il modo in cui la Costituzione intende la certezza della pena Costituzionalmente, la pena è cena quando è predeterminata dalla legge a evitare che sia il frutto, ex post, dell’arbitrio del potente. Adoperarla come dava contro una riforma dell’art. 79 che rende praticabili leggi di clemenza significa essere ignoranti, nel senso etimologico di chi non sa ciò di cui pure parla Significa aver letto non la Costituzione, ma gli editoriali del Fatto Quotidiano, confondendo questi con quella.
8. Da ultimo, riformare di nuovo l’art. 79 restituirà potere e responsabilità a un Parlamento sempre più a bordo vasca, marginalizzato dal governo e dai suoi comitati tecnico-scientifici. Su questo obiettivo possono convergere trasversalmente deputati e senatori che conservino ancora coscienza del proprio molo, rivendicandolo orgogliosamente. Torneranno, poi, a dividersi sul se, quando e come deliberare una legge di clemenza. Ma, prima, andrà revocata quella cessione unilaterale di sovranità fatta nel 1992, che molto assomiglia ad una resa indecorosa alle piazze popolate da cappi, gogne e tricoteuses.
Andrea Pugiotto
da il riformista