Graziana Orlarey di 52 anni si è tolta la vita la notte del 28 giugno nella sezione femminile del carcere delle Vallette, impiccandosi con una corda fatta con i suoi stessi vestiti. A trovarla, troppo tardi, è stata la sua compagna di cella. Graziana, dopo aver scontato metà della sua pena, avrebbe dovuto essere scarcerata per buona condotta tra poco tempo, ma proprio questa prospettiva aveva fatto crescere dentro di lei l’angoscia di non farcela, paura confidata a molti, accompagnata da crescenti disturbi di disagio psicologico. Le compagne di sezione lo avevano notato e segnalato.
Per tutto il giorno leggiamo con sgomento le notizie sui vari quotidiani cittadini, e con maggiore sgomento rileviamo con quali toni e con quali modalità viene raccontato questo ennesimo episodio di fallimento delle carceri italiane: la vittima (perché di questo si tratta, di una vittima) viene subito rappresentata attraverso il suo reato, la condanna, gli anni di carcere che doveva scontare.
La maggior parte della gente si ferma a questo, al titolo, al sottotitolo, non prosegue nella lettura dell’articolo e quindi non saprà mai che il reato di Graziana contro il suo compagno è nato in un ambiente di degrado, di abusi e di violenze. Graziana viene nuovamente condannata dai frettolosi lettori dei social, il suo gesto derubricato con un “vabbè” o peggio con un “ma solo 4 anni?”.
Le attenuanti che le erano state riconosciute in sede processuale, oggi che si è tolta la vita, non valgono più.
Per noi che leggiamo fino in fondo gli articoli valgono invece le parole del suo avvocato: “persone con quelle fragilità dovrebbero stare in strutture alternative al carcere. Avevamo fatto domanda di casa famiglia ma non c’era posto” O il commento della garante delle persone detenute della città di Torino che parla di un percorso di accompagnamento all’uscita di cui però la donna non era stata ancora informata. E qui ci viene spontaneo chiedere: come mai una persona di cui vengono segnalati i disturbi emotivi per la paura di uscire non sia stata adeguatamente accompagnata verso questa prospettiva? Forse la risposta è ancora nelle parole della Garante: “purtroppo in estate si interrompono i corsi e si diminuisce il personale … la polizia penitenziaria conta 200 unità in meno rispetto alla pianta organica e il numero di psicologi non è sufficiente”
Bastano questi numeri a spiegare quanto il carcere delle Vallette sia un carcere a “rischio suicidario”: l’anno passato si sono tolti la vita 4 detenuti, di cui 2 nel mese di agosto, il numero più alto assieme al carcere di Foggia. Graziana quest’anno è la vittima numero uno. Speriamo la sola.
Di tutte le parole scritte su questa vicenda quello che vale veramente la pena di riportare è la lettera scritta dalle sue compagne: le “Ragazze di Torino, detenute ed ex detenute delle Vallette”
“Cara Graziana*,
questa lettera è per te. Le nostre esistenze si sono incrociate in carcere. Vite e storie diverse, accomunate ad un tratto dal dover resistere e sopravvivere e farsi spazio in un sistema che ti schiaccia per cui sei solo un numero e un reato, la persona non esiste. Conosciamo le problematiche che ti affliggevano e che, per quanti sforzi si dica che siano stati fatti, il carcere e quel sistema non curano. Anzi devastano a tal punto che, chi non ha la forza e soprattutto gli strumenti per difendersi, può decidere di farla finita. Non possiamo accettare che la tua scelta sia ridotta a un comunicato e definita un «tragico incidente».La paura che avevi del «fuori» è una paura comune a molti lì dentro e questo dovrebbe aprire una seria riflessione sull’utilità del carcere e sul fatto che in troppi rimangono indietro e non hanno prospettive. A molti è negato un futuro e chi se lo crea lo fa da solo con la propria forza.
Dieci giorni fa anche tu hai firmato, come tutta la sezione femminile, l’appello affinché nessuno muoia più in carcere. Per trovare soluzioni e ridurre sovraffollamento e disagio. È terribile sapere che anche tu non ce l’hai fatta.
Le cure negate al corpo detenuto inevitabilmente si riflettono sull’anima. Non c’è rispetto perché non si è considerati persone. Il nostro pensiero va a te. E a chi dentro il carcere continua a resistere e sperare.”
* La lettera è stata pubblicata nelle pagine di Torino del Corriere della Sera