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“L’emergenza Covid ha fatto esplodere tutta la brutalità insita nel carcere in sé”

«Non sempre è facile veicolare messaggi di solidarietà nella società, ancor più quando si parla di determinate categorie sociali. I detenuti sono visti con molta diffidenza, si presuppone che “se stanno in carcere qualcosa devono aver fatto”». Ci racconta Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha che da anni è impegnata a divulgare solidarietà sociale.

I sentimenti che accompagnano la maggior parte della società. Verso chi sta in carcere sono intrisi di pregiudizi e da una buona dose di “retorica della colpa” secondo la quale chi delinque lo fa perché è nato delinquente e vuole delinquere.

«Periodicamente organizziamo incontri tematici in collaborazione con le università – continua Sandra Berardi – le camere penali, circoli culturali, ultimamente anche online, e riscontriamo un grande interesse anche tra la gente “comune” non solo tra gli addetti ai lavori, tra gli studenti o tra i familiari. Il problema principale sta nella cattiva informazione che contribuisce a formare l’opinione pubblica in chiave giustizialista».

La maggior parte dei media, ci spiega, tratta l’argomento carcere e detenuti in maniera tale che la società non vada oltre l’equazione “Ha sbagliato? Si buttino le chiavi!” Poco ci si interroga rispetto al significato e alle origini delle pene, al perché del carcere, al chi stabilisce cosa è reato e come sanzionare chi infrange le regole di una comunità.

Ancor meno ci si interroga su come prevenire l’infrazione delle regole; quali siano le cause, i contesti in cui maturano; se esistono responsabilità sociali e politiche per alcuni “delitti”.

«Possiamo affermare tranquillamente che alcuni articoli della nostra Costituzione sono completamente ignorati dai più. Mi riferisco in particolare all’art. 3, l’obbligo per lo Stato a rimuovere le cause e gli ostacoli affinché tutti i cittadini possano avere le stesse opportunità senza distinzione alcuna. All’art. 27, ovvero al carattere “rieducativo” della pena. Inoltre credo che si confonda lo Stato con il governo e l’equivoco di fondo, e di comodo, è frutto di un processo di deresponsabilizzazione sociale che negli ultimi secoli ha completamente delegato a chi gestisce la cosa pubblica il benessere della comunità.

In tempi più recenti la politica, a sua volta, ha delegato la magistratura a gestire e regolare i meccanismi socio-economici determinando un approccio penalistico alla risoluzione di problematiche che necessiterebbero di risposte altre».

Il Covid-19 ha amplificato questa emergenza?

«L’emergenza Covid ha fatto esplodere tutta la brutalità insita nel carcere in sé. A cominciare dai numeri. Al 7 marzo la popolazione detenuta aveva oltrepassato di gran lunga la “capienza regolamentare” di 47.000 “unità” arrivando a contenere oltre 61.000 persone. 14.000 persone in più non sono un freddo dato statistico, sono persone ammassate in cameroni anche da 12/13 letti con un bagno-cucina per tutti in condizioni igienico-sanitarie precarie mentre i media, già nelle settimane precedenti il lockdown, avevano iniziato a martellare giorno e notte, a reti unificate, con il bollettino dei morti di Covid e le raccomandazioni per una accurata igiene personale ed evitare assembramenti. Tutte le paure, le tensioni e le contraddizioni si sono amplificate fino ad esplodere con la sospensione dei colloqui con i familiari.

E non è un caso che le rivolte siano scoppiate nelle sezioni “comuni”, le sezioni dove c’è una più alta concentrazione di persone con un tasso di sovraffollamento che in alcuni casi sfiora il 200%!

Con buona pace degli amanti della dietrologia, non c’è stata nessuna regia anarco/mafiosa dietro le rivolte di marzo, ma la sottovalutazione della reazione che avrebbero avuto persone già private della libertà, degli affetti, di un senso alla propria esistenza, -ed anche alla propria detenzione, condannate all’inazione per 20-22 ore al giorno-, alla notizia della chiusura dei colloqui con i familiari e l’impossibilità di mettere in pratica il distanziamento fisico.

A conferma dell’incapacità di gestire l’emergenza Covid in carcere possiamo sottolineare il colpevole ritardo nella predisposizione delle aree protette e la mancanza di Dpi nelle prime settimane di lockdown. Il dato che emerge ad una attenta analisi dell’azione di governo sulla popolazione detenuta è l’aver trattato in termini securitari una emergenza sanitaria mondiale che avrebbe necessitato ben altra attenzione politica come stava già avvenendo in altri paesi.

L’Iran, ad esempio, già il 3 marzo aveva predisposto la sospensione della pena a circa 70.000 detenuti; in Italia, invece, è stata messa sul banco (mediatico) degli imputati l’ormai famosa circolare del 21 marzo, e qualche capro espiatorio nei vertici del Dap, che seguiva le linee (di buon senso) dettate dall’OMS con effetti tragici per la popolazione detenuta, soprattutto per i detenuti anziani e gravemente ammalati.

Ritengo che il clamore sulla sospensione della pena a due/tre nomi “eccellenti” sia stato sollevato strumentalmente per due ordini di motivi: la quasi totalità dei media che ha trattato la questione ha omesso alcune questioni importantissime che, viceversa, se riportate correttamente, avrebbero ridimensionato molto il peso di queste sospensioni. Sul caso Bonura, ad esempio, si è omesso il fatto che a dicembre, dopo circa 6 mesi quindi, avrebbe finito di scontare per intero la sua condanna; omissioni analoghe si registrano nel caso Zagaria per il quale il magistrato di sorveglianza aveva disposto la sostituzione della misura detentiva per soli 5 mesi, il tempo di curarsi. Con l’insediamento dei nuovi vertici del DAP viene emanata una nuova circolare che ricalca quella precedente. E non poteva essere altrimenti visto che il diritto alla salute è l’unico diritto qualificato come fondamentale nella Costituzione italiana.

Quale è stato allora il vero obiettivo della querelle? Quando mi pongo questa domanda mi appaiono i volti dei 14 detenuti morti durante le rivolte.  E il fatto che su questi 14 morti, sui trasferimenti dei detenuti in piena pandemia, con diffusione di contagi, è pesato, e pesa, un silenzio istituzionale e mediatico gravissimo che dovrebbe far riflettere sullo stato della democrazia».

Far conoscere la realtà carceraria è importantissimo perché l’umanità che vi è reclusa fa parte delle nostre comunità e «non ci si può nascondere dietro la formula che la responsabilità penale è personale. La cura, l’attenzione dello Stato verso ogni suo componente deve essere a monte. Se impiegassimo tutte le risorse che vengono impiegate per la repressione per prevenire i fenomeni devianti e rimuoverne le cause potremmo anche riuscire a liberarci del carcere».

Ma quali sono le battaglie sociali portate avanti dall’associazione Yairaiha?

«Yairaiha sogna un mondo libero dal carcere. Da anni portiamo avanti la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis, in quanto riteniamo che siano una pena e un regime in netto contrasto con il dettato costituzionale che oltrepassano la barbarie del carcere in sé.

E poi il diritto alla salute; facciamo decine e decine di segnalazioni in merito alla salute negata e qualche campagna per l’applicazione degli istituti di tutela della salute dei detenuti (art. 47 OP e 32 della Costituzione). Ormai da tempo, e in diverse parti del mondo, intellettuali, giuristi e pezzi di movimenti sociali stanno elaborando ipotesi riduzioniste e abolizioniste dell’istituzione carceraria. Diverse esperienze concrete, come le comunità educanti per i carcerati da qualche anno attive anche in Italia su modello delle APAC brasiliane, attive già dagli anni ’70, puntano ad un processo partecipato di recupero del reo che gradualmente investe anche l’ambiente sociale in cui la persona ha maturato il delitto.

Questi tipi di percorsi, messi a confronto con la realtà carceraria ed i risultati (disastrosi) raggiunti, ci dimostrano il fallimento dell’istituzione carceraria per come è concepita in Italia».

Una pena che reclude e annienta la persona, la infantilizza, la priva degli affetti e del diritto alla salute, che le fa perdere la dignità di essere umano, è una pena dannosa e controproducente e, nella maggior parte dei casi, ottiene l’effetto contrario a quello professato dalla pretesa punitiva dell’azione penale.

«Nelle comunità educanti si indagano le ragioni del delitto e si progettano i possibili risarcimenti delle vittime; si accompagna la persona a comprendere il male fatto e a cercare di riparare. È un approccio completamente diverso che pone le basi per un processo di responsabilità collettiva rispetto ai fenomeni devianti. Fenomeni che, non dimentichiamolo, sono endogeni alla nostra società non corpi estranei».

Per scelta non hanno mai fatto visite autorizzate nelle carceri, «ma ispezioni insieme a parlamentari sensibili. Devo dire che negli ultimi anni i parlamentari italiani hanno pressoché rinunciato al potere/dovere di ispezionare i luoghi di detenzione “a sorpresa”. Fino allo scorso anno abbiamo effettuato tante ispezioni assieme con l’ex eurodeputata Eleonora Forenza (una delle ultime ad aver assolto pienamente alla sua funzione); la lista è lunga, ma le ultime ispezioni hanno riguardato Bari e la sezione femminile del carcere di Lecce. Dal carcere di Bari, ma anche da Poggioreale precedentemente, siamo uscite stravolte per il degrado strutturale e per quell’umanità reclusa.

La maggior parte delle persone detenute non sono “pericolosi criminali”, ma gente che vive di espedienti. Piccoli spacciatori e tossicodipendenti, parcheggiatori abusivi, ladruncoli, tantissimi con la doppia diagnosi (tossicodipendenti e con disagio psichico).

Tratto comune del 90% della popolazione detenuta è la provenienza geografica: meridionali e migranti. Uno spaccato sociale che ci restituisce, in carne e ossa, il carattere razzista e classista della fabbrica penale. E questa è la fotografia delle carceri, non solo in Italia».

Katya Maugeri

da sicilianetwork.info