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L’Europa non è mai guarita dal razzismo di Stato

Il taglieggiamento dei 5mila euro ai migranti per non finire nel Cpr voluto dal governo Meloni è solo l’ultimo tassello di una politica europea razzista e aporofobica

di Alessandro Canella

A dispetto della retorica delle celebrazioni del 27 gennaio e di altre occasioni per ricordare l’orrore nazifascista, l’Europa non è mai guarita dal virus del razzismo manifestatosi negli anni ’30 del secolo scorso con l’emanazione delle leggi razziali, ma contratto prima con le imprese coloniali. E per quanto vengano allestite campagne di comunicazione contro la piaga del razzismo e contro l’odio fomentato nella cittadinanza, sono gli stessi Stati, quindi le istituzioni, ad agire gravi forme di discriminazione sulla base della provenienza e del colore della pelle.

Le politiche migratorie dell’Europa e il razzismo istituzionale

Le politiche migratorie europee degli ultimi trent’anni sono chiaramente sbilanciate in chiave razzista, al punto da mettere in discussione o aggirare anche trattati e convenzioni internazionali nati nell’immediato dopoguerra proprio per impedire il ripetersi delle atrocità nazifasciste.
Le differenze con il razzismo “originale”, oltre che nella rivendicazione dello stesso, stanno nelle linee su cui si muove la discriminazione. Se nazismo e fascismo hanno preso a pretesto in modo fraudolento la genetica per colpire gli ebrei e altri popoli a piacimento, il razzismo europeo contemporaneo si combina con il capitalismo muovendo la discriminazione in chiave aporofobica. In altre parole, il colore della pelle e la provenienza si mescolano alla capacità economica vittimizzando chi non è europeo e non è sufficientemente ricco.

Le persone afrodiscendenti ricche non hanno troppi problemi ad ottenere un visto o un permesso di soggiorno e nemmeno a militare o candidarsi con partiti smaccatamente razzisti come la Lega. Quelle povere, invece, sono sottoposte a indicibili angherie che, oltre a privarle di dignità, mettono a rischio la loro stessa vita.Prima dell’allargamento a est dell’Ue per interessi geopolitici, la medesima sorte spettava anche a persone dalla pelle bianca, in tutto e per tutto mitteleuropee. A fare la differenza era la combinazione provenienza-ricchezza.

È nelle ultime due decadi del ‘900 che l’Europa interviene per via legislativa per gettare le basi per quella che diventerà una vera e propria fortezza.Dopo gli scambi commerciali, il progetto dell’Ue vuole fare uno scatto politico e con i trattati di Maastricht e Schengen si vuole al contempo creare la cittadinanza europea e favorire la mobilità comunitaria. Ma nel farlo l’Europa manifesta lo stimolo condizionato nazionalista non ancora superato. La nazione viene ampliata in unione, ma lo schema e il retaggio sono quelli del passato. L’identità della cittadinanza europea viene costruita per opposizione e così, se da un lato cadono le frontiere interne, dall’altro vengono rafforzate quelle esterne, che anzi vengono esternalizzate dal territorio europeo. In altre parole, per far capire a un italiano, un tedesco o un greco di essere europeo, si sottolinea e si “protegge” da ciò che non lo è.

Ovviamente un progetto identitario di questa natura deve poggiare su un’architrave legislativa. Per questo, oltre al già citato Trattato di Schengen – conosciuto per la libertà di movimento, mentre cela un lato oscuro di impedimenti per chi non è cittadino – in tutta Europa sul finire del secolo scorso è stata introdotta la assai poco democratica detenzione amministrativa. Si tratta di una forma di reclusione che trascende il codice penale e investe aspetti amministrativi: la mancanza di un titolo di soggiorno.

La detenzione amministrativa è un elemento dirimente nello stato di diritto, perché abbassa notevolmente la soglia della pena e lo fa – per come è stata applicata – su base etnica: se non sei cittadino di questa comunità non puoi usufruire nemmeno delle garanzie dell’ordinamento, perché esse non si basano su criteri universali, ma di cittadinanza, quindi di appartenenza.
Ad introdurre la detenzione amministrativa in Italia fu, contrariamente alla narrazione che viene fatta, il centrosinistra con la legge Turco-Napolitano del 1998. Proprio l’ex presidente della Repubblica, di cui si piange la scomparsa in queste ore e per il quale vengono spesi encomi postumi, è corresponsabile della sofferenza di migliaia di persone rinchiuse in vere e proprie prigioni senza aver commesso reati e senza poter usufruire delle garanzie riservate ai detenuti.

Xenofobia e aporofobia: le nuove forme del razzismo

In Italia, però, la detenzione amministrativa è solo un tassello della legislazione razzista. L’altro fondamentale elemento è il legame introdotto dalla legge Bossi-Fini tra permesso di soggiorno e lavoro.
È proprio quest’ultimo elemento a simboleggiare meglio la nuova forma di razzismo europeo, ibridato con l’aporofobia: il diritto a restare è vincolato alla capacità economica.
La misura sottende una visione strumentale dello straniero, che viene tollerato solo nella misura in cui possa rappresentare forza lavoro, spesso in settori o per professioni che gli autoctoni non vogliono più svolgere.Il ricatto è evidente: se non hai un lavoro non hai il permesso di soggiorno, quindi devi accettare qualunque condizione lavorativa per restare.

Alla luce di queste impostazioni non sorprende la misura estorsiva del governo Meloni, che pretende dai migranti una cauzione di quasi 5mila euro per scongiurare la reclusione nel Cpr. La logica è la medesima delle politiche europee ed è una sorta di compromesso tra la xenofobia e il razzismo istituzionale e la realtà dell’incontenibilità del fenomeno migratorio: se non posso impedirti di arrivare – nonostante la chiusura di tutti i canali legali di accesso, nonostante gli accordi con i dittatori per contrastare i flussi e nonostante il rischio di morire nel Mediterraneo, almeno ti taglieggio e lucro su di te, riponendo l’unica tua chance di dignità nella capacità economica.

Eppure, anche abbandonando la retorica dei diritti umani di cui spesso l’Europa si riempie la bocca, una gestione diversa del fenomeno migratorio gioverebbe all’Europa stessa, ad esempio per contrastare la grave crisi demografica che l’attanaglia.
Non solo: l’apertura di canali legali di accesso permetterebbe di infliggere un durissimo colpo al crimine, nello specifico al traffico di esseri umani.
Ciononostante l’Europa persevera con politiche fallimentari e razziste, perché l’impostazione stessa della cittadinanza europea è basata su criteri nazionalistici, in una continuità inquietante, ancorché ammantata di democrazia, con gli orrori che l’hanno attraversata meno di un secolo fa.

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