I raver avevano promesso che non si sarebbero fatti spaventare dal decreto, e così è stato. La giornata di protesta contro l’articolo 633bis è stata un successo. A Napoli, Firenze, Bologna e Torino diverse migliaia di persone hanno sfilato in quattro street parade, cortei musicali puntellati da camion muniti di sound system.
«Siamo in piazza per rivendicare il diritto alla musica, alla socialità, alla sperimentazione fuori dalle logiche di mercato» ha dichiarato la rete Smash Repression che ha organizzato la manifestazione partenopea. Mobilitazioni si sono svolte anche in Francia, a dimostrazione del carattere transnazionale della realtà dei free party.
A Roma la protesta ha preso una forma diversa, più radicale e in linea con la filosofia rave: oltre cinquecento ragazze e ragazzi si sono dati appuntamento nei giardini tra Circo Massimo e Terme di Caracalla e hanno dato vita ad una festa illegale in pieno centro. «Contro un provvedimento liberticida rispondiamo con un’azione di ripresa dello spazio in modo libero, autogestito e autoprodotto», era scritto sul flyer digitale che ha convocato l’iniziativa «senza chiedere il permesso».
Il volantino insisteva anche su come lo spettro del decreto incomba su tante altre attività: «Oggi è toccato ai rave ma domani toccherà a chi occupa le scuole, le università, le fabbriche, le case, a chi sceglie di scendere in strada, a chi decide di lottare e a chi non ha altra scelta».
TRE I SOUND system che per tutto il pomeriggio hanno sparato musica tekno e animato le danze. Il clima era allegro e festoso, molto lontano dalle immagini di «degrado» che vengono spesso associate a questo tipo di raduni. Ma l’elemento intorno a cui si dovrebbe incardinare la trasformazione del decreto in legge per specificare meglio la fattispecie di reato, ovvero il consumo di droghe, potrebbe comunque sulla carta essere contestato: qualcuno fumava delle canne. Qualcun altro assumeva alcol. Birra, vino e sangria. Tanto basta.
Le forze dell’ordine hanno circondato il raduno sin dall’inizio: sette camionette, un perimetro di agenti in tenuta anti-sommossa che «per ragioni di ordine pubblico» ostacolavano l’accesso e poi la digos munita di telecamere. Magari a distanza di tempo le immagini serviranno a far partire qualche denuncia. Proprio davanti a quegli obiettivi una decina di ragazzi ha srotolato uno striscione nero con le scritte bianche e rosse in solidarietà al detenuto anarchico Alfredo Cospito: «No al 41 bis, no all’ergastolo ostativo». Altri striscioni contro il carcere, dove il governo vorrebbe mandare chi organizza e partecipa ai rave, sono stati appesi tra gli alberi. Per terra delle tovaglie dove sedersi e condividere panini e frittate. Sulle teste qualche ombrello rosso e arcobaleno aperto appena ha iniziato a piovere.
A UN CERTO PUNTO un gruppetto di persone ha provato a superare lo sbarramento delle forze dell’ordine che negava loro di avvicinarsi alla musica. Dal microfono hanno detto: «Restiamo uniti e non rispondiamo alle provocazioni. Manteniamo la Taz». Taz è una sigla inglese che significa zona temporaneamente autonoma, idea formulata dal pensatore anarchico Hakim Bey all’inizio degli anni ’90. Le forze dell’ordine stavolta non l’hanno dispersa né con la forza né con gli strumenti previsti dal decreto come la confisca della strumentazione, evidentemente si è preferito optare per una linea morbida per non esacerbare gli animi. La repressione può attendere, mentre i partecipanti smontano lentamente i sound e si dissolvono nella sera di Roma.