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Lo Stato di emergenza che crea l’emergenza

I bandi prefettizi per la gestione dei centri di accoglienza straordinari vanno sempre più deserti. E gli enti del Terzo settore si rifiutano di recitare la parte dei “controllori”. La tempesta perfetta si verificherà con gli effetti del “decreto Cutro”. La riflessione di Emanuele Manzoni, assessore alle Politiche sociali a Lecco

di Emanuele Manzoni

Leggendo le parole di alcuni esponenti delle forze politiche al governo nei giorni appena successivi la dichiarazione dello “Stato di emergenza per incremento flussi migratori”, pare ci dovremo rassegnare all’ennesimo dibattito grottesco su un tema che è invece fondamentale. D’altronde, in questi anni si è continuato a speculare politicamente sulla pelle delle persone piuttosto che cogliere ciò che stava avvenendo e provare a costruire un sano e robusto sistema di accoglienza che prevedesse anche un serio coinvolgimento dell’Unione europea.

In particolare, dal 2011 in avanti si è preferito buttare la palla fuori dal campo accusando i “buonisti” di essere responsabili degli arrivi via mare e via terra. Eppure, oggi, con una presidente del Consiglio che ha fatto del “blocco navale” il suo cavallo di battaglia in campagna elettorale, ci troviamo di fronte uno scenario sostanzialmente immutato. Questo dimostra ciò che già si sapeva: la destabilizzazione di interi Paesi a causa dei conflitti, la crisi climatica, i processi di desertificazione, la disparità di accesso a beni e risorse rendono le migrazioni fenomeni strutturali che bisogna attrezzarsi a gestire. E per questo la propaganda non basta. Serve la politica.

Invece oggi ci troviamo ancora con un sistema d’accoglienza fragile, frammentato, molto spesso avulso dalle politiche territoriali e affidato alla buona volontà di alcuni Comuni e del Terzo settore. Esistono (almeno) tre modelli di accoglienza diversi che fanno addirittura riferimento a ministeri differenti. Nella stessa città di Lecco -da dove scrivo- ci sono attivi i Centri di accoglienza straordinaria (Cas) che dipendono dal ministero dell’Interno, il progetto Sai (Sistema di accoglienza e integrazione) che coinvolge direttamente il Comune e il progetto della Protezione civile inaugurato per l’accoglienza delle persone ucraine e russe in fuga dal conflitto scoppiato nel febbraio scorso.

La diversità è una ricchezza ma non se diminuisce la capacità delle istituzioni e del Terzo settore di creare una cabina di regia e di monitorare l’impatto delle politiche di integrazione che i territori portano avanti. In questo caso il rischio è quello di operare scoordinati e in ritardo rispetto ai flussi, con una sensazione di perenne affanno e fatica.

In questi anni ci sono state esperienze straordinarie di solidarietà e accoglienza -anche nel lecchese- ma non sono riuscite a divenire “sistema” perché, mentre nei territori si lavorava con gli strumenti della coesione sociale a livello governativo le politiche migratorie hanno sempre avuto il sapore della sicurezza e del controllo.

Questa discrasia alimentata -dobbiamo dircelo- da governi diversi, sta portando a una pericolosa frattura tra centro e territori. Ormai i bandi delle prefetture per la gestione dei centri per richiedenti protezione internazionale vanno deserti. Le condizioni che vengono proposte, sostanzialmente quelle che derivano dai decreti Salvini del 2018, non permettono agli enti del Terzo settore di poter fare davvero accoglienza. E così, semplicemente, non partecipano. Le recenti dichiarazioni di alcuni ministri che farneticano di “sostituzione etnica” non fanno che allontanare cooperative e associazioni che non vogliono essere complici di un sistema che non tutela sufficientemente la dignità della persona e temono di trovarsi schiacciate in un ruolo di semplici “controllori”, non essendo questa né la loro mission né parte del loro dna.

La tempesta perfetta si verificherà non appena sui territori si vedranno gli effetti della conversione in legge del “decreto Cutro”, che conferma lo smantellamento della protezione speciale (ex umanitaria) che premiava i percorsi di integrazione. Questo provocherà inevitabilmente un aumento delle situazioni di illegalità e l’impossibilità per molte persone di lavorare regolarmente, creando maggiore insicurezza nei nostri territori. Persone che da anni lavorano regolarmente, senza permesso di soggiorno si troveranno inoccupate o obbligate a dover lavorare in nero. L’impossibilità poi di fare domanda di residenza impedirà ai Comuni qualsiasi forma di presa in carico o l’iscrizione negli elenchi dei medici di medicina generale. Una situazione sociale potenzialmente esplosiva.

E sarà stato dunque lo Stato d’emergenza ad aver (ri)creato l’emergenza. E quindi? Da dove ripartire?

Quello che abbiamo sempre detto è salvare vite umane, creare canali legali di arrivo, generare politiche di accoglienza non assistenziali, garantire diritti di cittadinanza per le persone straniere. Questo deve significare superare la “Bossi-Fini”, attivare progetti di salvataggio in mare, garantire corridoi umanitari per le popolazioni in fuga e meccanismi di redistribuzione europei a partire dalla storia e dai desideri delle persone migranti, abrogando definitivamente il regolamento di Dublino, valorizzare l’accoglienza diffusa e dunque il Sai (Sistema di accoglienza e integrazione) investendo più risorse in collaborazione con gli enti locali per un’integrazione effettiva. E poi, Ius Soli per i figli di cittadini stranieri nati in Italia e possibilità per le persone straniere residenti di accedere ad ammortizzatori sociali senza passare per le forche caudine dei requisiti di longevità nel nostro Paese che escludono molto spesso chi ha più bisogno da strumenti come, per esempio, il (fu) Reddito di cittadinanza.

Tutto questo (e altro ancora) permetterebbe di attivare il potenziale solidale delle nostre comunità e valorizzare l’incontro tra persone che abitano il territorio e persone che arrivano, facendo perno su ciò che tutti desideriamo: una vita sicura, libera, dignitosa, fondata sul lavoro, come la nostra Repubblica. Se pensiamo, come credo, che questo programma sia inattuabile dalla maggioranza che sostiene il Meloni I, teniamolo almeno come spunto per il prossimo che verrà.

da altreconomia

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