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La storia di Youssef e la violenza strutturale sui detenuti più vulnerabili

Genova, carcere di Marassi. Youssef è un giovane detenuto di venticinque anni con una lunga storia di problemi psicologici e comportamentali. Il 3 ottobre è stato brutalmente aggredito da diversi agenti penitenziari.

di Luna Casarotti, associazione yairaiha ETS da Monitor

Il ragazzo – affetto da disturbo borderline della personalità e con una diagnosi di ritardo mentale lieve – si stava recando nella sala colloqui dove era atteso dal suo avvocato. La tensione emotiva che caratterizza il suo stato mentale lo ha portato a un’interazione con un brigadiere della polizia penitenziaria presente, innescando una reazione a catena che si sarebbe certamente potuta evitare. Secondo le testimonianze raccolte, alla provocazione da parte di Youssef – un insulto verbale – è seguita una risposta di forza da parte del brigadiere, che ha colpito il giovane al volto distruggendogli gli occhiali. La situazione è successivamente degenerata in una violenta aggressione collettiva, con altri agenti della penitenziaria che si sarebbero uniti al pestaggio, a ridosso della stessa sala colloqui, lasciando Youssef con ferite evidenti.

Nonostante la presenza di testimoni e la denuncia dei fatti, è stato uno dei detenuti che aveva visto Youssef durante l’ora d’aria a diffondere per primo la notizia, raccontando a sua madre le condizioni in cui lo aveva trovato. La donna ha riferito queste informazioni alla sorella del ragazzo, mentre solo due giorni dopo l’episodio, suo figlio, il detenuto che la aveva avvertita, è stato trasferito.

Il quadro clinico di Youssef – emerso dalla perizia psichiatrica allegata all’esposto-querela presentato dall’associazione Yairaiha – evidenzia una condizione estremamente complessa che richiede interventi terapeutici specifici e mirati. Nato a Milano, di origini tunisine, Youssef ha manifestato fin dall’adolescenza comportamenti “devianti”, culminati in reati di furto e rapina. Sin dai suoi primi anni di vita ha mostrato segni di difficoltà cognitive, con una diagnosi di disturbi dell’apprendimento come disortografia e discalculia, accompagnati da un quoziente intellettivo sotto la norma (QI 65). Queste problematiche si sono aggravate con l’abuso di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina e cannabinoidi, che ha portato anche a comportamenti autolesionistici documentati. Youssef presenta una grave fragilità cognitiva e psicologica, aggravata da un disturbo borderline e antisociale della personalità e da una dipendenza da sostanze (cannabis, cocaina e alcol). Ha vissuto diversi ricoveri per agitazione legata all’abuso di sostanze, con comportamenti esplosivi e impulsivi. Nonostante accetti il trattamento, rifiuta farmaci che ritiene inibiscano le sue emozioni. Durante l’esame psichiatrico ha mostrato limitate competenze cognitive, con difficoltà nell’autocontrollo e una scarsa consapevolezza delle proprie azioni. Il pensiero è povero e concreto, privo di introspezione. Pur non manifestando deliri o allucinazioni, presenta un tono dell’umore deflesso con scatti di rabbia e un’emotività instabile. Le sue capacità progettuali sono grossolanamente limitate e condizionate dall’impulsività.

Dal punto di vista psichiatrico forense, la valutazione suggerisce un possibile “vizio parziale di mente”, dovuto alla somma di carenze cognitive e disturbi di personalità: “Si raccomanda un trattamento presso una struttura comunitaria con doppia diagnosi, vincolato a un intervento giuridico, per affrontare il problema delle dipendenze e il disturbo mentale”, è scritto nella relazione.

A fronte di situazioni così complesse e delicate, gli episodi di violenza a danno delle persone che vivono questo tipo di sofferenza all’interno delle carceri non sono casi isolati, ma il riflesso di una cultura carceraria che glorifica la repressione di ogni istinto e ignora le esigenze riabilitative dei detenuti, soprattutto quelli più fragili. La mancanza di protocolli adeguati per la gestione delle crisi, e in generale dei comportamenti delle persone affette da disturbi psichici, evidenziano l’assoluta necessità che queste persone vengano curate, e non ristrette in un carcere. La cultura dell’abuso di potere all’interno delle strutture è spesso nascosta inoltre dietro il velo dell’indifferenza istituzionale. Le segnalazioni di violenze, maltrattamenti e vendette personali da parte del personale penitenziario nei confronti dei detenuti più vulnerabili sono numerose, ma raramente portano a sanzioni o a cambiamenti strutturali. Il trasferimento dei testimoni, come nel caso di Youssef, non fa altro che alimentare il sospetto di un sistema che cerca di proteggere i propri abusi.

In seguito all’aggressione l’avvocato di Youssef, insieme al Garante dei detenuti e all’associazione Yairaiha, ha chiesto un’indagine urgente per fare chiarezza sull’accaduto e garantire giustizia. La richiesta di acquisizione di testimonianze e filmati di video sorveglianza potrebbe essere cruciale per far luce sulla vicenda e rivelare la verità dietro l’ennesimo episodio di violenza. Tuttavia, resta il dubbio che queste prove possano essere occultate o manipolate, come spesso accade in casi simili, ancor più di quando la parte lesa è un detenuto “ordinario” e quindi considerato maggiormente “credibile”. Invece di riconoscere e affrontare le vulnerabilità, di fatto, anche nella gestione dei singoli casi il sistema gestisce le fragilità con ordinarie punizioni che non fanno altro che esasperare il disagio di persone come Youssef, affette da disturbi mentali complessi. Il carcere, così com’è strutturato, fondato su un meccanismo meramente punitivo, sublima la sua inutilità nell’incapacità di offrire alcun tipo di intervento e supporto adeguato per chi si trova in condizioni così problematiche.

Intanto, qualche giorno dopo l’inoltro dell’esposto, è giunta notizia del trasferimento di Youssef al carcere di Alessandria, dove si trova in stato di isolamento, l’ennesima tappa di un doloroso percorso fatto di spostamenti tra istituti penitenziari, senza interesse alcuno per una vera soluzione. Prima di Alessandria, Youssef era infatti stato detenuto a Torino, Cuneo e Marassi, una gestione estemporanea ed “emergenziale” del caso, che non ha mai tenuto conto dei suoi bisogni fisici e psichici. Ogni trasferimento di questo ragazzo da una prigione all’altra non fa che spostare il problema, senza mai affrontare le radici della sua fragilità e anzi peggiorando il suo stato mentale, privandolo di riferimenti stabili, sia umani che medici. Ogni nuovo carcere si traduce per lui in un ulteriore trauma, che compromette la sua già fragile stabilità emotiva e ostacola l’avvio di un percorso terapeutico continuativo, fondamentale per gestire le sue dipendenze e problematiche psichiatriche. Un circolo vizioso che non potrà mai risolvere la condizione di Youssef o né di nessun altro detenuto che si trova in situazioni simili.

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