Nel corso d’una recente intervista esclusiva la giornalista kurda Sibel Güler ci aveva rivelato questo paradosso: tutti i magistrati che avevano trattato il caso suo e di altri 46 cronisti accusati d’essere membri o simpatizzanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan e dunque terroristi (secondo il governo turco, l’Unione Europea, gli Stati Uniti) erano finiti essi stessi in galera, epurati da Erdoğan.
Le purghe continuano anche perché il governo Yıldırım ha prorogato di altri tre mesi la legge d’emergenza per ragioni di sicurezza nazionale. Così giunge notizia che un grosso numero di poliziotti, addirittura tredicimila, sono stati licenziati con la solita accusa d’essere vicini all’organizzazione Fetö, considerata la mente del golpe fallito di luglio. Nulla di nuovo, perché le epurazioni si sono materializzate già nelle ore successive al tentativo armato e dall’arresto di ufficiali, soldati, poliziotti si è passato alla carcerazione di giudici, insegnanti, impiegati e burocrati, oltre che dei soliti giornalisti e attivisti d’opposizione. Gli ultimi passi repressivi hanno mostrato una nuova veste: il silenzio. Agenzie e organi di stampa normalizzati (due esempi per tutti Anadolu agency e Hürriyet) hanno taciuto la notizia, che pure dovrebbe interessare il cittadino medio per la quantità delle dimissioni. Inutile dire che su ulteriori giri di vite del regime, come la chiusura dell’ennesimo organo d’informazione kurdo (IMC TV) avvenuta ieri, si trova un’eco solo su certa stampa internazionale. Nelle case turche simili notizie non entrano.
E’ una vecchia tattica delle dittature – palesi, occulte più o meno mass mediaticamente evolute – nascondere, sviare, parlare d’altro dà sempre una mano al Potere. L’emittente è accusata di diffusione di contenuto terrorista, che altro non è che l’informazione quotidiana sulla situazione interna. Banu Guven, decano della tv kurda intervistato da Al Jazeera ha dichiarato: “Nei nostri servizi trattiamo la questione kurda, ma anche diritti umani, diritti delle donne e delle minoranze etniche, oltre a informare sui divieti imposti nella nostra società. Nella Turchia dello stato d’emergenza non ci sono strumenti contro certe accuse illegali”. Più d’un commentatore fa notare che l’emergenza segue la prassi di ‘ordini esecutivi’ che aggirano il percorso parlamentare. Cosicché dallo scorso luglio la “minaccia alla sicurezza nazionale” è un mantra che permette la chiusura di voci non solo di semplici cittadini, ma soprattutto di organi d’informazione di parte e super partes. Sempre Al Jazeera ha raccolto anche le posizioni dei think tank dell’erdoğanismo o comunque di coloro che sostengono l’esecutivo dell’Akp. Talip Kucukcan, accademico prima che parlamentare del partito di governo, afferma: “Il Paese è in una fase di palese emergenza: deve fare i conti con le conseguenze del tentativo di golpe, gli attentati dell’Isis e del Pkk. Ha perso più di 500 militari in questi attacchi e non può tollerare media e organizzazioni che sostengono le ragioni di questi crimini. Anche la Francia vive il suo stato d’emergenza in una situazione non certo paragonabile a quella turca”. Le riflessioni critiche rimaste finora libere di volare – visto che anche illustri intellettuali come l’economista Mehmet Altan, sono finiti nel mirino degli agenti fedeli al ministro dell’Interno – sono quelle del premio Nobel della letteratura Orhan Pamuk.
“La libertà di pensiero non esiste più in questo Paese, passato rapidamente dalla norma di legge alla regola del terrore” ha detto lo scrittore, secondo il quale anche le critiche antigovernative più deboli potrebbero condurre in prigione. Visto che tutta la campagna intessuta come “difesa della sicurezza nazionale” è guidata da un odio di fazione contro vari nemici. I kurdi certamente, per la doppia strada armata e legale che continuano a sostenere. La componente progressista della società organizzata in progetti politici come quello del Partito democratico del popolo, che toglie spazio alla parte riformista del partito repubblicano, riunisce diverse anime della sinistra turca e le avvicina alle ragioni kurde, raccoglie adesioni giovanili e protestatarie contro una società a una dimensione che fa il verso a un nazionalismo in salsa islamista. Un Islam politico trasformatosi rapidamente da conservatore a reazionario, e non a caso, visitato anche dall’elettorato del kemalismo fascistoide che non trova più nell’Mhp un partito capace d’incidere. Bisognerà vedere se l’enorme apparato di consenso gülenista, che Erdoğan e il suo staff ben conoscono per averlo avuto come alleato tattico negli anni del connubio pre e post conquista del potere, addiverrà a più miti consigli. Passando dall’imam della Pennsylvania al sultano di Ankara in base alla repressione in atto e al senso di terrore citato da Pamuk. Oppure se, dopo la sfuriata repressiva, muterà orientamento unendosi al mondo turco laico che non rifiuta l’Islam, bensì il progetto neo Ottomano trasformatosi da sogno a incubo.
Enrico Campofreda da contropiano