La fortezza Europa, barchini speronati, motori rubati, gas lacrimogeni e pestaggi
Barchini speronati, motori rubati, gas lacrimogeni e pestaggi: così la Tunisia ferma i migranti. Chi non annega, viene deportato in Libia. A sostenere Saied sono le centinaia di milioni di euro di Bruxelles. Von der Leyen: «Decidiamo noi chi entra e chi no».
di Matteo Garavoglia, Nissim Gastelli da il manifesto
Lo scorso 19 giugno la Tunisia ha dichiarato ufficialmente la propria Zona di ricerca e salvataggio in mare (Sar), un’area che i paesi comunicano alle Nazioni unite per rendere più efficienti i recuperi delle persone in mare.
NEI FATTI, si tratta di un tassello fondamentale per l’Unione europea e i singoli Stati membri, impegnati da anni nel tentativo di esternalizzare le proprie frontiere marittime e affidare a paesi terzi il controllo del fenomeno migratorio. Nel corso degli anni Bruxelles e l’Italia in particolare hanno fornito mezzi, equipaggiamenti e tenuto corsi di formazione alla Garde nationale tunisina, il corpo securitario che si occupa delle operazioni marittime, per aumentare le capacità d’intervento e intercettazione.
Oggi, in quel tratto di mare, anche attraverso le forniture messe a disposizione dalla sponda nord del Mediterraneo si moltiplicano le denunce nei confronti delle autorità di Tunisi, accusate da più parti di pratiche violente che hanno portato in alcuni casi alla morte diretta o indiretta di persone migranti di origine subsahariana. Accuse che vanno avanti da più di un anno, almeno da quando la Tunisia ha superato la Libia per numero di partenze lungo la rotta del Mediterraneo centrale.
Speronamenti volontari, furti di motori, accerchiamenti pericolosi che causano onde alte e l’instabilità delle precarie imbarcazioni in ferro utilizzate per la traversata, lancio di gas lacrimogeni, pestaggi con bastoni e mazze d’acciaio. È nei racconti e nelle testimonianze di chi sopravvive alle intercettazioni la chiave per interpretare e conoscere il volto più violento della Garde nationale, apparato che dipende dal ministero degli interni e che da un anno si sta rendendo anche protagonista delle espulsioni di massa di migranti subsahariani verso le zone desertiche al confine con l’Algeria e la Libia. In alcuni casi non c’è solo la voce diretta di chi racconta.
Un’immagine satellitare – elaborata da Placemarks, progetto che analizza le immagini satellitari per evidenziare i cambiamenti ambientali, sociali e territoriali in corso nel continente africano – scattata la mattina del 6 aprile scorso del porto di Sfax, seconda città della Tunisia e zona dove si registra un alto numero di partenze, mostra circa 100 persone sdraiate o sedute lungo la banchina, di fronte ad alcune imbarcazioni della Garde nationale. Sono controllate a vista dalle autorità locali.
DA LÌ A QUALCHE ORA la maggior parte di loro si troverà espulsa in Libia e rinchiusa nei centri di detenzione. «Per tutta la notte le persone sono rimaste distese senza vestiti, cibo e acqua». Le parole sono di Ousman, originario del Gambia, che ha raccontato in tempo reale a il manifesto ciò che è successo quella mattina, dall’arrivo a Sfax fino all’espulsione nei pressi di Nalut, in Libia. Prima di interrompere le comunicazioni perché «sono venuti a prenderci», Ousman ha raccontato che la sera del 5 aprile sono stati quattro i gruppi partiti in momenti diversi dalle coste di Sfax per un totale di quasi 200 persone.
I primi tre sono stati intercettati dalla Garde nationale, mentre l’ultimo «ha fatto naufragio e so che ci sono stati 13 morti». Un dato parzialmente confermato dalle stesse autorità che qualche giorno dopo hanno diramato un comunicato su Facebook elogiando le attività in mare di quel weekend di inizio aprile: «Nell’ambito della lotta al fenomeno della migrazione irregolare, nel fine settimana le unità galleggianti della Garde nationale sono riuscite a sventare 85 attraversamenti illegali delle frontiere marittime, a soccorrere e salvare 2.688 persone (2.640 africani subsahariani e 48 tunisini) e a recuperare 13 cadaveri».
«Non ho mai visto una barca colpirne un’altra volontariamente. Avevo sentito molte storie a riguardo ma è la prima volta che lo posso testimoniare con i miei occhi. Quella notte ho perso mia sorella, i miei nipoti e la moglie di mio fratello». Ibrahim è originario della Sierra Leone, non conosceva Ousman ma molto probabilmente si sono visti al porto di Sfax quella notte. Il suo è un nome di fantasia, ancora oggi preferisce non svelare dove si trovi in questo momento nonostante siano passati mesi dall’accaduto.
Ibrahim
Non avevo mai visto una barca colpirne un’altra volontariamente. Quella notte ho perso mia sorella, i miei nipoti e la moglie di mio fratello
Era a bordo dell’ultimo gruppo di 42 persone partite la sera del 5 aprile ed è uno dei testimoni oculari della strage. Il suo racconto, insieme a quello di altri sopravvissuti, permette di accendere una luce diretta su un cono d’ombra che spesso avvolge questi naufragi.
È da poco tramontato il sole quando 21 uomini, 13 donne e otto minori a bordo di un barchino in ferro lungo neanche otto metri lascia la costa di El Amra, zona a nord di Sfax dove da tempo migliaia di persone di origine subsahariana hanno creato campi informali dopo l’aumento delle violenze a sfondo razziale di una parte della popolazione tunisina e delle forze di sicurezza. Dopo pochi istanti, diversi gas lacrimogeni cadono ai lati o entrano a bordo del mezzo.
Sono le forze dell’ordine tunisine che dalla costa stanno cercando di impedire la partenza dei migranti. Brevi attimi di panico che sembrano ormai alle spalle quando la costa con il passare dei minuti diventa sempre più piccola. Dopo un altro tratto di navigazione la situazione precipita. Due gommoni neri della Garde nationale tunisina raggiungono le 42 persone ed effettuano alcuni giri attorno all’imbarcazione generando un deciso moto ondoso.
IL BARCHINO comincia a destabilizzarsi, c’è chi implora i guardacoste di essere lasciati andare, chi si alza in piedi mostrando i minori presenti nella barca per pregare di non essere attaccati violentemente. Le richieste si rivelano inutili. Uno dei gommoni neri comincia a speronare la poppa dell’imbarcazione, l’uomo a bordo con una mazza di ferro colpisce le persone e tenta di rubare i motori, una pratica molto diffusa nelle operazioni di intercettazione.
Un’azione che viene ripetuta almeno cinque volte e porta la piccola imbarcazione a rompersi. Nel giro di pochi minuti la barca si riempie di acqua e affonda. In un attimo si ritrovano tutti in mare aperto. La maggior parte di loro non sa nuotare.
I due gommoni della Garde nationale sono ormai lontani decine di metri. L’equipaggio, due persone per ogni imbarcazione, decide di lanciare delle corde e poi riprendere con i telefoni quello che succede. Lo scenario è tragico: chi riesce a raggiungere le cime, si aggrappa e sale sui gommoni, in ogni caso troppo piccoli per ospitare 42 persone; chi non ce la fa a nuotare annega. Successivamente altre imbarcazioni delle autorità tunisine raggiungono i gommoni neri per prestare soccorso ai naufraghi: arrivano altri due gommoni bianchi, due imbarcazioni di media lunghezza e due navi da 35 metri, donate dall’Italia nel 2014.
Attraverso foto d’archivio e i racconti di chi quella notte era a bordo dell’imbarcazione, il manifesto ha potuto ricostruire l’identità di 15 vittime, tra cui sette minori. Un lavoro che è stato possibile grazie anche allo sforzo di diverse associazioni che si sono mobilitate fin da subito: Refugees in Libya, Mem.Med-Memorie mediterranee e J&L Project. Sono due persone in più rispetto a quanto dichiarato dalla Garde nationale nel suo post su Facebook: la discrepanza tra i testimoni e le autorità è una prassi molto diffusa in questi casi.
MOLTO SPESSO succede che le forze di sicurezza impediscano il riconoscimento dei corpi e non permettano di andare al di là dei semplici numeri. Il caso del 5 aprile è diverso e oggi 15 vittime hanno un nome e un volto: «In realtà siamo sopravvissuti solo in 18, tra cui un bambino di sette anni che ho aiutato a salire sul gommone – è il triste racconto di Ibrahim – Quando siamo arrivati nel porto ho chiesto ai guardacoste se potevamo fare delle foto ai corpi per mandarle alle nostre famiglie e informarle della loro morte. Mi hanno solo risposto “no”».
Parenti, amici, madri, mariti e mogli. È nelle testimonianze che si nasconde il dolore di chi in questi naufragi nel giro di pochi minuti perde una parte fondamentale della propria esistenza. Kominata (nome di fantasia, ndr) è incinta di cinque mesi, anche lei originaria della Sierra Leone. Ancora oggi non riesce a capacitarsi di quello che è successo: «Sono rimasta in mare quasi un’ora prima che qualcuno mi aiutasse. Quando sono riuscita ad aggrapparmi alla corda nessuno ha tirato per salvarmi. Intanto le persone annegavano. Io non ho più trovato mio marito e la maggior parte dei bambini è morta. Ora sono da sola e incinta».
Secondo i dati diffusi dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), negli ultimi anni le intercettazioni in mare hanno subito un progressivo aumento: dalle 13.466 del 2020 alle 48.805 del 2022 e le 80.636 del 2023. I migranti scomparsi in mare sono stati invece più di 1.300 nel 2023 e 341 a giugno del 2024. Si tratta di dati che non possono legarsi in maniera diretta alle pratiche violente della Garde nationale ma risuonano come un campanello d’allarme su possibili violazioni e naufragi su cui non si hanno elementi di ricostruzione.
L’ong Alarm Phone, un progetto che si occupa di fornire supporto alle persone in difficoltà che attraversano il Mediterraneo, all’indomani dell’istituzione della zona di ricerca e salvataggio ha pubblicato Mare interrotto, una raccolta di 14 testimonianze che dal 2021 al 2023 raccontano sia i naufragi causati dalla Garde nationale sia il tipo di operazioni illegali compiute in mare delle autorità tunisine, in particolare nel tratto che da Sfax arriva a nord fino alla città di Mahdia e si estende fino alle isole Kerkennah.
Sono racconti molto simili a quanto avvenuto la notte del 5 aprile, confermati anche da diversi video che hanno trovato diffusione sui social network dove si possono vedere attacchi diretti con bastoni e mazze e accerchiamenti volontari che causano l’instabilità dei barchini in ferro.
ALL’INTERNO di questo scenario di violenze e sofferenze, il ruolo dell’Unione europea e dei diversi Stati membri risulta evidente. A ottobre 2023, Bruxelles aveva all’attivo a favore della Tunisia più di 250 milioni di euro in materia di migrazione e controllo delle frontiere, di cui 144 milioni allocati per il rafforzamento delle capacità d’intervento delle forze di sicurezza.
Il 16 luglio dell’anno scorso ne sono stati destinati altri 105 milioni all’interno del Memorandum of Understanding firmato al palazzo presidenziale di Cartagine alla presenza del presidente della Repubblica Kais Saied, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, la premier italiana Giorgia Meloni e l’ex primo ministro olandese Mark Rutte. Almeno 48 milioni verranno usati per equipaggiare il piccolo Stato nordafricano di nuove imbarcazioni, sistemi radar e fornire corsi di formazione alla Garde nationale sul rispetto dei diritti umani e internazionali.
Interrogata sul tema, una portavoce di Bruxelles ha dichiarato che «la Commissione monitora i suoi programmi attraverso diversi strumenti, tra cui relazioni periodiche dei partner, valutazioni esterne, missioni di verifica e monitoraggi. Il rafforzamento delle capacità delle autorità tunisine finanziato dall’Ue, comprese le attrezzature e la formazione, viene fornito esclusivamente per gli scopi definiti nei programmi finanziati dall’Ue, nel pieno rispetto del diritto internazionale».
NONOSTANTE queste parole, nelle operazioni che hanno causato il naufragio del 5 aprile potrebbero essere stati utilizzati due gommoni neri forniti dalla Germania, diverse imbarcazioni che dispongono di radar provenienti da programmi europei e due imbarcazioni da 35 metri donate dall’Italia nel 2014 e rimesse in efficienza negli anni successivi dal Cantiere Navale Vittoria nel porto di Adria, all’interno del programma del ministero degli affari esteri «Support to Tunisia’s border control and management of migration flows».
Si tratta di un fondo da 34 milioni di euro che prevede anche la futura fornitura di sette motovedette da undici metri e che dimostra quanto sia prioritaria oggi la Tunisia per l’Italia, almeno in ambito migratorio.
«Se non stai salvando le persone, almeno non distruggere le loro vite», è invece l’amara conclusione di Ibrahim.
Questo articolo è stato realizzato con il supporto di «Journalismfund Europe»
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