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La rivoluzione è fede

Intervista a Filippo Kalomenìdis, autore del discusso libro “La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre”

di Dimitra Kazantzidou*

la rivoluzione del 7 ottobreEsce oggi nelle librerie italiane, La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre dello scrittore e poeta Filippo Kalomenìdis (PGreco Edizioni, illustrazioni di Abu Manu, pp.116).

Terzo capitolo della sua tetralogia del «campo di battaglia come Paradiso» – dopo La direzione è storta (2021) e Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (2022), scritto con il Collettivo Eutopia – è stato già pubblicato in Grecia a settembre.

Ne parlo con lui nei giorni successivi al suo rientro da Beirut e alla presentazione ateniese nel giardino Tsamadou di Exarchia. Esattamente a un anno dalla diffusione, proprio sulle pagine di Osservatorio Repressione, del breve saggio eretico-politico che ha dato il titolo al libro.

Se nell’ottobre 2023 chiamare “Rivoluzione” il Tūfān al-ʾAqṣā è parso scandaloso, in quest’opera Kalomenìdis si è spinto oltre giungendo a un concetto assai più scabroso, quello del «necessario annientamento dell’entità sionista e occidentale d’insediamento coloniale in Palestina».

Infatti, dice sempre Kalomenìdis, non ci potrà mai essere alcuna pace finché l’occupante genocida non sarà definitivamente sconfitto dalla Resistenza Palestinese e dall’Asse della Resistenza.

Mi racconta di essere profondamente colpito dal dinamismo del movimento greco per la Palestina e di essere deluso dalla farraginosità che negli ultimi mesi caratterizza quello italiano. «E non solo per i decreti e le azioni repressive del governo neofascista. Mi risulta che da voi, sotto tale aspetto, si stia persino peggio», precisa prima di cominciare l’intervista.

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Come è nato questo libro?

È una raccolta di brani scritti a margine di una nuova opera poetica dedicata ai palestinesi che si battono nella Shatat (la diaspora, la dispersione palestinese), e del mio impegno di militante per la liberazione totale della Palestina.

Quando il compagno Leonidas Valasopoulos mi ha proposto di raccogliere materiali editi e soprattutto inediti sulla Palestina per pubblicarli in Grecia con Προλεταριακή Πρωτοβουλία (Iniziativa Proletaria), mi sono reso conto che quest’opera era un passaggio impreteribile nel mio cammino di uomo e scrittore.

Avevo di fronte il terzo capitolo della mia «tetralogia del campo di battaglia come Paradiso».

Come nei precedenti viaggi di scrittura, ogni riga è incardinata sull’amore per i reclusi negli inferi del pianeta, sulla ricerca di una giustizia ultramondana e indivisibile che divenga giustizia in terra (nel Corano, ‘adala); sulla testimonianza dei resistenti, dei combattenti, dei martiri contro l’oppressione occidentale, capitalistica e coloniale; sulla fede come corpo vivo che nella donna e nell’uomo si fa parola e azione; sul conflitto senza requie (il polemos di Eraclito) e l’estremismo umano come spinte imprescindibili dell’esistenza; sulla riscrittura poetica della Storia dal basso, dal punto di vista dei diseredati. In questo caso, dando voce al popolo della mia anima come figlio e nipote di profughi, perseguitati politici, derubati della propria casa e scacciati: il popolo palestinese.

Nei tuoi libri precedenti, sei stato eretico non solo nei contenuti ma anche nello stile mescolando monologo e dialoghi teatrali, versi, pagine di diario, prose liriche, ma in questa raccolta sei andato oltre. Hai aggiunto agli strumenti stilistici già adoperati il saggio antiaccademico che è poesia, conversazione interiore, lettera ai protagonisti storici e ai fratelli e alle sorelle martiri, e persino favola teosofico-politica. Non sembra che ci sia nessuno al momento a sperimentare in tal senso, soprattutto considerando il fatto che la parola è per te arma di resistenza. Come ti senti ad essere una voce così stentorea e solitaria nel panorama letterario italiano?

In Memoria dello scrittore palestinese Salman Natur c’è un’indimenticabile, per me indispensabile, affermazione che ripeto ogni volta che scrivo, quasi fosse una preghiera: «Se il taccuino si perde, è perduta la mia vita! […] Io morirò ma la storia non morirà. Ci sono persone che vogliono uccidere la storia. No! È tutto scritto in questo taccuino!».

La mia ossessiva ricerca linguistica e stilistica vuole sempre approdare a quella che nell’introduzione a Respiro di Barbara Balzerani ho denominato «opera esperienza sensibile».

Un’opera che non si legge soltanto ma s’incontra brutalmente con le sue parole autentiche, scabre, taglienti, carnali che chiamano le cose con il loro nome. In contrapposizione alla distanza tra linguaggio e realtà, al mercimonio del racconto, alla contraffazione della storia e della verità che impera nella scrittura derivativa della propaganda liberale, nordoccidentale.

Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscere personalmente e attingere da Maestri di vita e poesia come la stessa Barbara Balzerani, Sante Notarnicola, Salvatore Ricciardi, Suaad Genem e di crescere come autore con le pagine altrettanto inarrivabili di Ghassan Kanafani, Walid Daqqah, Alekòs Panagulis e Hervé Guibert.

Nel tuo breve saggio poetico-politico La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre, sei stato il primo in Italia, e credo in Europa, a mettere un punto saldo sul fatto che il 7 Ottobre sia la data della “Rivoluzione Palestinese”. Sei stato e sei il solo scrittore a definirla tale. Il saggio è stato allora divisivo, anche e soprattutto tra i soggetti che a diverso titolo hanno sostenuto, almeno nelle intenzioni, la causa palestinese. Perché si tirano indietro davanti alla parola “rivoluzione”?

Quasi tutta la porzione italiana – e non palestinese, araba, musulmana – del Movimento non ha idea di cosa sia realmente una rivoluzione.

La rivoluzione è una sovversione violenta, irreversibile del presente che concretizza una concezione inedita della donna e dell’uomo. Una sollevazione di massa dei reietti che salda armoniosamente il politico e il militare per introdurre con forza l’assoluto nella Storia. Un agire collettivo che confida nel cambiamento in terra della propria condizione come non solo necessario, ma anche raggiungibile. Un moto corale che crede nella potenza e usa la potenza (in arabo, Quwa) in quanto principio che obbliga a modificare lo stato di cose dominante, creando il possibile.

Tutto questo non sarà mai compreso dai professionisti dell’umanitarismo, del quietismo che nelle loro comode case e nella loro miseria morale continuano a parlare di “pace”, senza intendere che quella che vogliono è una falsa pace assassina.

Il 7 Ottobre ha tolto finalmente credito alla loro presenza sulla scena culturale e politica attuale.

Le tue parole ripropongono la questione della violenza e della lotta armata in Palestina e nei paesi arabi occupati da Israele, rifiutata aprioristicamente dalla sinistra italiana delle bandiere arcobaleno…

…E dalla sinistra delle bandiere rosse sbiadite, aggiungerei…

I palestinesi espropriati di tutto da un secolo come dovrebbero affrontare i coloni genocidari sionisti?

Come dovrebbero rapportarsi gli oppressi (mustadha’fin) con gli oppressori (mustakhbirin)?

Perché non dovrebbero ricorrere alla violenza (per quanto nella cultura araba e islamica rappresenti sempre – nessuno o quasi lo sa – un’operazione dolorosa al contrario che nel razionale, civile, democratico Nord Occidente) come strumento di difesa della vita dei propri figli, della vita di un intero popolo?

Muhammed Hussein Fadlallah, fulgido esponente libanese del pensiero islamico contemporaneo, nel trattato giuridico Ahkam al-shari’a, ce lo spiega in termini essenziali nel punto 741: «Reagire all’aggressione con una contro-aggressione […] è di fatto un obbligo per il difensore». Oppure ancora più semplicemente in un’intervista del 1995 al “Journal of Palestine Studies”: «Se un pazzo ti prende per il collo, hai come unica soluzione per salvare la tua vita ucciderlo oppure tagliare la sua mano».

La Resistenza Palestinese è riuscita nel prodigio di elevare la vocazione legittima verso la difesa collettiva, dopo 76 anni di occupazione e sterminio, a una rivoluzione che ha cambiato e cambierà per sempre questo secolo.

Dal 7 Ottobre 2023 è definitivamente chiaro a chiunque abbia gli occhi dell’anima spalancati che la battaglia per la liberazione totale della Palestina è la battaglia cruciale per il genere umano. Perché coincide con quella tra oppressori e oppressi in qualsiasi angolo del pianeta.

Le stesse «anime belle razziste» così le chiami nel libro citando Fanon, obietterebbero che il 7 ottobre è stato un attacco terroristico portato avanti da Hamas, movimento islamico, in cui sono stati uccisi anche civili… Cosa rispondi loro?

Ritengo chi ha simili posizioni corresponsabile – non importa se inconsapevole – del genocidio in atto nella Palestina Occupata e dello sterminio del popolo libanese, quanto la consorteria neofascista-ebraica-sionista che controlla questo disgraziato Paese.

Se anziché osteggiare in tutta Italia le presentazioni del mio libro, impiegassero i loro giorni a leggere Fanon, Ahmad Sa’adat, i manifesti di Hamas e Hezbollah saprebbero che la violenza del colonialismo d’insediamento è «terroristica». La violenza della risposta del colonizzato, invece, è «terrificante», ma sempre liberatrice dalla ferocia suprematista divenuta legge.

Se ascoltassero sinceramente per un solo momento palestinesi e libanesi scorgerebbero la loro «potenza di vita» e si vergognerebbero di raccontarli, dall’alto della pretesa superiorità bianca, razionale e nordoccidentale, come vittime da salvare con l’inanità del diritto internazionale.

Se studiassero – non dai testi dei servi d’Israele e del mondo liberale – la storia di Hamas, del Jihad Islamico, del Fronte Popolare, del Fronte Democratico, se  parlassero coi militanti rivoluzionari, potrebbero constatare la propria macilenza etica, e toccare la fede pura di donne e uomini nuovi che infrangono nel Vicino Oriente il tempo lineare del capitalismo e del colonialismo.

Però immagino siano troppo impegnati a piagnucolare, tenere in piedi la finta solidarietà che li aiuta ad autoassolversi dall’orrore di cui sono compartecipi, e sopravvivere da perfetti cittadini genocidari della repubblica italiana.

Nella tua opera, parli esplicitamente di «spiritualità politica»; di «teocentrismo […] la dimensione dove Dio e la potenza liberatrice della spiritualità garantiscono ogni altra dimensione. Per prima, la battaglia senza tregua per la giustizia terrena»; di «fede concreta e al contempo assoluta, un ideale sacro che permette» di andare oltre se stessi nella lotta. Questa visione è il punto centrale della tua “eresia”?

Se non si comprende questo aspetto, non si è in grado di comprendere la Resistenza Palestinese e il genocidio perpetrato dai sionisti e dai nordoccidentali, governo e stato italiano in prima fila.

La rivoluzione dei movimenti islamici palestinesi, libanesi, yemeniti, siriani, iracheni e del marxismo palestinese è una lotta armata e spirituale contro il liberalismo sionista, contro il fondamentalismo atlantista ateo.

Da una parte le donne e gli uomini nuovi delle comunità della solidarietà immensa arabe e islamiche, dall’altra la società laica della distruzione, dell’individualismo apocalittico, fondata sul genocidio dei difformi, in nome del profitto, del benessere e del dominio di pochi prescelti.

La Resistenza Palestinese e l’Asse della Resistenza non combattono quindi contro l’ebraismo che, in quanto strumento di un’ideologia della falsa democrazia coloniale, non ha alcun valore religioso. È già secolarizzato, è già ateismo. Come testimoniato pure dalle frange dell’ortodossia ebraica che si oppongono a Israele.

Alle nostre latitudini, senza fede, senza fare uso della propria vita per gli altri e per generare un mondo luminoso, senza un radicale processo di de-occidentalizzazione, non è possibile nemmeno immaginare di sabotare il genocidio del popolo palestinese e colpire nel profondo le centrali politiche, militari, culturali, mediatiche dell’oppressione sionista e occidentale.

Il tuo libro si apre con la prigionia di Khaled El Qaisi nella galera sionista di Ashkelon e si conclude con la vicenda dei tre prigionieri politici palestinesi rinchiusi nelle carceri italiane: Anan, Alì e Mansour. Possiamo dire che i due casi sono speculari tra loro e perché?

È una corrispondenza geometrica all’interno del testo per rimarcare che il popolo palestinese è un popolo prigioniero: nei centri israeliani d’internamento, sevizia e annientamento; nel gigantesco campo di sterminio a cielo aperto della Palestina usurpata; nei Paesi che compartecipano all’occupazione, tra i quali l’Italia, dove i suoi figli scacciati e costretti a vivere in esilio, vengono perseguitati. Come Anan Yaeesh. Sepolto vivo in un penitenziario “democratico” per il delitto di legittima difesa della propria terra da immondi invasori.

Non è un caso che la poesia e la narrativa più rilevanti degli ultimi settant’anni vengano dalle mani e dal cuore di autrici e autori palestinesi. Si congiungono alla lirica epica dei reclusi politici che ha centralità nella scrittura in tutto il mondo, in tutto il Novecento, rinnovandola e innalzandola con la «dimensione del sovra-esistenziale», come l’ho battezzata nelle mie pagine.

È un voler sottolineare la «consanguineità ideologica e concreta» tra Israele e la repubblica italiana fondata sul diritto di annientare differenti e resistenti.

«Come quello sionista, lo stato italiano fa del razzismo coloniale una religione», scrivo in La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre.

Il sionismo ha secolari, profondissime, maligne radici culturali, storiche, politiche, economiche nella melma tricolore.

A livello legislativo e repressivo con l’editto di segregazione razziale sulla detenzione amministrativa per i migranti – ispirato alle norme sioniste esercitate al massimo livello di ferocia sui palestinesi – promulgato dal centrosinistra 26 anni prima delle deportazioni in Albania, ordinate dal governo neofascista.

Altrettanto si dica per i dispositivi dell’apparato giudiziario-carcerario che da mezzo secolo utilizzano l’isolamento come scientifica forma di tortura funzionale alla disintegrazione dell’identità del prigioniero, ricalcando il sistema giuridico d’apartheid israeliano.

Potrei fare molti altri esempi. Mi fermo all’impunità che permette a migliaia di ebrei italiani di partecipare alla macelleria di civili gazawi, come sicari e torturatori negli squadroni della morte dello Tsahal, l’Israel Defence Forces, con la benedizione delle alte cariche istituzionali e dei media predominanti.

Nel tuo libro, ci afferri per i capelli e ci mostri le radici e il fango dell’Italia sionista a cui accennavi prima…

L’Italia è una delle nazioni dove vennero addestrati i banditi sionisti che parteciparono alla seconda fase della Nakba, come ci insegna Joseph Massad, cominciata nel 1947. Dove, oggi, i nipoti assassini di quegli assassini si esercitano a bombardare a bassa quota e sperimentano armi chimiche come il fosforo bianco prima di utilizzarle sui civili palestinesi e libanesi.

L’Italia è una nazione islamofoba, arabofoba, misoxena con una tradizione – a lungo nascosta, adesso a volte perfino celebrata dal regime repubblicano – di pratiche genocidarie e di colonialismo d’insediamento in Libia, Somalia, Etiopia, Abissinia, Istria e Dalmazia.

L’Italia ha rinnegato da decenni l’identità mediterranea per accogliere la fittizia, suprematista e distruttiva identità europea e atlantista.

Né le fiacche o prezzolate élite culturali della sinistra, né la popolazione, né la componente italiana del movimento per la Palestina hanno ancora fatto i conti con questa fondante mostruosità.

Credo sia semplicistico ricondurre alla complicità fascista nella Shoah e al derivante senso di colpa di massa, la noncuranza abietta, criminale della maggioranza dell’opinione pubblica italica rispetto alla tragedia palestinese.

Hai da poco vissuto un intenso periodo in Libano fino ai bombardamenti e all’assassinio di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, da parte degli israeliani. Cosa puoi riportarci in breve della tua esperienza?

Ogni angolo di Shatila è aperto al vero cielo.

Uno spiraglio minuto di cielo a Shatila riceve lo sguardo grato di chiunque cammini tra i vicoli del campo, stretti come cunicoli.

Perché quelle fessure celesti tra le case attaccate l’una all’altra donano respiro e ricevono amore dagli occhi di donne, bambini, uomini.

Si possono misurare coi palmi delle mani ma sono al tempo stesso sconfinate.

Le ampie distese di nuvole e azzurro sporco, metallico sopra le larghe strade del Nord Occidente sono al contrario scontate.

Nessuno ha il tempo o il coraggio di alzare gli occhi per ammirarle. Sono un grande coperchio che schiaccia privilegiati e sottoprivilegiati che corrono a testa bassa per sopravvivere da schiavi, nella rassegnazione, nella caduta nel nulla di un’esistenza insensata.

A Shatila, Beirut, Baalbek, nell’intero Paese, pur espropriati di tutto, con il rischio di morire sotto le bombe israelo-statunitensi in qualunque istante, i palestinesi e i libanesi invece vivono. Abbracciano l’altissimo vivere. Combattono e vivono uniti in una fraternità e generosità immensurabili.

«Isrā’īl», sorrideva senza timore un mio giovanissimo amico palestinese mentre sentivamo il latrato demoniaco dei caccia sionisti sopra Shatila.

Continuava a fumare, richiamando calmo i compagni, restando seduto accanto a me. Si lasciava cingere dal cielo notturno finalmente pieno, in un piccolo spazio sul tetto di una casa. Tra grovigli di cavi elettrici e la cisterna d’acqua marina. Quel tiepido filo salato che ringraziavamo lavandoci appena svegli e rendeva ogni passo della giornata un tuffo tra le onde.

Come insegna Sayyed Hassan Nasrallah: «questo tipo di sangue trionfa sulla spada, questo tipo di sangue vince sulla spada e la sconfigge, spezza tutte le catene e umilia ogni tiranno e arrogante».

Il martirio di probe, eroiche Guide dell’umanità che resteranno eternamente nella storia, come Hassan Nasrallah, Ismail Haniyeh, e Yahya Sinwar non scoraggia certo le donne e gli uomini dalla tempra eccezionale della Rivoluzione del 7 Ottobre.

Non fermerà di sicuro il processo irreversibile di dissoluzione del sistema nordoccidentale e dell’entità coloniale d’insediamento sionista. Fino all’assoluta liberazione della Palestina e del Libano.

* Dimitra Kazantzidou, traduttrice e militante politica.

shatila 76 altro formato* Filippo Kalomenìdis, scrittore, poeta e militante politico. Ha pubblicato La direzione è storta. Reportage lirico sul Covid-19 e i virus del potere (2021) e, con il Collettivo Eutopia, Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (2022). È stato sceneggiatore per il cinema (Io sono con te, 2010) e la televisione (tra le serie di cui è autore, Il Grande Gioco, 2022).

 

 

 

 

 

 

 

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