In Libia abusi sui migranti durante e dopo le intercettazioni in mare
Motovedetta libica spara contro la nave dei soccorsi. Mentre si cercano ancora i dispersi nelle Canarie, la missione Onu a Tripoli denuncia violenze, stupri, torture e accusa le autorità per abusi e traffico di persone
di Nello Scavo
A Lampedusa è il mare a raccontare cosa succede dall’altra parte. Quel mare che porta barche a pezzi, vite aggrappate, e altre perdute senza che se ne saprà mai nulla. Cambiano i nomi e le latitudini, ma la storia si ripete uguale. Sulle Pelagie, sulle Canarie, nell’Egeo. Nel 2023 sono già 1.875 le persone morte o disperse nel Mediterraneo, più di 300 sulle altre rotte africane. Come quella dal Senegal a Tenerife, dove diverse squadre di soccorso spagnole cercano tre caicchi con a bordo almeno 300 migranti. Uno è stato avvistato da un velivolo nel pomeriggio di ieri. Vagava alla deriva dal 27 giugno. Non si sa quanti siano ancora vivi. Un quarto caicco, di cui nessuno sapeva, è sbucato davanti a Gran Canaria con 85 persone.
Non si muore di solo mare. Si viene uccisi a terra, specialmente in Libia, dove la missione Onu a Tripoli ha denunciato nuovamente la commistione criminale tra autorità e trafficanti, spesso rendendo indistinguibili gli uni dagli altri.
Sulla rotta africana occidentale il gruppo umanitario “Walking Borders” afferma che il 27 giugno tre barconi hanno lasciato Kafountine, una città costiera nel sud del Senegal a circa 1.700 km da Tenerife, sei volte la distanza tra Tripoli e Lampedusa. Il servizio di soccorso marittimo spagnolo ha confermato che un pattugliatore aereo si è unito alle ricerche e che è stato avvistato un barcone a 71 miglia nautiche a sud di Gran Canaria. A bordo, secondo una prima stima, potrebbero esserci 200 persone, ma non si sa in che condizioni si trovino né che fino abbiano fatto altri due barchini con 125 persone. Dalle coste dell’Africa occidentale partono soprattutto migranti e profughi dal Marocco, dal Mali, dal Senegal, dalla Costa d’Avorio e da altre regioni subsahariane. L’anno scorso almeno 559 migranti sono morti in mare nel tentativo di raggiungere le isole spagnole, afferma l’Organizzazione Onu per le migrazioni (Oim). Nel 2021 le vittime accertate erano state 1.126. Tuttavia l’Oim ribadisce che le informazioni sul numero di partenze dall’Africa occidentale sono scarse e i naufragi spesso non vengono segnalati.
A Lampedusa scuotono le spalle. Chi per rassegnazione chi per disinteresse. «Per chi non li ha mai visti in mare, né da vivi né da morti – dice Enzo, pescatore che con la sua famiglia i migranti li ha accolti a casa dopo averli strappati agli abissi -, ormai non sono persone, ma numeri. Di questo passo diventeremo come i libici». L’hotspot trabocca di uomini, donne e bambini. Solo ieri gli sbarchi sono stati 13, con quasi 650 persone in aggiunta ai 1.200 di domenica.
Vista dal Molo Favaloro, la Libia non è mai stata un mistero. La verità la conoscono tutti: «Nelle acque internazionali non possiamo più pescare – si lamenta Filippo, che sul molo scioglie i nodi delle reti -. Le motovedette che gli regaliamo a quelli di Tripoli poi le usano contro di noi». Domenica uno di quei pattugliatori libici “Made in Italy” ha letteralmente sparato contro la Croce rossa. I guardacoste hanno premuto il grilletto in direzione dei gommoni di “Sos Mediterranee” con l’equipaggio della Federazione internazionale della Croce rossa che stava soccorrendo un barcone di profughi. Nessun ferito, ma niente di nuovo. Cosa facciano le cosiddette guardie costiere libiche per le agenzie delle Nazioni Unite è fin troppo chiaro. Il rapporto annuale dell’Unsmil, la missione Onu a Tripoli, punta il dito sia contro le operazioni di intercettazione in mare dei migranti, sia sulle fasi successive. La filiera degli abusi, infatti, continua a tenere insieme gli uomini con la divisa e gli affiliati senza mostrine. «Durante queste operazioni e al momento dello sbarco in Libia – si legge -, i migranti e i rifugiati hanno continuato ad affrontare gravi problemi di diritti umani e protezione». L’elenco è noto: «Detenzione arbitraria in condizioni disumane con assistenza umanitaria limitata e alto rischio di tortura, lavoro forzato, estorsione, violenza sessuale e traffico di esseri umani» che viene perpetrato da una rete composta da «gruppi armati, contrabbandieri transnazionali e attori statali».
Il sostegno pressoché incondizionato di Paesi come l’Italia non viene subordinato al potenziamento dei diritti umani e neanche delle libertà civili. Pochi giorni fa l’inviato delle Nazioni Unite a Tripoli ha denunciato davanti al consiglio di sicurezza Onu che “l’Agenzia per la sicurezza interna ha introdotto una nuova procedura che limita la libertà di movimento delle donne, richiedendo a quante partono da sole dagli aeroporti libici della regione occidentale di compilare un modulo sulle ragioni del viaggio all’estero senza un accompagnatore maschile”.
La conferma che «per quanto riguarda la situazione dei diritti umani, i diritti e le libertà fondamentali si sono erosi», insiste l’Unsmil. E se le cose non vanno bene per i libici, figurarsi per gli stranieri, che subiscono «le diffuse violazioni e gli abusi, con i gruppi armati che operano al di là del campo di applicazione della legge e commettono violazioni impunemente, tra cui arresti e detenzioni arbitrarie su larga scala, uccisioni illegali, sparizioni forzate, uso eccessivo della forza contro manifestanti pacifici, violazioni contro i migranti e i rifugiati, tra cui il traffico di esseri umani e il lavoro forzato». Un inferno che le foto opportunity della politica non riescono a cancellare.
Nel paese è stimata la presenza di circa 700 mila migranti (a dicembre erano 694.398) in maggioranza provenienti da Niger, Egitto, Sudan, Ciad e Nigeria e nel 2022 nonostante l’aumento delle partenze e la continua fornitura di motovedette ed equipaggiamento alle milizie del mare “il numero di migranti e rifugiati intercettati nel Mediterraneo e rimpatriati dalle autorità libiche è diminuito da 30.990 persone nel 2021 a 24.788 nel 2022 con 263 operazioni di intercettazione”.
Promesse in Libia e miraggi a Lampedusa. Ieri è stato il governatore Renato Schifani a rassicurare il sindaco Filippo Mannino, che chiede fondi per la raccolta dei rifiuti, la rimozione degli scafi abbandonati e i costi della sepoltura per le vittime ignote del mare.
Come ogni estate in via Roma, tra apericena dai nomi esotici e la vista sul placido porto, si ripete la litania di chi sostiene che a causa degli sbarchi il turismo ne esce a pezzi. Ma anche quest’anno i voli per Lampedusa sono sold-out. Trovare un posto in aereo è un’impresa e scovare una camera richiede buone conoscenze sul posto, assai più efficaci dei migliori motori di ricerca. Anche perché il confine tra operatori registrati e l’anarchia dei posti letto messi a disposizione con il passaparola è un segreto di pulcinella che sta irritando quei lampedusani che vorrebbero vedere in giro meno guardia di finanza.
Non tutti però la pensano come Enzo. E c’è chi ad ogni rombo di aereo in arrivo sulla vicina pista, esclama: «Arrivano i pìccioli». Già, perché i turisti sono fiumi di soldi, quei “pìccioli” con cui riempire le tasche, le spiagge, e i prezzi che corrono più veloci dei voli low cost.
Anche Pietro Bartolo, ora europarlamentare e già medico di “Fuocammare”, della stagione di Lampedusa da Oscar e da Nobel, si guarda sconsolato. Qualcosa nella magia dell’isola incontaminata e dei diritti umani prima di tutto, si sta spezzando. E se i giornalisti non sempre sono visti di buon occhio («state rovinando l’immagine di Lampedusa e danneggiate il turismo», ci rinfacciano dalla gastronomia dove si fa la coda come alle poste e i lavapiatti non riescono a star dietro all’ininterrotto viavai di clienti.
A poca distanza un anziano che non ha più la forza per stare in barca a pescare, arrotonda la misera pensione vendendo capperi all’angolo della strada. Dice di lasciar perdere con quei discorsi, che la gente di terra «oramai è confusa come quelli che prendono il mare senza una bussola». E non serve cercare spiegazioni remote a questo naufragio: «Perché tra uomini e pìccioli, vincono sempre “gli uomini coi pìccioli” e a Lampedusa ora ci crediamo che i soldi e il futuro arrivano con l’aereoplano e non più da tutto quello che ci porta il nostro mare».
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La motovedetta libica spara contro la nave dei soccorsi
La denuncia di Sos Mediterranee, della Federazione della Croce Rossa: durante il trasbordo di persone in difficoltà, l’imbarcazione libica ha sparato. «È la terza volta nel 2023»
Per la terza volta nel 2023 le motovedette libiche fornite dall’Italia hanno sparato sugli equipaggi della Federazione internazionale della Croce rossa. Un crimine sanzionato dal diritto internazionale, ma che Tripoli continua a commettere confidando nel silenzio delle autorità, in particolare quelle italiane che continuano ad equipaggiare le varie milizie del mare affiliate a vari ministeri di Tripoli.
«L’equipaggio a bordo della nave di soccorso umanitaria Ocean Viking, gestita da Sos Mediterranee dalla Federazione Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa – si legge in una nota congiunta -, ha risposto a una chiamata di mayday su una piccola imbarcazione in difficoltà in acque internazionali al largo delle coste libiche. È stata la seconda operazione della giornata, dopo un primo salvataggio di 46 persone avvenuto anch’esso in acque internazionali nella regione libica di ricerca e soccorso».
A quel punto, mentre il trasbordo dal barchino ai gommoni era in corso e, come si nota dai filmati, la Ocean Viking si era identificata via Radio, la motovedetta (una classe Corrubia appartenuta in passato alla Guardia di finanza) ha puntato la prua e soprattutto i mitraglieri contro i soccorritori. I filmati dalle “onboard camera” riprendono i soccorritori a rannicchiarsi insieme ai migranti per sfuggire alla traiettoria dei proiettili.
L’episodio è di venerdì scorso. «La guardia costiera libica ha sparato colpi di arma da fuoco in prossimità dell’equipaggio di salvataggio. Si tratta del terzo incidente di quest’anno, che si inserisce in un contesto di crescente insicurezza nel Mar Mediterraneo», ribadiscono le organizzazioni umanitarie.
I naufraghi e i membri dell’equipaggio sono riusciti a mettersi in salvo a bordo della Ocean Viking, ma tutti sono sotto choc e alcuni hanno riportato ferite a causa delle manovre della guardia costiera libica. Giannis, leader del gommone di salvataggio più vicino alla motovedetta, ha spiegato che «l’impatto della scia creata deliberatamente dalla motovedetta libica sulle nostre imbarcazioni è stato così forte che mi sono ferito alla schiena. Mentre continuavano a sparare e a inseguirci, la sicurezza delle persone soccorse e dell’equipaggio era nelle mani di un uomo armato».
da Avvenire
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