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La "sindrome del black bloc"

Lettera pubblicata su Il Manifesto del 18 giugno 2013
Caro Manifesto,

ora che con la cassazione di Bolzaneto si sono chiusi tutti i processi riguardanti Genova 2001 credo sia il momento di fare un ragionamento a 360°. Onestamente trovo fastidioso che sistematicamente vengano chiesti commenti esclusivamente ad Agnoletto e/o Casarini, perché quella storia lì è una storia molto più grande di loro, che non riguarda solo loro, una storia di cui, oltretutto, faticano tuttora a capire e comprendere la portata.

Al di là delle responsabilità politiche, che sono non tante, tantissime, rimarrei su quello che la lezione di Genova è realmente stata mentre scorrono immagini via streaming di Piazza Taksim, mentre tutti ci si riscopre solidali con i rivoltosi genovesi, compreso chi all’indomani del 21 luglio accusava parte di quella enorme composizione, di essere fatta di fascisti, infiltrati, violenti, etc etc. La sindrome del Black Bloc ha bloccato e impantanato le manifestazioni degli anni successivi, immobilizzando un movimento nella dicotomia violenza/non violenza, come se il tutto fosse un problema di schieramenti e non di pratiche o di percorsi politici e radicali.

Se ora ci ritroviamo con 10 persone (di cui 3 in carcere) con condanne che vanno dagli 8 ai 15 anni è anche grazie al fatto che nessuno ha voluto assumersi la loro difesa. Abbiamo preferito formare comitati che chiedevano verità e giustizia, legittimo sia chiaro, ma creando un cortocircuito: come è possibile chiedere verità e soprattutto giustizia, a uno Stato che negli anni, attraverso i propri corpi delle FDO, ha insabbiato, coperto, depistato e soprattutto promosso i “protagonisti” delle giornate genovesi?

Invece di aprire una discussione e una riflessione sulla pericolosità del reato di devastazione e saccheggio (art 419) o sul fatto che sia assente il reato di tortura dal nostro codice penale, si è preferito creare steccati e dare patenti di legittimità tra le diverse pratiche di piazza, come se una fosse migliore di tutte le altre. A prescindere. Abbiamo dovuto avere i casi Aldrovandi, Uva, Bianzino e Cucchi, per accorgerci che si può morire durante un fermo, in caserma o in carcere. Per accorgerci che si può essere torturati senza che nessuno venga nemmeno accusato di nulla, in quel caso si tratta di “eccessi”.

Neanche abbiamo avuto il coraggio di aprire una riflessione o una discussione sul come stare in piazza, sul come tutelarci, sul come non morire più o essere condannanti a 15 anni per aver danneggiato cose. Niente di tutto questo.

Per fortuna la lezione Valsusina insegna che si può essere radicali, decisi e compatti. Che non si deve per forza trovare una mediazione con chi con te non vuol mediare. Che non serve accattivarsi i media mainstream perché tanto al momento opportuno sapranno con chi schierarsi e non succede mai che si schierino con i Movimenti.

Chiudo pensando prima di tutto a Marina, Alberto e Gimmy, attualmente in carcere per i fatti del G8. Ma soprattutto sperando che Il Manifesto non si accontenti di narrare solo la cronaca, ma che dia spazio alla riflessione e alla discussione.



Ciao

Zeropregi (@zeropregi)