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Le crepe del 41bis

Come ha spiegato Angela Davis, il carcere serve a rimuovere pratiche e soggettività che vengono alterizzate nel quotidiano. Per questo empatizzare con le persone detenute viene considerato un atto di lesa maestà

di Ludovica FormosoTatiana MontellaIvonne Panfilo

Alfredo Cospito è in sciopero della fame contro il regime del 41 bis e contro l’ergastolo ostativo da ormai più di cento giorni. La sua vicenda ha avuto fin dall’inizio la capacità di smuovere temi che non erano mai stati così largamente trattati e discussi. Attraverso il suo sciopero della fame, condotto a oltranza e fino all’ultimo respiro, Cospito sta infatti costringendo una parte di società civile e di sinistra, spesso incline al giustizialismo, a prendere posizione e a uscire dall’ambiguità.

«Misure eccezionali» che diventano norma

L’applicazione del 41 bis a un anarchico individualista, accusato di aver commesso una strage senza vittime né feriti, e la decisione di intraprendere uno sciopero della fame a oltranza hanno messo finalmente all’ordine del giorno la questione del cosiddetto «carcere duro» e costretto a chiedersi perché questo venga applicato al di fuori delle ipotesi per cui era stato ideato, ossia come strumento di lotta alla mafia.

Chiunque conosca approfonditamente la storia di questo paese sa che non si tratta della prima volta che una misura eccezionale, introdotta temporaneamente al fine di risolvere un’emergenza, senza dubbio grave e contingente, e limitata solo ad alcune categorie di soggetti, diventa norma inserendosi stabilmente nell’ordinamento e trovando un’applicazione sempre più estesa e ampia, ben oltre i casi per i quali era stata pensata. Gli esempi sono innumerevoli: dalle leggi dell’emergenza introdotte negli anni Settanta fino appunto all’intera legislazione antimafia.

È anche la storia del regime penitenziario di cui all’art. 41 bis II comma. Introdotto dopo la strage di Capaci del 1992, come misura eccezionale e temporanea, dopo alcuni decreti che ne prolungavano l’efficacia, è stato stabilmente inserito nel nostro ordinamento nel 2002 e la sua applicazione è stata estesa anche chi è accusato di reati con finalità di terrorismo, purché commessi con atti violenti.

Non a caso dal 2005 sono detenuti in 41 bis, nel silenzio più totale, i tre esponenti delle nuove Brigate Rosse Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma, in un regime di detenzione dura che viene prorogato senza che vi siano evidenti prove che l’organizzazione di appartenenza sia ancora esistente e vitale.

Attualmente, i detenuti in 41 bis sono 749 (ultimo rapporto Antigone). E il fatto che questo numero si sia mantenuto costante nel corso degli anni, dimostra come sia difficile uscirne. Lo scopo dovrebbe essere recidere i collegamenti con l’organizzazione criminale di appartenenza, per evitare che i boss continuino a dare ordini e direttive anche dal carcere. In realtà, attraverso questa giustificazione è stato creato un regime carcerario che definire duro appare un eufemismo: gruppi di socialità ristretti, divieto di parlare o salutare gli altri detenuti che non ne fanno parte, un’ora d’aria al giorno in cortili angusti, circondati  di cemento ai lati e di reti sopra la testa per limitare anche l’accesso del sole, esclusione da qualsiasi attività trattamentale o dai benefici penitenziari, colloqui con i familiari limitati a un’ora al mese, videoregistrati e senza contatti fisici, poiché tra il detenuto e i parenti vi è un vetro divisorio, corrispondenza con l’esterno del carcere sottoposta a censura, limitazioni nel numero di oggetti, come i libri o i quaderni, che possono essere detenuti in cella e, fino all’intervento della Corte Costituzionale, divieto di cuocere i cibi.

Si tratta di una vera e propria tortura, fatta di isolamento e condizioni insopportabili, che si pone in netto contrasto con i principi del diritto. L’obiettivo reale è, infatti, quello di annientare il detenuto, spingendolo alla collaborazione.

Collaborare, tuttavia, nel nostro ordinamento non vuol dire solo aiutare ad accertare fatti rimasti poco chiari, ma significa anche attribuire responsabilità ad altri soggetti rimasti ignoti, con la possibilità di scambiare la propria detenzione con quella altrui. Ma subordinare diritti e garanzie dei soggetti ristretti alla volontà di collaborare viola il principio secondo cui nel nostro ordinamento le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e produce torsioni costituzionali dalle quali emerge in modo chiaro un sistema penale giustizialista e vendicativo. Il caso Cospito  ha mostrato quanto accade aprendo un ragionamento su questi temi. Ed è per questo motivo che molti hanno iniziato a sostenere la sua battaglia ben oltre la considerazione che il suo caso fosse immeritatamente sottoposto al 41 bis.

Alfredo Cospito non ha infatti ucciso nessuno e nella presunta organizzazione criminale di appartenenza non vi sono né capi né leader, figure che gli anarchici e le anarchiche da sempre rifuggono. Eppure è stato sottoposto al 41 bis perché dal carcere, dove era già detenuto dal 2012, in regime di alta sicurezza, ha continuato a esprimere il proprio pensiero e le proprie idee politiche pubblicamente e in maniera dialettica con il movimento anarchico.

Le azioni intraprese da Cospito durante la carcerazione, pertanto, non riflettono le azioni criminalizzate dal 41 bis, bensì riguardano la libertà di espressione e di pensiero.

È tuttavia importante sottolineare che le terribili condizioni di detenzione che hanno giustamente indignato la popolazione non sono che la realizzazione concreta della previsione normativa. Cospito non è sottoposto a un regime fatto ad hoc per lui ma è sottoposto al 41 bis e nelle sue identiche e medesime condizioni si trovano gli altri 749 detenuti. Per questa ragione la sua lotta è divenuta la lotta di molti altri e altre.

Il ruolo del sistema carcerario

Con l’unica arma che gli è rimasta a disposizione, ossia con il suo corpo in sciopero della fame, Cospito è riuscito ad allargare il fronte facendo  prendere posizione, oltre ad attiviste e attivisti, intellettuali, docenti di diritto, artisti e artiste, avvocate e avvocati.

In questo quadro l’allarme centrato sull’anarco-insurrezionalismo da parte del governo e degli apparati dello Stato sembra una risposta scomposta a una realtà multiforme e imprevedibile che si è attivata contro il 41 bis.

Questa è, infatti, l’occasione per vedere che il 41 bis come l’ergastolo non sono misure eccezionali ma normalizzate  nella vita carceraria.  Si tratta di luoghi in cui si perpetra una relazione di potere violenta tra lo Stato e l’individuo, che nel regime di «carcere duro» assume la sua forma massima di espressione.

La lotta di Alfredo Cospito spinge quindi a una riflessione più ampia sul ruolo del carcere. La studiosa e attivista femminista Angela Davis ha affermato che il carcere continua a esistere perché utile alla rimozione – fisica e simbolica – di pratiche e soggettività che vengono alterizzate nel quotidiano. Non si può e non si deve empatizzare con le persone detenute, con le quali non ci si può nemmeno identificare. La lotta di Cospito invece ci impone di farlo, di affermare come il carcere sia una forma di punizione che viola principi basilari dei diritti umani.

Nella sua funzione di rimozione, il carcere diventa lo strumento per eccellenza nelle mani dello Stato per «risolvere» il conflitto sociale attraverso la lotta alla criminalità e la sicurezza sociale, per reprimere, alla bisogna, ogni forma di cambiamento.

Abolire ergastolo e 41 bis

Il carattere dirompente della vicenda di Cospito, oltre a mettere in crisi l’adesione prima scontata della società agli abomini del 41 bis e dell’ergastolo, ci mette di fronte ad altri temi. Ci mostra infatti, in maniera evidente, il comportamento delle istituzioni pubbliche che si definiscono democratiche, quando un soggetto che si trova sotto la tutela dello Stato decide di intraprendere una legittima protesta su temi che minano la credibilità dello Stato di diritto.

Se, infatti, anche all’esterno delle mura del carcere, notiamo un’evidente restrizione degli spazi di agibilità politica e di espressione del dissenso, non ci dovrebbe stupire che la protesta di un detenuto, con una chiara appartenenza politica, sia qualcosa che non possa essere tollerata. La protesta di Cospito viene, infatti, chiamata «ricatto» e accoglierla vorrebbe dire «cedere». È questo il modo in cui il Governo cerca di mostrare forza, costruendo intorno a sé un consenso che questa vicenda stava scalfendo. Da un lato viene utilizzato l’arresto di Matteo Messina Denaro per confermare la necessità di mantenere e perpetuare il regime di cui al 41 bis. Dall’altro si costruisce, attraverso le dichiarazioni pubbliche e la complicità di alcuni organi di informazione, un imminente pericolo legato al «terrorismo anarchico» insieme alla repressione dura dei momenti di piazza al fine di criminalizzare la stessa solidarietà intorno alla richiesta di fuoriuscita di Cospito dal 41 bis. Oltre al bieco tentativo di giustificare, proprio in ragione delle mobilitazioni esistenti, la giustezza del regime a lui inferto.

Il tentativo è quello di dividere la mobilitazione tra buoni e cattivi, nella speranza che così facendo i buoni se ne allontanino progressivamente e i cattivi possano essere repressi nel silenzio generale. Va in questa direzione il comunicato del Ministro Carlo Nordio in cui dichiara di rigettare l’istanza difensiva di revoca del 41 bis, che si aggiunge alla fissazione dell’udienza in Cassazione al 7 marzo 2023 quando potrebbe essere troppo tardi.

Non ci sono più scuse o riferimenti a principi di diritto che tengano: il sistema democratico che dà vita e corpo alle istituzioni rende visibili una delle sue crepe più profonde. Non si può far finta di non vedere come i capisaldi delle libertà costituzionali vengano deliberatamente violati dalle stesse istituzioni che li dovrebbero proteggere. La reazione muscolare e scomposta del governo e degli apparati dello Stato rafforza ancora di più la convinzione che la battaglia per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo sia appena iniziata.

 

 

Ludovica Formoso, è coinvolta come avvocata penalista nel processo in cui è stato condannato Alfredo Cospito ed è promotrice della campagna Morire di pena. Tatiana Montella, avvocata penalista, si occupa di diritto all’immigrazione e di violenza di genere e collabora con la clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza dell’università di Roma Tre. Ivonne Panfilo è avvocata impegnata nella tutela dei diritti umani ed è fondatrice

 

da Jacobin Italia

 

 

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