La “celebrazione” riservata da Sergio Mattarella al 9 maggio è stata un concentrato di affermazioni “storiche” che andrebbero come minimo “decostruite”, perché ridisegnano – nei fatti, non sappiamo se anche nelle intenzioni – il profilo costituente della Repubblica nata dalla Resistenza. Annullandolo.
La sintesi è stata consegnata a Maurizio Molinari, direttore di Repubblica. Ed appare una scelta significativa: il giornale di punta della famiglia Agnelli, nonché un direttore indicato – nelle redazioni italiane – come “in odor di Stati Uniti e Israele”, e/o delle loro “agenzie”. Un modo quasi esplicito di ribadire la “collocazione euro-atlantica”, forse decisamente più atlantica che “euro”.
Le perle infilate in questa collana sono pressoché infinite, dunque converrà citarle e affrontarle una per una, senza pretese esaustive (servirebbe un saggio), in modo da chiarire al lettore sia il merito che il metodo di questa narrazione fantastica.
Procediamo in modo semplice: prima la citazione, poi l’analisi.
1) “Sono stati anni molto sofferti, in cui la tenuta istituzionale e sociale del nostro paese è stata messa a dura prova. Oltre quattrocento le vittime in Italia, di cui centosessanta per stragi”.
Mettere insieme, come fossero la stessa cosa, le stragi di Stato con la lotta armata contro lo Stato è un vecchio leit motiv della propaganda democristiana anni ‘70…
Il partito che ordinava le stragi, organizzava i depistaggi controllando i servizi segreti, manovrava all’interno della magistratura spostando giudici e sedi processuali (clamorosa quella del processo per la strage di Piazza Fontana, da Milano a Catanzaro), si “copriva” anche allora enfatizzando al massimo “la violenza” della risposta di massa. Anche se per anni – dal 1968 al ‘72 – l’unica vittima dalla parte dello Stato fu un agente di polizia, Annarumma, morto alla guida del camion con cui cercava di investire manifestanti inseguendoli lungo la strada. Gli altri, decisamente di più…
Insomma: mettere nello stesso calderone le vittime della violenza stragista degli oppressori – che in quel mondo tentavano di interrompere la crescita delle rivendicazioni operaie, popolari e studentesche – e quella degli oppressi che hanno dovuto constatare la “sordità” del potere e la sua infamia omicida (attribuire la strage di Piazza Fontana agli anarchici fu un lavoro preparato a lungo, a partire dalle infiltrazioni di fascisti e agenti di polizia, molto prima che scoppiasse la bomba) è un’operazione di riscrittura storica sulla falsariga di un Andreotti o un Tambroni.
2) “La Repubblica [lo Stato, ndr] non ha mai identificato nel conflitto delle opinioni e il loro confronto, anche aspro, un pericolo o un nemico. Al contrario, la stagione delle lotte sindacali, come quella delle manifestazioni studentesche […] hanno rappresentato forti stimoli allo sviluppo di modelli di vita ispirati a maggiore giustizia e coesione sociale”.
La storiografia ordinaria, da molti decenni, ha collocato la “strategia della tensione e delle stragi” come risposta dello Stato ai movimenti di protesta, sia studentesca che operaia.
Piazza Fontana, 12 dicembre 1969, arriva al culmine dell’”autunno caldo” operaio, e costringe i sindacati dei metalmeccanici a firmare nottetempo un contratto nazionale che accoglieva solo in parte le richieste dei lavoratori.
Gli unici punti di differenziazione, tra gli storici, sono sulla condivisione delle responsabilità: tutto l’establishment democristiano d’allora o soltanto una sua parte, sia pure molto influente?
Sostenere che lo Stato abbia accolto quei movimenti come “forti stimoli” al proprio cambiamento è una formula verbale che neanche Andreotti ha mai osato pronunciare (e non che se ne sia risparmiate molte…).
Li ha invece accolti con la repressione nelle piazze e nei tribunali, un certo numero di manifestanti uccisi dalla polizia, molte condanne, lo scatenamento dei picchiatori fascisti (dopo aver fallito i tentativi di infiltrarli nel movimento del ‘68, a partire da Valle Giulia e con Stefano Delle Chiaie & co.), con le stragi e il tentativo di attribuirle a settori marginali di quei movimenti (l’omicidio di Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi è parte integrante di quella strategia, sebbene si sia trattato di un “incidente” nel corso di un “normale interrogatorio”).
E’ stata questa risposta a far nascere il “bisogno di resistenza” che si è poi, in parte dei movimenti, trasformato in lotta armata. Su questo esiste una letteratura ormai sterminata, che non verrà cancellata certo da una “narrazione” rovesciata e preistorica (cioè: in voga già prima che la Storia si svolgesse effettivamente).
Curioso, in questo senso, che non venga più ricordato – a livello istituzionale – il tentato golpe del 1971, detto “golpe Borghese” (capeggiato dall’ex comandante della X Mas nel regime fascista), che pure arrivò ad occupare il ministero dell’Interno, non una palazzina abbandonata di periferia…
Sul piano strettamente storico si può dire che in tutto l’Occidente capitalistico la risposta del potere ai movimenti del ‘68 fu identica: dagli Usa alla Germania, dall’Italia alla Francia di De Gaulle, dall’America Latina all’Africa.
Nei paesi del centro industrializzato ci si limitò (fu sufficiente) all’ordinaria repressione (cariche, arresti, qualche uccisione,condanne, modifiche costituzionali autoritarie). Nei paesi periferici, con minori articolazioni sociali e istituzionali, ci furono molti golpe militari.
L’Italia, a metà strada tra i due livelli, ma percorsa da movimenti di straordinaria radicalità, dimensione di massa, capacità di durata, “si distinse” per la strategia delle stragi – tutte e senza eccezioni ordinate e poi coperte dai governi democristiani, eseguite da fascisti e/o agenti dei servizi (si veda la tardiva confessione di Digilio, fascista collaboratore sia della Cia che del Sid – servizio di informazione militare).
Una sorta di “via di mezzo” tra il colpo di stato e ordinaria repressione.
Impossibile che Mattarella non lo sappia…
3) “La radicalizzazione ideologica di frange nichiliste introduce a partire dagli anni ‘70 modelli di terrorismo ‘fai da te’, gruppi che ritengono di porsi come isolate avanguardie contro tutto e contro tutti, ispirate all’aberrante teoria del superuomo o a quella della prevalenza della massa sulla persona”.
Qui i ghost writer del Presidente qui si sono fatti prendere la mano dall’ispirazione letteraria. Ridurre il fascismo a “teoria del superuomo” e il comunismo a “prevalenza della massa sulla persona” può giocare brutti scherzi. In entrambi i casi, il tentativo è quello di ricondurre i fenomeni politici alla sfera delle “patologie”.
Che tra i fascisti il mito del “superuomo” trovi terreo fertile, è ufficiale e rivendicato. Ma nella storia concreta di questo paese non è stata questa la caratteristica pratica dei fascisti che hanno ucciso e/o piazzato bombe. E’ stato invece il loro dipendere strettamente dagli organi dello Stato, in special modo dai servizi segreti (per nulla “deviati”, anzi…).
Questo legame mai reciso andrebbe spiegato dalle istituzioni e quindi soprattutto dal Presidente della Repubblica. Buttarla in ideologia “malata” è il contrario della “ricerca della verità” (ci arriveremo…). E’ un modo di nasconderla e renderla invisibile…
Quanto alla “prevalenza della massa sulla persona”, duole dirlo, proprio la pandemia ha dimostrato che che “l’individualismo” capitalistico produce disastri inenarrabili per la massa. Stragi di proporzioni belliche, derubricate però in numeri da ammannire quotidianamente, dosi di veleno per rendere i cervelli incapaci di reagire all’orrore. Anzi, per moltiplicarlo (“bisogna far andare avanti gli affari ‘e pazienza se qualcuno morirà’“).
Come se “la persona” singola potesse valere più della “massa”, che evidentemente viene considerata fatta di “non persone”, untermenschen…
Il che, sarà una coincidenza, rimanda proprio alla teoria del “superuomo” (c’è chi conta e chi no), o alla più nota battuta del Marchese del Grillo…
4) “Fu grave e inaccettabile quel processo mentale, prima che ideologico, che portò alcuni italiani – pochi – a dire: questo Stato, questa condizione politica, non risponde ai miei sogni, è deludente e, visto che non siamo riusciti a cambiarlo con il voto, abbattiamolo”.
Quel che è inaccettabile, per onestà intellettuale, è ridurre movimenti politici e sociali a “questione psicologica individuale” (“processo mentale” di “pochi” italiani). Anticamera delle “terapie psichiatriche” (ipotizzate in Germania contro i militanti della Raf, in special modo contro Ulrike Meinhof, uccisa il 9 maggio del 1977), a soprattutto della spoliticizzazione del conflitto.
Sul piano storico, peraltro – come spiegato nei punti precedenti – il problema non era (e non è) “non riuscire a cambiare l’equilibrio politico con le elezioni”, ma il tipo di risposta che lo Stato diede ai movimenti che chiedevano diritti, salario, cambiamento istituzionale, altre priorità sociali.
E una risposta stragista, oltre che repressiva, toglie qualsiasi credibilità anche al rito elettorale. Puoi anche vincere, ma poi scatta il golpe.
Esempio? Nel 1973, l’11 settembre, venne rovesciato con un golpe militare il governo di Salvador Allende, regolarmente eletto nel 1970. Un evento che esplicitava in modo agghiacciante come la conquista del governo possa non coincidere affatto con la conquista del potere (la possibilità di fare leggi e farle rispettare da tutti).
Questo era “il contesto” dello scontro politico e sociale, a livello mondiale, in quegli anni. Ridurlo a psicologia spicciola non sarebbe semplice neanche per un Recalcati…
5) “L’obbiettivo del terrorismo rosso era di approfondire i solchi e le contrapposizioni nella società e nella politica, per spingere il proletariato a fare la rivoluzione, cercando di delegittimare i partiti della sinistra tradizionale, accusati di essersi imborghesiti”.
Lasciamo da parte le definizioni specifiche (“terrorismo” è un termine che ogni potere usa “ad hoc”, per identificare un nemico contro cui si possa fare qualsiasi cosa; tanto che non esiste nel mondo una definizione condivisa del termine, ma solo elenchi di sigle che per alcuni regimi sono “terroristi” e per altri sono “combattenti per la libertà”), e concentriamoci sull’”obbiettivo”.
Che è poi identico in qualsiasi lotta rivoluzionaria, in qualsiasi paese. Ovunque, ancora oggi, a una crisi socio-economica si può rispondere in senso conservatore o riformista, cercando di ripristinare gli equilibri saltati oppure “correggerli” quanto basta a farli funzionare ancora.
Se queste soluzioni soft non funzionano, resta la via reazionaria (cambiare tutto sul piano istituzionale per confermare gli interessi sociali egemoni) oppure quella rivoluzionaria (cambiare gli interessi sociali prevalenti e dunque assumere un assetto istituzionale corrispondente alla difesa/affermazione di quegli interessi).
Dopo oltre 40 anni di negazione della natura politica della lotta armata, insomma, Mattarella ammette apertamente che di lotta politica si trattava e non di un “crimine”. Anzi, si spinge ad affermare che fu addirittura una “guerra asimmetrica” (rovesciando come sempre i termini della questione, che sarebbe troppo lungo affrontare qui).
Ma l’aver preventivamente ridotto quella pratica a “questione psicologica individuale di pochi” dovrebbe consentirgli – secondo lo schema logico traballante che è stato scelto – di continuare a negare la politicità di quella lotta. O almeno delle soluzioni previste nella Storia per tutti i conflitti politici; anzi, per le “guerre” (fucilazione o amnistia).
Mattarella sta dicendo solo che la via rivoluzionaria deve essere combattuta sempre e comunque, perché gli interessi sociali dominanti non devono poter essere messi in discussione davvero. Pensare di cambiare modello sociale e industriale, e ovviamente anche le alleanze internazionali, è vietato. Al limite è – sarà considerato – “terrorismo”. A prescindere dalle forme di quella opposizione.
6) “Il terrorismo nero, accanto a suggestioni nostalgiche di improbabili restaurazioni, è stato spesso strumento, più o meno consapevole, di trame oscure, che avevano l’obbiettivo politico di rovesciare l’asse politico del paese, provocando una reazione alle stragi che conducesse a un regime autoritario, com’era avvenuto in Grecia”.
Vogliamo far notare, in primo luogo, la “delicatezza” di chiamare “regime autoritario” una dittatura militare alle porte di casa, che produsse tra l’altro la strage di studenti al Politecnico di Atene. E questa era la definizione preferita dalla peggiore Democrazia Cristiana di quegli anni…
Ma la “perla” più notevole è quel “trame oscure” che consente di annegare una enorme massa di prove giudiziarie, testimonianze, ricostruzioni storiografiche obbiettive, perizie, confessioni, indagini, ecc, nel minestrone indistinguibile del “mistero”. La classica “notte in cui tutte le vacche sono nere”, ma con un di più di malizia non innocente.
Non staremo qui ad elencare le inchieste giudiziarie, a partire da quella del giudice Salvini (Guido, a scanso di equivoci…), che ha accertato oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza dei fascisti e dei servizi nella strage di Piazza Fontana (e di quelle successive, con inchieste svolte da altri magistrati). In quel caso non ci potè essere la condanna solo perché erano già stati assolti in un primo processo (quello “finito a Catanzaro”, proprio per raggiungere quel risultato). E giustamente non si può processare nessuno due volte per lo stesso fatto…
Cose che un ex componente della Consulta, nonché fratello di una vittima di mafia (e/o dei fascisti), e infine Presidente della Repubblica, conosce certo meglio di noi. Ma che tutto sono, meno che “oscure”. Semmai volontariamente oscurate…
Il silenzio e la vaghezza su questo fronte sono sempre identici fin dalla nascita dell’Italia repubblicana. Quando i fascisti vennero non solo amnistiati (da Togliatti, peraltro), ma anche mantenuti nei posti che avevano all’interno dell’amministrazione pubblica e soprattutto degli organi più delicati (polizia, carabinieri, magistratura).
Un esempio per tutti: Guido Leto, capo dell’Ovra fascista (il servizio segreto che dava la caccia agli antifascisti), che invece di esser mandato alla fucilazione fu incaricato prima di riattivare gli stessi servizi segreti e poi concluse la carriera come capo delle scuole di polizia.
Rispetto a quei tempi, però, c’è stato sicuramente un avanzamento verso il peggio. Fino agli anni ‘90, infatti, i fascisti potevano avere tutto l’agio di esistere e organizzarsi, collaborare con i servizi segreti e avere un proprio partito (il Movimento Sociale Italiano). Ma non quello di poter far parte di un governo.
Come sappiamo, Berlusconi ha rotto la diga antifascista anche sul piano puramente formale, e da 30 anni gli eredi espliciti o mascherati del fascismo possono stare al governo. Lo sono anche in questo momento, con i ministri leghisti e la finta opposizione della Meloni.
La Terza Repubblica, insomma, non è più fondata sull’antifascismo, ma sull’”antiterrorismo”.
E l’unico “terrorismo” realmente combattuto, in oltre 50 anni, è quello rivoluzionario, comunista, di sinistra. E’ un fatto, non un’opinione.
7) “Lo stato di diritto, la Repubblica democratica, seppero battere il terrorismo senza venire mai meno alla pienezza della garanzia dei diritti fondamentali, senza leggi eccezionali”
E’ impossibile pensare che Mattarella non sappia che questo paese ha conosciuto una lunga stagione di “legislazione di emergenza”, con “misure antiterrorismo” scritte direttamente dai magistrati inquirenti e poi fatte approvare in Parlamento.
E’ impossibile che non sappia quanto la discussione su questo punto abbia attraversato anche la Democrazia Cristiana (e il Pci) contrapponendo quanti sostenevano la necessità di proclamare uno “stato di emergenza” – da cui recedere non appena “risolto militarmente il problema”, senza però intaccare i princìpi giuridici dell’ordinamento “ordinario” – e quelli che invece hanno fatto sì che quelle leggi venissero considerate “normali”, incorporandole nel codice e stravolgendo per sempre l’impianto delle garanzie costituzionali.
E’ impossibile che non sappia – o abbia saputo in seguito – che questa fu una delle ragioni di contrasto tra Cossiga (schierato sulla prima ipotesi) e Andreotti (fautore della seconda, risultata vincitrice grazie alla lungimirante cecità del Pci in versione Pecchioli).
E’ impossibile che non sappia – ci sono state sentenze passate in giudicato, proprio nel periodo in cui era membro della Corte Costituzionale – che questo “Stato democratico” ha fatto ampio ricorso alla tortura, durante quegli anni, al punto che ancora oggi “resiste” all’approvazione di una vera legge in materia, considerata “lesiva delle possibilità d’azione degli inquirenti”.
Ma se lo sa, perché nega la realtà dei fatti, ancora oggi riscontrabile nel dibattito giuridico?
A voi la risposta…
8) “L’esigenza di una verità completa è molto sentita dai familiari. Ma è anche un’esigenza fondamentale per la Repubblica. Il trascorrere del tempo non colloca quanto avvenuto tra gli eventi ormai, esausti, consumati, da derubricare.”
Siamo oltre le colonne d’Ercole della razionalità. Non per difetto di comprensione, ma per intrinseche necessità della “narrazione” scelta. Una volta piantati tanti pilastri non corrispondenti al vero, proprio la verità è destinata a fare la parte dell’inconoscibile.
L’”esigenza di una verità completa” si può infatti raggiungere in mille modi (ricerca storica obbiettiva, revisione dei processi celebrati, escussione di nuove testimonianze, ecc). E non si capisce – se non nella logica della “vendetta esemplare” – perché debba passare per l’arresto e l’estradizione di alcuni ormai anziani ex combattenti che la Francia aveva accettato – di comune ancorché tacito accordo con l’Italia, ma nel 1985 – di ospitare sul proprio territorio.
Cosa dovrebbero dire che non sia stato detto in alcune centinaia di processi, dove sono state condannate alcune migliaia di persone, per alcune decine di migliaia di anni di galera, innumerevoli ergastoli, con centinaia di pentiti e dissociati che hanno riempito tonnellate di verbali?
Tra quegli esuli, e pochissimi altri per loro fortuna rifugiatisi in altri paesi, non ci sono oltretutto nemmeno dirigenti di primo piano delle Br o di altre organizzazioni. Il loro “frammento di verità”, estorto col carcere negli ultimi anni di vita (da sommare a quelli già scontati), difficilmente potrebbe aggiungere qualcosa di importante o “rovesciare” il senso dell’insieme.
Lo abbiamo visto decine di volte, anche con “pentiti” disposti a dire proprio tutto (persino il nome del medico aveva salvato loro la vita, da feriti). Alla fine, non era comunque “soddisfacente”… Ci voleva “altra verità”, quella che serve a chi comanda ora. E che dunque è mutevole nel tempo…
L’insufficiente “trascorrere del tempo” (altro argomento sbandierato) poteva essere magari giustamente invocato contro l’amnistia per i fascisti – 22 giugno 1946 – giunta ad appena un anno dagli ultimi massacri di massa. Ma oggi, a 40 anni e più dai fatti, com’è possibile che sia “urgente” incarcerare quelle poche persone?
L’unica “urgenza” razionalmente invocabile è il loro essere anziani, quindi esposti al rischio di tutti quelli della loro età. Ora o mai più, insomma…
Ieri, sempre su Repubblica, Veltroni ribadisce il concetto: “Si può dare clemenza solo in cambio di verità”. Che contiene un doppio dispositivo falsificante: il primo è un ricatto esplicito, fatto nella fantasiosa ipotesi che alcune persone – appunto in là con gli anni – siano disponibili a dire qualsiasi cosa (una versione gradita ai governanti attuali) pur di “ottenere clemenza”.
Il secondo è che “la verità giudiziaria” – che è servita ad emanare condanne e mandati di cattura internazionali – non è considerata una verità spendibile politicamente. Ma delle due, l’una: o è una verità “sufficiente” a privare della libertà, oppure quelle sentenze sono un errore. E allora andrebbero rifatti i processi e le stesse indagini che hanno portato ai mandati di cattura…
Ma soprattutto, dati alla mano, le verità che mancano sono quelle che lo Stato italiano non ha mai voluto dire. A proposito di stragi, depistaggi, coperture, infamie varie, da allora fino ad oggi. Su questo, in effetti, c’è ancora molto da scoprire. Ma solo quanto ai dettagli, ai singoli nomi. La “verità storica”, come ebbe a scrivere Pier Paolo Pasolini quasi 50 anni fa, era già nota, nelle sue linee generali.
Quella di Veltroni è dunque solo una scoperta operazione propagandistica di supporto, dunque, coordinata da Repubblica con fondamenti ancora più sgangherati. Ma dà l’idea della pochezza generale dell’operazione.
Che si riduce – al dunque – a un maquillage dell’immagine dello Stato italiano: “Era una decisione che lo Stato italiano chiedeva da tempo […] Ringrazio il presidente Macron: con la sua decisione ha confermato amicizia per l’Italia e manifestato rispetto per la nostra democrazia”. “Rispetto” che, evidentemente, gli altri presidenti, e lo stesso Macron fino ad oggi, non manifestavano affatto (per 40 anni!).
Ma ora c’è Mario Draghi, la sua “autorevolezza internazionale”, e una telefonata risolve tutti i problemi e scioglie tutti i nodi storici.
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9) “ Vi furono palesemente, posizioni inaccettabili di alcuni intellettuali dell’epoca […] oggi non si può neppure ipotizzare l’idea dell’equiparazione tra Stato e Brigate Rosse, senza avvertire legittimo sdegno, ma neppure allora era legittimo farlo”.
E’ forse la più pesante e grave delle affermazioni fatte da Mattarella.
La frase famosa – “né con lo Stato, né con le Br” – non fu pronunciata da nessuno, ma fu un titolo con cui il giornale di Lotta Continua sintetizzava l’imbarazzo degli intellettuali che non potevano ovviamente schierarsi con le seconde, ma avevano alcune migliaia di ragioni per considerare quello Stato – democristiano e stragista – impossibile da sostenere.
Una spiegazione un po’ meno sintetica, ma breve, fu data da Alberto Moravia che sul Corriere della Sera (oggi gli avrebbero cestinato l’intervento) scrisse che non solo non “avrebbe mai voluto scrivere una sola riga come quelle che scrivono le Brigate rosse nei loro proclami”, ma – nel contempo – non avrebbe“mai scritto una sola delle tantissime parole che, in discorsi, articoli, libri, hanno scritto gli uomini dei gruppi dirigenti italiani negli ultimi trent’anni, né fatto una sola delle tantissime cose che essi hanno fatto da quando sono al potere”.
In realtà, anche tra gli intellettuali – di ben altro spessore rispetto all’oggi, come del resto la classe politica – si formarono i due partiti detti “della trattativa” e “della fermezza”, che accompagnarono le mosse del Psi (e parte della Dc) o Andreotti-Pci durante il sequestro di Aldo Moro.
La gravità della narrazione di Mattarella sta allora in questo: dichiarare inammissibile la critica radicale dei comportamenti dello Stato, qualunque cosa faccia. Parliamo di una critica “sostanziale”, sulle scelte fondamentali, non sulle quisquilie con cui si riempiono giornali e talk show…
E’ l’annuncio di un futuro da democratura per l’Italia, in cui non è prevista alternativa al “pensiero unico”. E’ in realtà già il presente, sia nel mondo dell’informazione che nel Parlamento. Tutto ciò che “dirazza” da quell’universo di “discorsi ammessi” è ridotto a marginalità, in attesa di cancellazione. Specie per quanto riguarda i “problemi di sistema”, che richiedono – come mostrano abbondantemente la pandemia o il disastro climatico – un altro modo di vivere e produrre.
P. S. Un’operazione concettualmente deformante la verità storica non poteva che avvalersi di un media di bassissima qualità professionale, come l’attuale Repubblica. Uno dei box di accompagnamento dell’intervista è dedicato ai “latitanti” non in Francia, che si vorrebbero riportare a casa. Pardon, in carcere…
Anche in questa parte si condivide lo strafalcione giuridico diventato “normale” nel trattare questo tema. Quelli non sono “latitanti”, ma rifugiati accolti, controllati, accettati da diversi Stati, anche molto diversi tra loro. Altrimenti quegli stessi Stati li avrebbero riconsegnati all’Italia o all’Interpol già qualche decina di anni fa.
La differenza dovrebbe esser chiara non solo ai giuristi, ma anche a un normale cronista. Un “latitante” è uno/a che si nasconde, gira con documenti falsi, “non esiste” per lo Stato in cui risiede. Un “rifugiato” ha i documenti in regola, usa il suo nome, ha un indirizzo, paga affitto e bollette, lavora o ha un’attività propria, un mezzo di locomozione comprato regolarmente, matura il diritto alla pensione, ecc.
Sono una ventina di persone in tutto, nomi presi dagli archivi senza neanche la normale preoccupazione giornalistica di vedere se le informazioni sono aggiornate o meno.
In prima fila ovviamente Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono, gli unici due accusati di far parte del nucleo operativo a via Fani che non sono mai stati arrestati in Italia.
a) Su Lojacono è necessario smontare una falsità decisiva: scrive l’anonimo cronista del giornale agnelliano: “Più ingarbugliato il caso di Lojacono, 65 anni, mai transitato per un tribunale italiano. Cittadino svizzero, è stato in carcere nove anni in Ticino dopo una condanna a 17 anni”.
Detta così, sembra che si parli quasi di un “delinquente abituale” a cavallo tra i due paesi. In realtà – cosa che Repubblica si guarda bene dal dire, o forse non ha provato nemmeno a sapere – Lojacono è stato arrestato in Svizzera in esecuzione dei mandati di cattura italiani (sul sequestro di Moro e annessi), ri-processato secondo il codice elvetico e quindi condannato alla massima pena prevista da quel codice. Ha poi scontato la pena ovviamente secondo le regole di quello Stato (che gode di una certa reputazione internazionale, peraltro).
Dunque ha pagato pienamente il suo conto “con la giustizia”.
A meno che non si pretenda di processarlo e condannarlo due volte per gli stessi fatti…
b) Tra i latitanti in Francia viene ancora annoverato Enrico Villimburgo, romano di Centocelle, di cui abbiamo pubblicato quasi due anni fa questo ricordo.
Un giornale e una classe dirigente che vorrebbero portare in galera anche i morti dànno la misura della loro credibilità/onestà intellettuale. Perché è certamente vero che “la Storia viene scritta dai vincitori”. Ma la qualità di quella narrazione dipende dalla statura degli scriventi.
Francesco Piccioni
da contropiano