Alti funzionari del Ministero dell’Interno provano a formulare la loro versione dei fatti nel processo che si sta svolgendo a Perugia contro l’ex capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese, ed altri imputati, per la vicenda del presunto rapimento di Alma Shalabayeva. Ma restano ancora molti dubbi e le responsabilità politiche non sono chiamate in causa
«L’espulsione andava fatta perché la signora si trovava in posizione irregolare sul nostro territorio, non aveva un permesso di soggiorno valido, né un regolare visto e neppure l’aveva chiesto», dice Fabrizio Mancini, direttore del servizio immigrazione del Ministero dell’Interno dall’ottobre del 2013 fino a qualche mese fa. «Ci risulta che la donna in questione fosse madre di una bambina piccola. Poteva essere espulsa comunque?», incalza il magistrato Giuseppe Narducci, presidente del Tribunale di Perugia dove è in corso il processo che vede imputati, a diverso titolo, tra gli altri, l’ex capo della squadra mobile di Roma Renato Cortese, oggi questore a Palermo dopo una lunghissima carriera che lo ha visto di recente anche a capo dello Sco, il servizio centrale operativo della polizia.
Per la vicenda accaduta a Roma nel maggio del 2013, quella del «presunto sequestro di persona e per il reato conseguente di falso» ai danni di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente e uomo di affari, Mukhtar, e madre dei suoi figli, tra i quali Alua Ablyazova, che aveva appena sei anni all’epoca dei fatti, dunque, si sta svolgendo a Perugia il processo nei confronti di Cortese, di Maurizio Improta – figlio del “superpoliziotto dell’antiterrorismo” – il defunto Umberto – poi questore di Rimini e attuale capo della Polfer, la polizia ferroviaria, ma all’epoca del “presunto rapimento” nel maggio del 2013, capo dell’ufficio immigrazione al Ministero dell’Interno guidato da Angelino Alfano. Insieme a loro sono imputati altri quattro poliziotti e il giudice di pace, Stefania Lavore, ed è proprio a causa del coinvolgimento di quest’ultima imputata che il procedimento giudiziario si sta svolgendo per competenza davanti al Tribunale di Perugia.
Dove ieri, intanto, e anche oggi, è andata in scena la sfilata dei testimoni a sostegno di Renato Cortese, già capo della squadra mobile di Roma. Fabrizio Mancini – si diceva all’inizio che nell’ottobre del 2013 è andato a sostituire Improta al Ministero mentre fino a allora era stato dirigente del commissariato di polizia Anzio e Nettuno – ha riferito ieri in aula: «Assolutamente si, la donna poteva essere espulsa, nonostante la bambina, nonostante disponesse di un alloggio dignitoso; sarebbe stato possibile una misura alternativa se ella non avesse fornito false generalità al momento del fermo e del foto segnalamento e soprattutto se non avesse mostrato un passaporto poi risultato falso», ha raccontato Mancini davanti ai giudici di Perugia: «Queste due cose hanno impedito l’adozione di misure diverse da quella del trattenimento presso un Cpr».
E ancora, così ha proseguito l’alto funzionario: «Il minore segue la condizione giuridica del genitore. Anche se avesse avuto un passaporto dell’Unione Europea».
Fabrizio Mancini è stato dal 2006 al 2013 il vice di Maurizio Improta negli uffici immigrazione ha aggiunto al processo: «La signora Shalabayeva non ha mai chiesto asilo politico nei miei uffici prima del maggio del 2013. Ricordo che presentò la domanda soltanto l’anno successivo in seguito al clamore mediatico che ebbe la sua vicenda e al successivo rientro in Italia». Si scopre dalle carte giudiziarie che sono alla base delle imputazioni nel processo, invece, che la polizia sapesse dell’identità della donna e cioè del fatto che ci si trovasse di fronte alla moglie e una figlia minore di un rifugiato politico inglese, Mukhtar, tanto che i giudici hanno scritto: «Lascia perplessi la velocità con cui si è proceduto al rimpatrio in Kazakistan dell’indagata e della bambina, congiunti di un rifugiato politico, in presenza di atti dai quali emergevano quantomeno seri dubbi sulla falsità del documento». «Non penso che si sarebbe potuto adottare una procedura diversa», ha concluso così in aula l’alto funzionario. Lo ha seguito a ruota l’ex capo dell’istituzione Alessandro Pansa. Pansa fu nominato capo della Polizia esattamente due giorni dopo lo scoppio dell’affaire Shalabayeva. Pansa, dopo un periodo durato due anni ai servizi segreti, dal 2016 al 2018, in qualità di capo del Dis, il Dipartimento degli affari interni e della sicurezza, oggi è il presidente di Tl sparkle e advisor per la sicurezza della società controllante Tim. Di quei giorni, in sostanza, ha ricordato – anche lui intervenendo nell’aula del tribunale di Perugia – «che nessuna anomalia è stata riscontrata nel comportamento del dottor Improta nella successiva inchiesta interna amministrativa da me avviata». E ancora: «Che all’inizio c’è stato l’interessamento del governo italiano per la vicenda del latitante [il marito della Scalabayeva, ndr] da trovare, e su questo punto c’è stata una particolare collaborazione della ambasciata kazaka». E, poi Pansa ha concluso affermando di «non ricordare se il Kazakistan fosse o meno nella lista nera dei paesi non sicuri». Dove cioè non vengono rispettati – secondo le linee guida Unhcr – i diritti minimi basilari.
Ma dunque cosa accadde davvero a partire da quella notte tra il 28 e il 29 maggio del 2013 nella villa della frazione romana di Casal Palocco?
Lo hanno documentato già da diversi anni decine di inchieste giornalistiche e gli atti parlamentari della Commissione straordinaria per la promozione dei Diritti Umani del Senato presieduta nella scorsa legislatura da Luigi Manconi che si è interessa al caso. In particolare, è stato raccontato degli interessi economici delle banche che avrebbero fatto da sfondo al presunto rapimento. Perché è stata avanzata l’ipotesi che quell’espulsione della donna e della figlia, l’extraordinary operation, servisse a far uscire allo scoperto il marito Mukhtar Ablyazov, «che era ricercato dalle autorità del suo paese perché accusato di aver messo in piedi una truffa da circa 10 miliardi di dollari quando era presidente della Bta, la banca più importante del Kazakistan». E che «tra i presunti truffati vi fossero anche più di qualcuno degli istituti di credito italiani, quali la Banca Monte dei Paschi di Siena, la Bnl, la Banca popolare di Vicenza». E altre banche ancora. Come altri ancora potrebbero essere stati gli interessi in gioco, come è stato ancora ipotizzato, tali da non dover compromettere le buone relazioni tra l’Italia e il Kazakistan, forti di una decina di accordi commerciali del valore di diversi miliardi di lire che ha visto beneficiari colossi di Stato italiani come Eni e Finmeccanica e big privati delle costruzioni.
Resta, in ogni caso, quanto ha raccontato Alma Scalabayeva ai deputati italiani componenti della Commissione Diritti Umani del Senato che andarono a fargli visita. «Sono sottoposta a continua sorveglianza. Alua, mia figlia, non va a scuola, anche per la paura che le autorità possano allontanarla forzatamente da me». E ancora: «Vorrei andare via, verso l’Italia o la Svizzera, dove ho tanti amici perché qui non mi sento al sicuro». E, in effetti, poco dopo tempo la donna tornò in Italia dove stavolta poté fare richiesta di concessione dell’asilo politico. Al di là, comunque, di come si concluderà il processo nei confronti dei funzionari di polizia che è cominciato lo scorso settembre a Perugia e che si trova ancora nella fase del dibattimento, restano anche alcuni fatti, ben impressi nella memoria di quei giorni del 2013. È un fatto, ad esempio, che l’intera operazione che ha portato all’espulsione e al rimpatrio di Alma Shalabayeva e di sua figlia sia stata sbagliata. Perché l’extraordinary operation ha messo a rischio queste due persone consegnandole nelle mani di autorità che violano i diritti umani, come hanno riconosciuto anche le più autorevoli organizzazioni internazionali. E oltre i fatti, c’è però anche una domanda che attende sempre una risposta, difficile come spesso accade quando a essere coinvolti sono sia i militari che i politici. Come funzionò la catena di comando? Per ora la polizia si difende in aula, mentre la politica, sia quella italiana che quella kazaka è uscita di scena.
da DINAMOPress
Noi non scordiamo: ancora sui fratelli Improta. Il caso Shalabayeva ancora alla ribalta.