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Le torture affiorate. Report da Ventimiglia

Questa volta siamo arrivati a Ventimiglia in treno la domenica mattina presto. Poiché si preannuncia una stagione molto intensa e un aumento del numero delle persone che non hanno alcuna assistenza sanitaria, i volontari dell’Associazione Ambulatorio Città Aperta di Genova, hanno iniziato a sostenere le spese dei nostri viaggi ed eventualmente dell’acquisto di farmaci d’emergenza.

Ci siamo recati immediatamente in casa di solidali presenti sul territorio, che conservavano i farmaci derivanti da donazioni precedenti e lì abbiamo portato via praticamente tutto ciò che restava di utile. Già dal nostro arrivo ci sono stati segnalati telefonicamente casi di infezioni cutanee e la presenza di molte persone che vivevano sul greto del fiume e che necessitavano di essere visitate.

Infatti, poco dopo essere giunti sulla sponda del Roya, presso il cimitero, ci siamo avvicinati al primo gruppo di una cinquantina di ragazzi e dopo neanche mezz’ora di visite avevamo finito tutti i farmaci.

La distribuzione delle persone non è cambiata rispetto alle nostre ultime discese a Ventimiglia. La gente è in prevalenza sotto il ponte con giacigli di fortuna tra cartoni e coperte. Non è molto evidente la cosiddetta “pulizia” messa in atto quotidianamente con tanto di ruspe e promossa dal sindaco Ioculano.

Le persone che abbiamo visitato, in prevalenza sudanesi, avevano in grande maggioranza patologie dell’apparato respiratorio (tonsilliti, bronchiti, tosse), dermatiti, ascessi cutanei e ferite varie. Un ragazzo presentava tagli infetti che gli erano stati fatti in un centro di detenzione in Libia a scopo di tortura.

Per fortuna, negli stessi giorni, era in atto tra Imperia e Ventimiglia un’assemblea di collettivi vari che aveva come obiettivo di aumentare la conoscenza della situazione della frontiera. Ci sono venuti in aiuto alcuni compagni dell’Autaut, collettivo politico genovese a noi ben noto e da noi frequentato spesso e della Talpa e l’orologio, centro sociale imperiese i cui militanti sono stati costantemente presenti nelle lotte e nel sostegno quotidiano delle persone in transito. Questi, vedendo che avremmo dovuto ancora incontrare la maggior parte delle persone presenti sul fiume (moltissimi ma difficilmente quantificabili poiché per la maggior parte accampate in gruppi separati e scarsamente visibili), si sono offerti di comprare i farmaci per la giornata di domenica.

Quindi, ci siamo recati alla farmacia di turno, dove con difficoltà estrema abbiamo fatto una spesa di circa 150 euro in farmaci, tramite un citofono e attraverso una saracinesca chiusa. Purtroppo avevano un solo antiscabbia e del tipo più costoso, per cui, date le numerose persone che ne avevano bisogno, ci siamo riproposti di affrontare questo problema nel futuro in maniera più organizzata.

Dopo un breve pranzo, siamo tornati a fare altre visite e ha deciso di unirsi a noi Cecilia, una compagna dell’Autaut, di cui riportiamo l’esperienza scritta:

Un ragazzo ha due cicatrici su un braccio, all’altezza del polso. Attirano l’attenzione perché di forma particolare: allungate e parallele l’una all’altra. Provando a chiedere come se le sia procurate, la risposta arriva puntualissima: Libia. Il racconto continua, tradotto da un altro ragazzo. Era stato arrestato dalla polizia libica la quale, per estorcergli 6.000 dinar, gli ha applicato sul braccio un filo elettrificato. Lui quei soldi non li possedeva e, alle violenze fisiche, si sono aggiunte quelle psicologiche: appena prima di rilasciarlo gli hanno dato da mangiare, del latte e del pane, dicendogli che se lo avessero ammazzato a stomaco vuoto dio li avrebbe puniti. Fortunatamente si trattava di un’ulteriore vessazione e non di intenzioni reali. A lui è comunque servito un mese per far guarire le ferite procurate dal filo elettrico, speriamo sia bastato anche per elaborare le sofferenze provocate da minacce e derisione. Scambiamo ancora qualche parola sul comportamento della polizia libica. Raccontano che, a volte, durante le torture, si viene obbligati a telefonare a casa, così i familiari, dall’altro capo del telefono, sentono le urla e i lamenti del loro caro e sono spinti a inviare il denaro.

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Continuando a chiacchierare con il gruppetto di francofoni, qualche ciadiano e un sudanese, si parla delle loro storie, di come sia stato il viaggio e di come stia andando, qui in Europa.

È in viaggio da un anno, ma in Italia da un mesetto e a Ventimiglia da 9 giorni. In Libia, per lui, non è andata poi così male: è meccanico e ha trovato un lavoro. Racconta il viaggio in mare: hanno «perso la strada» quasi subito e, dopo un giorno alla deriva, sono arrivati «gli italiani» a recuperarli. Nel frattempo, però, sul barcone sono morte 7 persone, 7 ragazzi del Bangladesh. La coincidenza della nazionalità per i morti rimanda ad altri racconti, che parlano di come i bengalesi siano costretti a occupare i posti peggiori delle imbarcazioni, spesso affrontando l’intero viaggio nella stiva, con le conseguenze che chiunque può immaginare. Da Ventimiglia ha provato ad entrare in Francia, a piedi. Ha passato tre giorni «in montagna», ma la polizia francese lo ha intercettato e riportato alla frontiera.

L’ultimo che si mette a raccontare è B., sudanese. È orgogliosissimo del suo francese fluente e chiede «lo avevi mai incontrato prima un sudanese che parla francese come me?». È giovanissimo, ha 21 anni. Spiega la sua predisposizione per le lingue raccontando dei molti viaggi che ha fatto in Africa: ha studiato fino a quando ha potuto, e poi ha iniziato a viaggiare. Adesso vorrebbe andare a Parigi e studiare lingue: conosce già inglese, francese e ovviamente l’arabo. Ha tentato di attraversare la frontiera, prendendo un treno da Torino, ma a Mentone è stato arrestato dalla polizia francese. Ha uno sguardo vivace e gli occhi si mettono a ridere quando inizia: «allora ho chiesto ai poliziotti: e io come faccio a passare in Francia? Loro sono stati un attimo zitti e poi hanno risposto: dalle montagne… però poi magari ti arrestiamo». Gli chiedo se veramente ha posto questa domanda ai poliziotti, lui scoppia a ridere e conferma“.

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Abbiamo quindi deciso di iniziare un percorso lungo il fiume partendo dal greto presso il piazzale davanti alla chiesa di sant’Antonio, risalendo dal cavalcavia della ferrovia dove anche in precedenza abbiamo visitato persone in particolare stato di disagio legato all’abuso di alcol. Infatti anche questa volta, qui incontriamo  un gruppo di ragazzi che avevano evidentemente bevuto con leggere infezioni cutanee, uno di loro (apparentemente sulla quarantina), ci dice confusamente di provenire dal Ghana e di essere stato un giornalista. Le patologie sono analoghe a quelle precedentemente incontrate. Medichiamo esiti di pregressi ascessi già drenati. Rimuoviamo un agocannula in una persona con un edema evidente agli arti inferiori allontanatasi spontaneamente dall’ospedale. Gli chiariamo che quella scelta a nostro avviso è stata un errore, ma rimuoviamo comunque l’accesso venoso, poiché avrebbe costituito una pericolosa via d’infezione in una situazione come quella. Passa il tempo tra una visita e l’altra e incontriamo e visitiamo anche un gruppo di afghani.

In seguito, avendo avuto informazioni in merito alla probabile presenza di donne in accampamenti nelle zone più distanti del fiume, abbiamo percorso tutto l’argine, fino a vedere abbastanza da vicino il cavalcavia dell’autostrada. Qui passavano casualmente, scortati dalla polizia e carabinieri, i soliti due autobus per la deportazione, diretti verso Taranto.  Si incontrano in questo sentiero numerosi insediamenti provvisori fatti anche di tende.

Almeno ora, a quanto abbiamo potuto osservare, le persone utilizzano l’acqua del fiume solo per lavarsi. Una sorta di precario accesso all’acqua pulita è stato fornito, ma certamente non dalle istituzioni. Infatti, per molto tempo e contravvenendo a ogni legislazione in merito ai diritti umani, tutti coloro che vivevano sul fiume hanno bevuto quell’acqua, nell’indifferenza generale, poiché a quanto pare non si voleva fornire nulla che migliorasse la vivibilità della sponda del fiume.

A conclusione della giornata, c’è stato un breve incontro, con un bilancio della giornata e alcuni progetti per il futuro, con i compagni dell’AutAut, che riteniamo potranno essere attori determinanti anche per la diffusione della consapevolezza sui fatti della frontiera anche sul territorio genovese e speriamo anche nazionale.

L’esperienza di questa giornata, associata alle notizie ottenute sul territorio, confermano l’opinione di un peggioramento della situazione, la confusione, il pressapochismo delle istituzioni, lo spreco di risorse, un atteggiamento esclusivamente repressivo la fanno da padrone.

Ad esempio, l’intendimento di chiudere l’accoglienza della chiesa di Sant’ Antonio convogliando famiglie e minori presso il centro della Croce Rossa oltre che illegale e logisticamente improbabile (il campo è già saturo e le persone sono spesso ospitate in tende al di fuori dei container), creerebbe una situazione di promiscuità inaccettabile e otterrebbe solo la conseguenza di trovare ancor più famiglie e minori lungo il fiume.

Lia Trombetta, Cecilia Paradiso, Antonio Curotto

da Effimera