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L’Italia continua ad armare Israele

L’inchiesta di Altraeconomia: 817mila euro in armamenti dopo il 7 ottobre, nonostante le rassicurazioni di Tajani e Crosetto. A fermare le nuove licenze è l’Uama, non il governo. Intanto la legge 185/90 sull’export è a rischio

di Alba Nabulsi da il manifesto

Due giorni fa un’inchiesta, iniziata a ottobre, di Altraeconomia ha dimostrato tramite dati Istat come le armi italiane continuino a essere vendute a Israele. Ciò accade nonostante i tweet del ministro Crosetto secondo cui l’Italia avrebbe interrotto il commercio militare verso Tel Aviv dopo il 7 ottobre, come riportato anche in parlamento.

La realtà, come racconta Duccio Facchini, autore dell’inchiesta, è ben diversa: tra ottobre e novembre 2023 l’Italia ha esportato «armi e munizioni» verso Israele per un valore di 817.536 euro: 233.025 euro a ottobre e 584.511 a novembre, come riportano le statistiche Istat aggiornate.

LE PROTESTE dei portuali e dei relativi sindacati già avevano sollevato il dubbio mesi fa, quando dalle coste italiane diversi carichi erano stati contestati dai blocchi e dalle manifestazioni a Salerno, Ravenna e Genova su iniziativa di gruppi pro-Palestina, Usb e SI Cobas.

Già da mesi Rete italiana Pace e Disarmo ha evidenziato come il disegno di legge di iniziativa governativa 855 in discussione al Senato minacci pesantemente i meccanismi di controllo dell’export di «materiali d’armamento», in modifica alla precedente legge 185/90, indebolendo i meccanismi di trasparenza, i processi decisionali e di controllo afferenti all’industria delle armi.

«Ma come è possibile pensare che per un prodotto come le armi non si debbano tenere in considerazione gli impatti devastanti che procurano? Già nella situazione attuale sappiamo bene che non sempre le autorizzazioni rilasciate sono state in linea con i criteri della Legge 185/90 e dei trattati internazionali, se il ddl 855 dovesse passare la situazione peggiorerebbe, in particolare sulla questione degli intrecci tra finanza e produzione di armamenti» commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Opal e Ripd.

Interessante osservare come il rilascio delle forniture militari a Israele sia stato rallentato non dal governo ma dall’ente preposto al rilascio delle licenze nuove all’esportazione di armamenti, la Uama. Dal 7 ottobre, a quanto si è potuto evincere dal dibattito parlamentare, pare che Uama non rilasci più nuove licenze per chi intenda commerciare verso Israele, ma la decisione non ha effetto retroattivo. Non può sospendere l’integralità dell’invio di materiale militare né sospendere i contratti già firmati.

CONTINUA Beretta: «Le dichiarazioni dei ministri Crosetto e Tajani circa la sospensione delle forniture di materiali militari a Israele sembrano rispondere più a una diatriba politica con le opposizioni che a una scelta operata dal governo Meloni. Non è un caso che entrambi i ministri abbiano evidenziato che sia stata compiuta da Uama. Per sospendere le licenze rilasciate negli anni scorsi, e quindi per sospendere l’invio di tutti i materiali militari a Israele, è necessario un decreto ministeriale di cui non a oggi c’è traccia. Ma c’è di più: il disegno di legge del governo Meloni (Atto Senato 855) che è già stato approvato al Senato, intende sottoporre al veto del governo proprio i divieti che l’autorità nazionale Uama decide sulla base delle norme nazionali sul commercio di armi».

Nonostante al nostro paese sia costituzionalmente precluso il sostegno militare a un paese belligerante, lo status di eccezione che contraddistingue la politica del governo Meloni nei confronti di Israele segna un altro traguardo, rendendoci complici militari di un genocidio. Senza menzionare i negoziati già avviati con Tel Aviv per l’implicazione di Eni nella gestione delle risorse minerarie palestinesi di Gaza, territorio occupato e assediato in contrarietà al diritto internazionale. Sullo sfondo però è una chiara ridefinizione del rapporto al commercio delle armi che va profilandosi, con conseguenze che fatichiamo ancora a immaginare.

 

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