Da ragazzino abitavo non molto lontano dal Vaticano, di sera certe volte mi capitava di passeggiare per Piazza San Pietro, non c’era quasi nessuno, era bello sotto il cielo stellato cercare i fuochi del colonnato, quei punti da cui l’abbraccio di colonne si concentra prospetticamente e i fasci di marmo si raccolgono in singole unità. Si sentiva lo scroscio delle fontane, e attorno all’obelisco mi piaceva cercare i dettagli in marmi verdi e rossi, che hanno dei piccoli richiami sulla facciata della basilica.
A volte quando facevo sega mi dicevo che era più istruttivo fare un giro per la città, ricordo benissimo un giorno in cui invece di andare a scuola mi sedetti all’ombra del colonnato a leggere Le operette morali, del resto c’era da far passare cinque ore. Sono ricordi di sensazioni perdute, irrecuperabili, e non solo perché non avrò più sedici anni, ma perché dopo l’11 settembre in Piazza San Pietro non ci si può più entrare, la piazza è stata sottratta alla città con l’installazione, lungo tutto il colonnato, di tornelli con tanto di metal-detector: entrarci di notte poi è diventato del tutto impossibile. Tra i gate d’ingresso, l’assenza di persone e l’assurdo, enorme schermo installato sotto il Palazzo Apostolico, quel posto somiglia ormai un po’ più all’hangar di ingresso della Morte Nera, e sempre meno a una piazza.
Mi rendo conto possa suonare un po’ come quei discorsi da vecchi biliosi, che pensano all’età dell’oro della loro giovinezza e vedono il mondo peggiorare solo perché a essere invecchiati sono loro, eppure… non sono così vecchio – ho 38 anni – e mi pare che le città italiane si stiano da un paio di decenni impegnando alacremente nel tentativo di diventare più respingenti. Il paradosso è che lo fanno con la malissimo intesa idea di rendersi più accattivanti per i turisti, e il pensiero che sottende questo ragionamento è che bisogna offrire a chi viene a visitarle una asettica cartolina liofilizzata, sottraendo quei luoghi alla vita di chi li abita: la nostra.
A danneggiare le nostre piazze irripetibili è il concetto cripto-fascista di decoro, un moralismo strisciante che fa installare panchine anti-uomo e cancellate di protezione, che spinge i prefetti a innaffiare le scalinate con gli idranti per cacciare i senza tetto e che fa transennare antiche agorà con l’intento di sottrarle alla popolazione che le calpesta da millenni. Devo ricordare l’ovvio: paghiamo le tasse in cambio di servizi che le amministrazioni comunali dovrebbero offrire alla popolazione – non per vederci sottrarre le porzioni più pregiate dei nostri centri urbani per la felicità dei bigotti che odiano la vita e dei turisti a cui offrirle in una per altro inedita versione asettica. Se un luogo è molto frequentato dalla popolazione i comuni dovrebbero impegnarsi ad andare incontro ai bisogni di chi dà vita a quegli spazi – anche in senso squisitamente letterale: se in certi angoli c’è odore di urina, la soluzione non sono certo delle transenne che ci precludano di vivere quei luoghi ma bagni pubblici gratuiti, aperti ventiquattr’ore al giorno. Le piazze più frequentate sono sporche? Vengano pulite maggiormente: paghiamo le tasse per questo, non per farci cacciare dai luoghi simbolo, vivi grazie a noi che li frequentiamo.
Le nostre città più belle diventano brutte sotto i nostri occhi a causa di un vieto perbenismo. Mi viene in mente qualche esempio ma sono certo che facendo mente locale altri ne verranno a voi: episodi del genere sono accaduti quasi ovunque. È di questi giorni la notizia che sotto i portici di Piazza Statuto a Torino, il comune ha fatto depositare quindici “panettoni” anti-uomo, blocchi di cemento da un quintale che sfregiano uno dei posti più belli della città sabauda con l’intento di rendere impossibile sdraiarsi lì. A Bologna sono state transennate Piazza Verdi e Piazza San Francesco, l’obiettivo era allontanare i giovani che le frequentavano di sera.
A Venezia di fronte alla Stazione di Santa Lucia e sulle panchine di Piazzale Roma per un certo periodo la nettezza urbana iniziò a usare gli idranti la mattina prestissimo, per impedire ai senza tetto di dormire lì. La moda degli idranti anti-uomo non poteva che attecchire anche a Firenze, dove appena dopo mezzanotte i getti d’acqua venivano sparati sui sagrati delle chiese di Sant’Ambrogio, Santa Croce e Santo Spirito, stavolta con l’intento di cacciare chi la sera si ritrova in quelle che sono ormai le uniche tre piazze vive del centro, e dunque da uccidere al più presto – nell’illuminata ottica del comune. La sete di vita di Palazzo Vecchio, un insospettato covo di vampiri, non è stata evidentemente placata dall’annientamento del centro storico, con tanto di cordoncino simbolico posto sui ben tre gradini del Duomo nell’intento di sottrarli alla città: sia mai che qualche culo adamantino riesca a scheggiarne il marmo.
Ancora a Venezia, Campo Santa Margherita era oggetto di ronde poliziesche ideate con lo scopo di scoraggiare la vita notturna in quella piazza. A Roma a un certo punto vietarono di sedersi sui gradini di Piazza di Spagna, anche di giorno, sa Dio perché; mentre a Firenze, perfino adesso, in tempo di Covid – un periodo in cui il problema della movida non esiste, essendoci il coprifuoco alle 22 ed essendo Piazza Santo Spirito costantemente pattugliata dalle forze dell’ordine – il comune torna all’attacco del sagrato di quella chiesa, che intende rendere inaccessibile. La piazza è forse la sola in Oltrarno a rischiare di tornare in vita e probabilmente l’ultima in città frequentata da fiorentini (a Santa Croce e Sant’Ambrogio erano soprattutto i turisti a ritrovarsi) e l’idea è evidentemente quella di eutanasizzarla preventivamente. Se vi chiedete perché l’attacco alla libertà della popolazione di fruire uno spazio pubblico avvenga in un momento in cui questa non può essere esercitata, la risposta è proprio nella meschinità del gesto in sé: i proprietari dei locali che insistono sulla piazza prima della pandemia avevano difeso il diritto della popolazione di frequentarla, ma ora, fiaccati dal Covid, non possono o non vogliono sostenere questa battaglia.
E così il comune, d’accordo con la diocesi – che a Santo Spirito è ospite, essendo tutto il complesso di proprietà dello Stato, per precisione del Fondo Edifici di Culto che fa capo al Ministero dell’Interno – sta provando (per l’ennesima volta) a sventolare la patetica scusa della pulizia di detto sagrato, nominalmente in carico alla diocesi, trovando così il pretesto per poter chiudere uno spazio vissuto dalla popolazione nientemeno che da secoli. Se questa non fosse con tutta evidenza una scusa congegnata ad hoc, e se il comune anziché lavorare contro la popolazione si impegnasse per soddisfarne i bisogni, dovrebbe proporsi di pulire a sue spese quel sagrato. L’inganno è presto scoperto. Altri paraventi francamente imbarazzanti sono il ridicolo comitato di quartiere che conta – a giudicare dalle foto online – ben tredici iscritti, a cui le istituzioni sono curiosamente propense a dar credito. Ma mi chiedo: chi rappresenta invece le migliaia di persone che vivono la piazza? Sono state interpellate? Forse sarebbe il caso di fondare un opposto comitato formato da chi frequenta realmente Santo Spirito, per far sentire il peso di migliaia di firme contro la manciata di quelle del comitato fantoccio…
Tra i motivi addotti per la preclusione del sagrato sono stati chiamati in causa dalla soprintendenza perfino la caduta di frammenti di intonaco – come se potessero planare dalla cima della facciata istigati da un qualche superpotere emanato da chi passeggia quaranta metri più in basso –, e il deterioramento della pietra serena dei gradini. Peccato che a Firenze la pietra serena sia un tratto distintivo, e che quindi tutti ne conoscano la fisiologica friabilità, dovuta agli agenti atmosferici. In ogni caso, anche per questi dettagli, la risposta è quella che ho dato sopra: quel complesso monumentale è pubblico, ha bisogno di un restauro? Che sia restaurato con i soldi delle nostre tasse, la soluzione non è certo sottrarcelo con scuse grottesche.
Il minimo comun denominatore di tutti questi interventi, osservandoli con appena un po’ più di attenzione, è il fatto che a essere presa di mira non è poi tanto la gente che beve o fa schiamazzi – siamo anzi incoraggiatissimi a farlo nei dehors dei locali –; nel mirino di queste azioni c’è chi osa bere seduto su una panchina o sui gradini: a risultare intollerabile non è la vita serale, è la povertà.
Ecco cosa nasconde questo modello di città, l’intenzione è allontanare chi non può permettersi di spendere tanto, a chi è ricco invece i sindaci sono pronti ad alienare spazi pubblici affittandoli a prezzi esorbitanti: ricordo Ponte Vecchio chiuso al pubblico da Renzi per una cena privata della Ferrari; o piazza Ognissanti sottratta al pubblico da Nardella per il matrimonio di Yogesh Mehta, figlio di uno dei più importanti imprenditori del petrolchimico: per la festa del pascià indiano la piazza diventa magicamente il posto adatto. Certi sindaci non vedono contraddizioni quando con una mano sottraggono le città a chi le vive – anche permanentemente –, mentre con l’altra le svendono al primo magnate che passa. Il problema è che queste piazze sono nostre, e per capire il tipo di predazione sistematica che si cela dietro le politiche del decoro suggerisco di dare una letta a tre libri al riguardo illuminanti: La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro di Wolf Bukowski, Contro il decoro di Tamar Pitch e Elogio alle tag di Andrea Cegna.
Una volta finita la pandemia, difendiamo le nostre città dagli amministratori che vogliono sfigurarle, continuiamo a viverle, riprendiamoci gli spazi che ci hanno tolto, torniamo a farle brulicare di vita. Il decoro è morte.
Federico Di Vita
da esquire.com